1. L’alienazione dal mondo: eventi e implicazioni
Tre eventi segnano – secondo Hannah Arendt (1994) – l’inizio di ciò che nell’ultimo capitolo di Vita activa definisce alienazione dal mondo (world alienation nell’edizione originale dell’opera). Si tratta della scoperta dell’America, della Riforma protestante e dell’invenzione del telescopio.
1.1 La scoperta dell’America, secondo lei, inaugura la contrazione del globo che si realizza completamente con la perdita d’importanza delle distanze spaziali, provocata dal fatto che l’uomo moderno da allora ha cominciato a percorrere in lungo e in largo il pianeta con mezzi di locomozione sempre più veloci.
Infatti, nella nostra epoca ormai «[g]li uomini vivono (…) in una continuità globale che ha le stesse dimensioni della terra, una continuità in cui (…) la nozione di distanza (…) ha ceduto all’assalto della velocità» (ivi, p. 184).
Con la scoperta dell’America si innesca non solo un susseguirsi di altre scoperte, ma anche un accumularsi di conoscenze geografiche e cartografiche sempre più precise e dettagliate. Ne consegue «che nulla rimane immenso se può essere misurato, che ogni scoperta riunisce parti distanti e (…) stabilisce la prossimità dove prima regnava la distanza» (ivi, p. 185).
Si può dire perciò che «[p]rima della contrazione dello spazio e dell’abolizione della distanza a causa di ferrovie, navi oceaniche e aeroplani» si sia data «la contrazione infinitamente più grande e decisiva determinata dalla capacità di visione sintetica della mente umana», capacità sviluppatasi con l’elaborazione delle «mappe e [delle] carte di navigazione dei primi stadi dell’età moderna» (ibidem).
Il nesso fra queste tendenze verso la contrazione del globo e l’alienazione dal mondo consiste nel fatto che l’uomo riesce ad avvicinare tutti i luoghi, a superare ogni lontananza, ad abbracciare e trasformare il mondo in oggetto di conoscenza globale a condizione di frapporre una distanza crescente tra sé e «la prossimità terrestre» del mondo in cui vive (ivi, p. 195). E in tal senso, come dice Hannah Arendt,
[i]l fatto che la contrazione decisiva della terra fosse una conseguenza della invenzione dell’aeroplano, cioè della capacità di staccarsi completamente dalla superficie della terra, è un simbolo del fenomeno generale per cui ogni riduzione della distanza terrestre può essere conseguita solo al costo di porre una decisiva distanza tra l’uomo e la terra, di alienare l’uomo dal suo ambiente immediato (ivi, p. 185).
Quando, nell’ultimo capitolo di Vita activa, l’autrice parla dei diversi aspetti del mondo da cui l’uomo si aliena, si riferisce indifferentemente ad «ambiente, mondo o terra», allo «spazio mondano» e «terrestre» e in generale alla «natura» (pp. 185-ss.), ovvero sia ai contesti artificiali sia agli ambienti naturali dell’uomo, considerandoli come elementi o presupposti del mondo comune in quanto vero oggetto complessivo dell’alienazione.
Il che contrasta col fatto che, in altre parti importanti del suo libro, l’autrice dica espressamente che il mondo comune «non si identifica con la terra o con la natura (…). Esso è connesso, piuttosto, con l’elemento artificiale, il prodotto delle mani dell’uomo», oltre che con la sfera delle relazioni pubbliche fra gli uomini stessi (ivi, p. 39).
Evidentemente, però, nel momento in cui vuole risalire all’insieme delle cause del declino del mondo comune, la Arendt non può fare a meno di “denunciare” in tal senso il coinvolgimento del mondo artificiale in un processo più ampio di alienazione riguardante la materialità nelle sue espressioni più varie, artificiali o naturali che siano.
1.2 Nel caso della Riforma protestante, secondo l’autrice, si può parlare sia di alienazione dal mondo sia di alienazione nel mondo, tenendo conto delle tesi di Weber sull’ascetismo intramondano che sarebbe tipico dell’etica protestante. Qui due aspetti del discorso arendtiano vanno rimarcati.
- Secondo lei, evidenziando l’importanza del protestantesimo nella formazione della «nuova mentalità capitalistica» (ivi, p. 185), Weber ha dimostrato che l’attività «strettamente mondana» di accumulazione e reinvestimento continuo di capitale può essere svolta senza curarsi e senza godere del mondo, ossia curandosi solo di se stessi – nel caso specifico della propria salvezza oltre-mondana (ivi, p. 187).
- Il secondo aspetto da rimarcare è invece il collegamento che l’autrice traccia fra questa forma dell’alienazione dal mondo, che si svolge mentre l’uomo agisce sempre più nel mondo, e il concatenarsi di espropriazioni e appropriazioni su cui si fonda il capitalismo in quanto accumulazione continua di ricchezza-capitale e accrescimento indefinito della produttività del lavoro (ivi, pp. 186-188).
