Il 21 aprile 1933 Martin Heidegger fu eletto
rettore dell’Università di Friburgo. Adolf Hitler era al potere dal 30 gennaio,
il 1° maggio Heidegger aderiva ufficialmente al partito. Il 27 maggio tenne la
prolusione inaugurale, L’autoaffermazione dell’università tedesca,
una rivendicazione della missione politica dell’università, che doveva
schierarsi in prima linea nella costruzione del nuovo ordine. Era il tempo
della chiamata del destino: il filosofo aveva risposto, ponendosi alla guida
della sua comunità, pronto per la «lotta» (parola che ritorna ossessivamente
nel discorso) in un cammino «da cui non vi è ritorno». Come Platone, pensarono
tanti (e molti ripetono oggi), che nella Repubblica aveva descritto lo Stato ideale e non
aveva esitato a imbarcarsi per Siracusa, pieno di vergogna se si fosse rivelato
un filosofo «buono solo a parlare, ma incapace di tradurre in atto le sue
idee».
Il rinvio era quasi d’obbligo. Nella Germania
di quegli anni Platone era, insieme a Nietzsche, un punto di riferimento
imprescindibile, tanto per ideologi come Hans Günther o Alfred Rosenberg quanto
per gli studiosi eredi della grande tradizione accademica tedesca. Sempre in
quel 1933, ad esempio, Kurt Hildebrandt, professore a Kiel, pubblicava Platone.
La lotta dello spirito per la potenza, un tomo voluminoso e
tutt’altro che banale (fu tradotto anche in italiano da Giorgio Colli, per
Einaudi nel 1947), per celebrare l’eroica battaglia di Platone in difesa della
patria, contro caos e disordine. Platone, il filosofo guerriero e «l’educatore
dell’uomo tedesco». Il titolo, con la parola Kampf, «lotta», a evocare il Mein
Kampf di Hitler,
spiegava da solo fin troppo.
Nello stesso spirito, il discorso di Heidegger
culminava con una citazione di Platone, esaltante e minacciosa allo stesso
tempo: «Tutto ciò che è grande è nella tempesta». Era come un crescendo
wagneriano, capace di evocazioni inattese, di paralleli illuminanti. «Tempesta»
in tedesco è Sturm: comeSturm-Abteilung, le SA, insomma, le famigerate camicie
brune, che avevano accompagnato il Führer alla conquista della Germania e che
ora sedevano tra i banchi dell’Università di Friburgo, raccolte intorno al
filosofo nell’ora decisiva. Il sogno di Platone finalmente si avverava.
Il problema, però, è che Platone aveva scritto
un’altra cosa. Convinto che tra il greco e il tedesco corresse un’affinità
intima ed essenziale, Heidegger non ha mai avuto paura di tentare traduzioni
ardite in cerca di sensi reconditi o verità nascoste. Ma in questo caso (e non
è il solo) nessuna rivelazione attende il lettore: molto banalmente la
traduzione è sbagliata. Nel testo si legge che «ciò che è grande è instabile».
Non è un dettaglio da poco, perché cambia tutto. La distanza tra Heidegger e
Platone si misura anche da qui.
Nato nel 1889, Heidegger ha accompagnato la
Germania nella catastrofe da adulto. Platone ha assistito al tracollo di Atene
da giovane. La guerra persa contro Sparta, il conflitto civile in cui gli
aristocratici (molti dei quali suoi parenti) si erano macchiati di violenze e
misfatti, il processo democratico contro Socrate: non c’è da stupirsi se maturò
la convinzione che si dovessero cercare nuove strade, lontano dalle piste
battute della politica tradizionale, per rifondare la città su basi solide. E
questo il senso della tesi tanto abusata della Repubblica:
non ci sarà fine ai mali degli uomini fino a quando i filosofi non governeranno
o i governanti non diventeranno filosofi. La filosofia deve farsi carico della
città. Ma non c’è niente di enfatico nelle parole di Platone. Socrate prevede
che la sua affermazione sarà accolta da derisione e disprezzo; Glaucone, il suo
interlocutore, paventa addirittura che molti lo inseguiranno con i bastoni.
Come succede al filosofo nel mito della caverna: cerca di liberare i suoi
compagni dalle catene e loro lo uccidono. Allegorie trasparenti, che evocano la
morte del Socrate storico e rivelano il disincanto di chi sa quanto sia
difficile opporsi al potere dei pregiudizi e dell’ingiustizia.
Ma perché impegnarsi allora, tornare nella
caverna?
