Italia, popolo di poeti, artisti, eroi, santi, pensatori, scienziati, navigatori e trasmigratori: queste qualità – enunciate da Mussolini all’epoca delle conquiste coloniali – sono rimaste nella rappresentazione sociale, oltre che impresse nel marmo del Palazzo della civiltà italiana all’Eur. Altri, prima e dopo, hanno messo in luce ulteriori aspetti, ora positivi, ora negativi che hanno provato a descrivere gli italiani. Al di là delle valutazioni, l’aspetto di rilievo è legato all’edificazione di un immaginario collettivo in cui potersi riconoscere e identificare.
Costruire la rappresentazione di una collettività, piuttosto che di un territorio o di un prodotto, assume oggi un aspetto qualificante. Per affermare un’idea, un progetto, per indicare una direzione da seguire, è necessario dotarsi di un orizzonte comune, di significati condivisi. È sufficiente rinviare a quanto impegno dedicano le imprese per imporre il brand dei propri prodotti per comprendere come la costruzione di un’identità sia un obiettivo economico-strategico. Ma è altrettanto strategico dal punto di vista politico e sociale. In una realtà complessa come la nostra è fondamentale offrire elementi di definizione. A maggior ragione se consideriamo la storia del nostro Paese, in cui municipalismi e localismi hanno rappresentato il tratto fondativo. In cui i particolarismi sociali e il corporativismo contrassegnano ancora ampi settori.
CAMBIARE LE REGOLE
Basti pensare a cosa accade quando si cerca di cambiare le regole – aprendo al mercato – settori dell’economia: dai farmacisti, ai taxisti, passando per gli ordini professionali, tutti pronti a salire sulle barricate pur di conservare i cosiddetti diritti acquisiti. Come ci descriviamo, quali sono i tratti che definiscono i nostri concittadini – e dunque noi stessi – è l’oggetto del sondaggio realizzato da Community Media Research, in collaborazione con Intesa Sanpaolo, per «La Stampa». In prima battuta, emerge un profilo il cui tratto prevalente che ci accomuna mette l’accento sulla dimensione individualistica e familiare.
Prevale il «particulare», la chiusura alla sfera personale e degli interessi specifici. Come se facessimo fatica a guardare oltre il nostro perimetro visuale. Non riuscendo a identificare una progettualità più ampia o quello che potremmo definire un «bene comune» che oltrepassi i nostri mondi vitali. Nella rilevazione lo diciamo degli altri, ma non è errato pensare si tratti di una proiezione di quanto viviamo soggettivamente. Questi esiti tendono a confermare lo stereotipo che caratterizza l’immagine media degli italiani e solo paradossalmente cozza contro i gesti di apertura e gli slanci di solidarietà che, invece, osserviamo quando accadono avvenimenti particolari, come nel caso dei migranti, piuttosto che dei disastri climatici o del volontariato. Che ci sono, frutto di un capitale sociale e valoriale fondamentale per la tenuta del Paese. E che paradossalmente ci meraviglia possano esserci, quando invece dovrebbero essere la normalità.
IL FRUTTO DEL FAI-DA-TE
La questione è che tali gesti non s’inseriscono (ancora) in progettualità condivise, perché si fondano sullo slancio individuale, di piccole comunità organizzate sui territori o nei mondi associativi. In fondo, è il frutto del fai-da-te, dei micro-progetti che si costruiscono per affrontare i problemi che emergono di volta in volta. Dunque, proprio per questi motivi, ci rappresentiamo individualisti (32,4%), attenti solo agli interessi familiari (25,2%), ma anche lavoratori (22,0%), capaci di fare e di impegno.
C’è però un secondo elemento: la diversità di percezione su scala territoriale. La dimensione particolaristica conosce un’accentuazione via via che scendiamo dal Nord al Sud, dove non manca un riconoscimento al fatto che lì sia maggiore la propensione a ricercare vantaggi per sé, ricorrendo a favoritismi. Così, non solo disponiamo di un immaginario collettivo poco collettivo e molto familistico-comunitario, ma troviamo una diversificazione che rende ancor più complicato identificare una rappresentazione comune. Sommando le caratteristiche assegnate sulla base dell’importanza, rileviamo come prevalga una rappresentazione negativa verso i concittadini: poco più della metà (52,7%) attribuisce solo aspetti sfavorevoli, in particolare fra i residenti nel Mezzogiorno (72,8%). A questi si contrappongono quanti mettono in luce non solo aspetti negativi, ma positivi (32,4%) e chi vede esclusivamente tratti positivi (14,9%), in particolare fra chi vive nel Nord.
Dunque, rimarremo familisti e particolaristi? Le latenze culturali non si possono eliminare con tratto di penna, ma richiedono un tempo lungo. Soprattutto, progettualità e politiche che abbiano una visione. Dotate di un’idea e di valori che siano condivisi e che valorizzino le diversità e le peculiarità. Nella consapevolezza che solo in una progettualità comune esiste uno spazio per il bene individuale e familiare.
Università di Padova
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