L’insieme di queste tendenze trova il proprio fattore principale esattamente nei processi di espropriazione tipici del capitalismo, ossia in quei processi iniziati emblematicamente con l’espulsione dei contadini poveri dalle campagne, che si verifica nei primi secoli della modernità e dà luogo alla marxiana accumulazione originaria.
Queste espropriazioni non corrispondono a un “passaggio di proprietà” di beni destinati a soddisfare dei bisogni. Esse piuttosto attivano un processo in cui, da un lato, la proprietà della terra diviene una delle forme della ricchezza che è oggetto di accumulazione; dall’altro, gli espropriati vengono sradicati dal loro mondo e la loro forza-lavoro si trasforma in oggetto di investimento produttivo della ricchezza accumulata.
Così sia la proprietà sia la forza-lavoro espropriata vengono risucchiate in un processo illimitato di accumulazione che genera altre espropriazioni, altre appropriazioni e continui incrementi della produttività (ivi, p. 188).
La “vocazione espropriativa” del capitalismo è ciò che ad Arendt interessa porre in luce a tal proposito; una “vocazione” da cui deriva il «fatto che certi gruppi sono privati del loro posto nel mondo» e lasciati nella loro «nuda esposizione alle esigenze della vita» (ivi, pp. 187-188).
Tutto questo innesca una destabilizzazione crescente del mondo umano, destabilizzazione che – durante la storia del capitalismo – si manifesta chiaramente nel fatto che il processo di accumulazione del capitale «può continuare solo a patto che nessuna durevolezza e stabilità del mondo possano interferire con esso, e solo finché tutte le cose mondane, tutti i prodotti del processo produttivo, possono retroagire su di esso, per alimentarlo a un ritmo sempre più accelerato».
In definitiva, secondo l’autrice, «il processo di accumulazione (..) è possibile solo a costo di sacrificare il mondo e l’appartenenza dell’uomo al mondo» (ivi, pp. 188-189).
Esito imprescindibile di tutto questo è che la proprietà della terra, divenendo una forma di ricchezza da accumulare, smette di rappresentare «la porzione posseduta privatamente di un mondo comune», porzione che – prima della modernità – garantiva la presenza e l’indipendenza dell’uomo nel mondo stesso (ivi, p. 187; cfr. pp. 46 e 189). Perciò, iniziando con i processi di espropriazione, la modernità non fa che fondarsi sulla coincidenza fra espropriazione e alienazione dal mondo (cfr. ivi, p. 187).
È importante sottolineare, infine, che questa forma di alienazione nasce dall’allontanamento di grandi masse di uomini dal supporto più naturale del loro mondo, vale a dire dal suolo agricolo in quanto fonte di sostentamento immediatamente disponibile.
1.3 Il significato che Hannah Arendt attribuisce all’invenzione del telescopio si può sintetizzare dicendo che, a partire da essa, l’uomo poté concepire e trasformare ciò che è al di fuori delle sue possibilità di conoscenza diretta in qualcosa che si può conoscere e dimostrare “con la certezza della percezione sensibile”, secondo le parole di Galileo (ivi, p. 192).
Prima o poi, ciò che è più lontano e più nascosto – che si tratti di realtà astronomica, fisica, micro-fisica, meccanica o biologica – potrà essere indagato senza più affidarsi ai sensi o all’immaginazione.
Conseguenza gravissima ne sarà l’inaffidabilità insuperabile a cui verrà “condannata” la relazione immediata dell’uomo col mondo in cui è immersa la sua esistenza.
A tal proposito Hannah Arendt articola ulteriormente l’idea di alienazione dal mondo: qui, infatti, indica nella «alienazione della terra» la forma che essa assume; alienazione di una terra che, dopo l’invenzione di Galileo, avrà sia i tratti di una natura matematizzata sia quelli del pianeta, trasformati entrambi in oggetti di osservazione da un punto di vista astratto, “universale”, privo di una collocazione nel mondo (cfr. ivi, pp. 195-200).
A questo riguardo, inoltre, è importante sottolineare l’insistenza della Arendt sull’idea che Galileo con il telescopio abbia scoperto anche il punto di Archimede, un punto idealmente esterno al nostro pianeta e alla sua natura, dal quale sarebbe possibile “sollevare” il mondo, conoscerlo e intervenire strumentalmente su di esso ponendosi in una condizione di indifferenza e di estraneità nei suoi confronti.
In definitiva, l’invenzione “tecnologica” di Galileo crea le condizioni in cui l’uomo, ponendosi al di fuori della sua condizione di abitante del mondo, arriverà a maturare l’idea che esista una relazione fra l’energia cosmica e l’energia atomica, la velocità universale della luce e la velocità delle particelle subatomiche.
Ed è innanzitutto per questo che nella nostra epoca l’uomo diverrà capace di «produrre nuovi elementi mai trovati in natura»; di intervenire sulla relazione tra materia ed energia, trasformando «la massa in energia o la radiazione in materia»; di riprodurre e «di distruggere (…) la vita organica sulla terra» e, un giorno forse, «la terra stessa» (ivi, p. 199).