È la domanda che, in quegli stessi anni, si
poneva Leo Strauss: ebreo, aveva seguito le lezioni di Heidegger, e presto
sarebbe stato costretto all’esilio. Con Platone nella valigia, leggendolo e
rileggendolo, in cerca del suo messaggio profondo. I problemi in effetti non
mancano, perché la Repubblica si regge su una contraddizione
evidente. La gente non vuole che il filosofo governi (e infatti lo uccidono);
il filosofo, immerso nelle sue conoscenze, non ha nessun interesse a governare:
perché mai dovrebbe allora rientrare nella caverna? Non sarà che la Repubblica, paradossalmente, ci vuole
insegnare proprio il contrario di quello che afferma,, vale a dire che politica
e filosofia devono restare separate? Era un’idea che aveva solleticato
Aristotele, come spiega Giuseppe Cambiano nel suo ultimo libroCome nave in tempesta (Laterza), e che Strauss ha sviluppato
approfonditamente, a partire dal saggio Una nuova interpretazione della filosofia politica
di Platone (pubblicato
nel 1946 e ora tradotto da Quodlibet).
Il filosofo, però, rientra nella caverna.
Perché? Forse perché, a pensarci bene, non ne è mai uscito. Perché è sulla
stessa barca, spiega ancora Cambiano, e rischia di affondare con gli altri. E
soprattutto perché, senza la compagnia degli altri uomini, non sarebbe più uomo
neanche lui. Non gli resta allora che combattere per le sue idee, discutere,
spesso esporsi al ridicolo, a volte rischiare la vita. In fondo l’utopia
platonica è tutta qui: non l’elaborazione di un modello perfetto da imporre con
la forza, ma una riflessione critica che ci aiuti a comprendere e correggere il
mondo in cui viviamo. Tra ideale e reale c’è sempre una frizione, un contrasto
latente. Il rischio, ben presente nelle scelte di Heidegger, è quello di
dimenticare il primo per appiattirsi sul secondo; il compito della filosofia,
per Platone, è evitare questa deriva, che conduce al cinismo di chi pensa che
nulla possa cambiare, e che l’affermazione di se stesso sia l’unico valore da
adottare. Immaginare il non-luogo (l’utopia, appunto) per tenere aperto il
campo del possibile, come ha detto Paul Ricceur. Per questo, quando ne ha avuta
la possibilità, Platone si è imbarcato alla volta di Siracusa, per convertire
Dionisio alla filosofia.
Riesce difficile immaginare qualcosa di analogo
tra Heidegger e Hitler. Non ci sono destini da cavalcare, ma la consapevolezza
di chi è pronto a impegnarsi per cambiare quello che non va. Contro il suo
tempo, per il suo tempo. Non è un compito facile, il prezzo da pagare a volte è
alto. Ma «ciò che è grande è instabile»: fragile, rischioso, e per questo deve
essere difeso.
Heidegger e Platone, insomma, divergono perché
hanno una diversa concezione della realtà e del filosofo – dell’intellettuale,
diremmo noi oggi. Il libro di Donatella Di Cesare sui Quaderni
neri, da poco uscito in seconda edizione, aiuta a chiarire il
problema. Per Heidegger, il filosofo è organico alla sua comunità, radicato
nella sua terra; parla in suo nome e in sua difesa, da lei traendo ispirazione
e autenticità. Sono idee condivise in quegli anni, che ritornano anche oggi nel
rinvio ossessivo alle nostre radici, manco fossimo alberi, o nei continui
inviti a difendere e preservare la nostra identità (senza peraltro mai chiarire
in cosa consista, poi, questa identità). La polemica è contro chi rifiuta
questo rapporto: «sradicati», incapaci perciò di profondità; privi di legami
con la comunità del popolo, indifferenti dunque al destino della patria che li
nutre. Pericolosi. Il bersaglio principale, inutile dirlo, erano gli ebrei, il
popolo del deserto, dove non si possono mettere radici. E con loro gli
intellettuali, capaci solo di pensieri astratti, propagatori di principî vuoti perché universali. Ma non è
questa anche la posizione di Platone?
Il termine più usato per descrivere Socrate,
nei dialoghi platonici, è atopos. Lo si traduce spesso con
«bizzarro, strano», per indicare l’originalità della filosofia e anche il
fastidio, o il disprezzo, con cui essa viene accolta da chi mal sopporta di
veder messe in discussione le proprie certezze. Ma il termine dice di più. A-topos,
alla lettera, significa «senza luogo». Ed è in questo significato che rivela la
natura autentica del filosofo, la sua libertà. Il filosofo: privo di radici, e
perciò libero di muoversi; libero dai luoghi comuni della sua terra; libero di
alzare lo sguardo verso altre realtà. Come l’albatros di Baudelaire, goffo
sulla tolda della nave, «esule sulla terra», ma «re dell’azzurro» quando
finalmente dispiega le ali, in volo, negli spazi sconfinati del cielo
(sconfinati come lo sono quelli del deserto, viene da chiosare, in cui gli
ebrei riconquistarono la libertà). E per questo utile per la città, quando può
mostrarle nuove strade, aiutarla a non arroccarsi in se stessa. Non è per nulla
semplice il mestiere del filosofo, sempre in bilico tra la tentazione di
perdersi negli spazi sconfinati dell’ideale e i rischi concreti che lo
attendono all’interno della caverna. Ma proprio per questo è così
appassionante.
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