«Siamo trascinati da ogni parte e, come le onde del mare, agitati da venti contrari fluttuiamo, inconsapevoli della nostra sorte e del destino». Così, in pieno Seicento, scriveva Baruch Spinoza ricorrendo a quella che è forse l’unica similitudine poetica del suo capolavoro. È nell’Etica, infatti, che il filosofo di Amsterdam ci sveglia dal «sogno a occhi aperti» di Cartesio, cioè dall’illusione di una mente razionale che dovrebbe signoreggiare sulle emozioni.
In non poche lingue europee lo stesso termine soggetto racchiude una inquietante ambiguità; pensiamo, per esempio, al francese sujet: per i cartesiani sarebbe il protagonista della ricerca della verità, ma soggetto è anche chi è suddito della «politica delle passioni» prima ancora che il servo di qualche pubblica autorità. Il neurofisiologo Antonio Damasio ha ribattezzato questo paradosso «l’errore di Cartesio», il quale troppo avrebbe insistito sulla separazione tra una mente che comanda e un corpo che dovrebbe obbedire. Eppure, tre secoli e più di studi di biologia e di psicologia non hanno affatto bandito il dualismo cartesiano dal mondo della cultura, in particolare dalla comunità filosofica. Anzi, un altro neurofisiologo di grandissimo valore, Benjamin Libet, ha mostrato come il cervello sia pronto per un’azione volontaria circa mezzo secondo prima che una persona diventi consapevole di una sua intenzione. Più precisamente, il soggetto dell’esperimento escogitato da Libet ha facoltà di premere un pulsante a suo piacimento; davanti a sé ha un orologio che scandisce il tempo in centesimi di secondo; il controllo sperimentale mostra che trascorrono in media 200 millisecondi da quando il soggetto ha deciso di premere il pulsante a quando effettivamente lo fa. Per di più, se si registra ogni volta il cosiddetto «potenziale di prontezza» che si genera nella corteccia motoria in vista di qualsiasi azione, si constata che tale potenziale precede l’azione di 550 millisecondi, e quindi la decisione del soggetto di premere il pulsante la precede di 350 millisecondi. È come se il cervello sapesse in anticipo che la persona in questione vuole davvero premere il pulsante.
L’esperimento di Libet sembra confermare la «curiosa sensazione» di Robert Louis Stevenson che mentre ultimava il suo Dr Jekyll diceva che dentro la sua testa «tanti piccoli gnomi rossi decidevano per lui»; dunque, quella del cosiddetto «libero arbitrio» sarebbe solo la Grande Menzogna di secoli di filosofia, come già rimproverava un altro battagliero filosofo, Friedrich Nietzsche. Si badi che questa non era l’opinione dello stesso Libet, il quale, in uno dei suoi testi fondamentali (Mind Time. Il fattore temporale nella coscienza, Raffaello Cortina, 2007) non esitava a difendere Cartesio, sostenendo che al nostro interno c’è sempre qualcosa di non materiale che decide, una sorta di «volontà cosciente» che richiama all’ordine tutti gli «gnomi» del nostro cervello.
È solo un’ingegnosa via d’uscita per sfuggire a quello che sembra essere il più difficile dei problemi?
C’è chi la pensa proprio così.
Daniel Dennett — e io sono d’accordo con lui — liquida come «cattiva magia» l’idea che tale «libera volontà» sia una sorta di «piccolo miracolo», una specie di «magico isolamento dalla causalità», anche se quest’ultima viene quotidianamente riscontrata nella realtà che ci circonda ed è ancora al centro di tanta ricerca scientifica (Strumenti per pensare, Raffaello Cortina, 2014).
D’altra parte, se l’essere umano è come ogni altro oggetto del mondo materiale, vincolato dalle leggi della natura, che ne è della sua «libera» capacità di conoscere, di creare, e soprattutto di essere un agente morale? Dennett ama immaginare il caso di un neurochirurgo senza scrupoli che a un suo paziente annuncia di avergli impiantato nel cervello un dispositivo che il medico e la sua équipe possono direttamente controllare in modo da spegnere in lui qualunque volontà cosciente: «La sensazione di libero arbitrio che proverai d’ora in avanti sarà solo un’illusione ». A questo punto sembrerebbe che ci sia più di un motivo per essere d’accordo con un brillante letterato come Tom Wolfe: «È tutto prestabilito. Siamo tutti cablati. Per di più, non date la colpa a me: sono cablato male».
Ma è proprio così?
La scienza sta uccidendo qualsiasi nostra speranza di libertà?
E dire che — per esprimerci con il filosofo Jerry Fodor — avremmo invece voluto essere «come la tradizione descrive Eva quando mangiò la mela: perfettamente libera di fare altrimenti, tanto che neanche Dio poteva sapere quale sarebbe stata la sua mossa». Però, l’illustre filosofo non ha fatto i conti con il Dio di Giovanni Calvino, che sapendo tutto in anticipo finisce con il ridurre anche Eva a una pedina dotata solo di «servo arbitrio». E se al Dio terribile del riformatore di Ginevra sostituiamo la causalità geometricomeccanica di Cartesio, quella fisica di Laplace, le ferree leggi dell’economia secondo Karl Marx… cambia qualcosa? Ai nostri giorni i panni dello scellerato chirurgo di Dennett sembra indossarli soprattutto il determinismo biologico: il nostro destino non è scritto nelle stelle, come sembravano credere alcuni dei personaggi di Shakespeare, bensì… nei nostri geni.
Personalmente considero varie versioni del determinismo come concezioni unilaterali e totalizzanti. Tuttavia, non ritengo che il modo migliore di liberarsi dai vari spettri del determinismo consista nel ricorrere ai miracoli. Anzi, concordo con Spinoza che la concezione metafisica del libero arbitrio sia prodotta dall’ignoranza che gli esseri umani hanno delle cause dei loro stessi desideri. Una pietra in caduta — egli scriveva nel 1674 — «se fosse cosciente solo del suo sforzo, crederebbe di persistere nel suo movimento solo perché lo vuole».
Noi siamo così diversi da tali pietre pensanti?
Lo siamo sì, perché siamo dotati di questa «cosa» elusiva che è la coscienza o, se preferite, perché la corteccia frontale, la «grande imbrogliona» come ama chiamarla Edoardo Boncinelli, dà consistenza al nostro Io che decide, o meglio che prende atto delle decisioni già nate nel nostro cervello. Assumere il determinismo più radicale, come ha fatto Spinoza, è a mio avviso un buon modo per dare scientificamente conto della struttura e della dinamica delle nostre decisioni, usandolo come un rasoio che taglia via il pelo superfluo della superstizione e del moralismo. Significa raccogliere una sfida che rende ancora più interessante la nostra concreta esperienza di libertà. A proposito di questa, Boncinelli ha scritto che si tratta sempre di qualcosa che parte da dentro di me, che sia Io (che non sappiamo cosa voglia dire) o la mia corteccia frontale o una qualsiasi altra parte del mio cervello a decidere. È roba mia. Diverso è il caso che a decidere sia qualcosa fuori di me, cioè un altro. Essere controllati dal proprio Dna (corpo) è ben diverso dall’essere controllato dal Dna (corpo) di un altro.
Se accettiamo questa idea di libertà come sfruttamento consapevole dell’assenza di vincoli esterni, anche il chirurgo di Dennett riceve il fatto suo: o è un «pezzo di corpo» criminale che abusa di un «pezzo di corpo» altrui, o magari è solo un mentitore che ha spaventato il suo paziente con un’indegna provocazione. È ovvio che la scienza è ben altro. Ma se qualche filosofo venisse a dirci che il ruolo del chirurgo l’ha avuto in passato il Dio di Calvino e oggi l’hanno i nostri geni, o l’educazione che ci hanno impresso fin dall’infanzia; insomma che tutti senza eccezione siamo «cablati» male, potremmo rispondere che siamo comunque cablati in modo da distinguere, grazie all’adeguatezza della nostra scienza, chi è davvero manipolato da chi non lo è, e soprattutto siamo capaci di riconoscere agli altri lo stesso «libero arbitrio» che vogliamo per noi stessi quando osiamo sentirci responsabili delle azioni che abbiamo intrapreso senza che nessun altro guidi le nostre mani o la nostra testa.
La fine della libertà metafisica si rivela una strada per l’acquisizione di una libertà pratica. L’inglese di Shakespeare aveva tre termini per indicare quella che poi Kant chiamerà «la facoltà anarchica» della nostra mente, che io preferisco definire, sempre con Spinoza, anche e soprattutto del nostro corpo:freedom, liberty ed enfranchisement. Sono le tre parole messe in bocca nel Giulio Cesare a Bruto e agli altri repubblicani dopo che hanno spento il tiranno. Traducendo, lo ammetto, con una certa disinvoltura: il primo termine indica l’autonomia di una ragione che non cancella ma riconosce il potere delle emozioni; il secondo copre l’insieme delle facoltà da esercitare senza vincoli (per esempio, la libertà di movimento e di espressione); il terzo allude invece alla lotta paziente e incessante che ogni donna e ogni uomo responsabile intraprende per fare della propria libertà lo strumento di ancora più libertà.
Giulio Giorello
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