2. L’alienazione dal mondo: esiti e sviluppi
Gli eventi e i processi che Hannah Arendt ci aiuta a inquadrare sembrano ricollegabili più o meno direttamente a ciò che oggi indichiamo con le espressioni globalizzazione e crisi ecologica.
Consideriamo innanzitutto la globalizzazione. È evidente che parlando di “contrazione del globo” l’autrice anticipi ciò che, in tempi recenti, è stato colto da altri autori sensibili all’ “assalto della velocità” tecnologica nei confronti delle distanze e dello spazio in genere; assalto che ha determinato gran parte dei processi di globalizzazione.
2.1 Paul Virilio è certamente uno dei più acuti fra questi autori. Egli inizia la sua lunga riflessione sulla dromocrazia (il potere della corsa, ossia della velocità) nella seconda metà degli scorsi anni Settanta, quando si avviano i processi di informatizzazione, vengono progettate e sperimentate le prime reti di comunicazione telematica e la stessa globalizzazione economica comincia a profilarsi.
Secondo Virilio, questi processi sono l’esito di una tendenza che viene da lontano e che abbiamo sempre sottovalutato. La storia della modernità, infatti, è un susseguirsi di eventi tecnologici basati sull’accelerazione, che non hanno mai smesso di spingere la realtà spazio-fisica del mondo non solo verso la contrazione, ma anche verso la sparizione e la distruzione.
Non a caso, secondo lui, in questa storia rientra l’aumento vertiginoso e costante della rapidità, della gittata e della potenza delle armi: la distanza fra il punto di partenza e quello di arrivo di un proiettile o di una bomba contano sempre meno; conta l’obiettivo da distruggere in modo sempre più rapido e devastante, prescindendo di fatto da quanto esso sia lontano.
Da questo punto di vista, non è un caso neppure che lo sviluppo delle tecnologie militari trovi il suo coronamento nella potenza inaudita della bomba atomica e nella possibilità tecnica di lanciarla da un continente all’altro in tempi sempre più brevi (Virilio 1977, pp. 113-127).
Annullamento delle distanze e distruzione fisica, secondo Virilio, sono due facce della stessa medaglia, due forme di sparizione del mondo, che trovano appunto nella velocità tecnologica la condizione decisiva per realizzarsi progressivamente.
Perciò, anche l’annullamento delle distanze spaziali provocato dalle tecnologie di telecomunicazione è una forma di sparizione e distruzione che non possiamo sottovalutare: esso ci priva del mondo, della sfera della comunicazione immediata, delle possibilità di partecipazione politica diretta che un tempo avevano la loro dimensione nello spazio della città e nel territorio fisico (Virilio 1996, pp. 42-45 e 84-85).
Molto interessante a tal proposito è che l’autore individui nella teoria della relatività il quadro epistemico più adeguato alla comprensione del dominio tecnologico della velocità.
Questa teoria non è semplicemente una visione cosmologica in cui non esistono più spazio e tempo universali e assoluti; essa è soprattutto la teoria di un nuovo assolutismo: quello della velocità che nel caso specifico è la velocità della luce, assunta come parametro fondamentale cui vanno riferite e subordinate tutte le velocità relative dei sistemi spazio-temporali che si muovono l’uno rispetto all’altro.
Questo “assolutismo” – secondo Virilio – annuncia il “potere assoluto” che le tecnologie della velocità, i flussi informatici istantanei e la comunicazione “in tempo reale” esercitano sulle sfere concrete della vita della società contemporanea, una società che sono sopratutto queste tecnologie ad aver “globalizzato” (cfr. Virilio 1985; Id., 1989, pp. 161-189).
2.2 Un’altra riflessione sulla globalizzazione che può essere affiancata al discorso di Hannah Arendt è quella che Peter Sloterdijk ha sviluppato attorno all’immagine del globo. Secondo lui, dopo la «scomparsa» del globo celeste degli antichi, l’uomo occidentale continua ad esprimere un bisogno di sfericità che riesce a soddisfare mediante la rappresentazione del «globo terrestre» il quale ben presto diverrà l’«icona dominante della modernità» (Sloterdijk 2001, pp. 13 e 17).
Protagonisti della promozione di quest’immagine sono i circumnavigatori, i cartografi, i conquistatori, i commercianti, come pure i missionari e i turisti (ivi, p. 17). Attraverso queste figure, l’uomo moderno percorre, raffigura e abbraccia sempre di più il pianeta nella sua globalità sferica, compensando così la perdita delle certezze metafisiche delle cosmologie premoderne e superando lo sgomento causato dal ritrovarsi in un universo infinito (ivi, pp. 21-22).
È esattamente una globalizzazione della terra che si realizza in tal modo; una globalizzazione che è anche un «ritorno alla terra» dal Fuori illimitato dell’universo, un “ritorno” reso possibile dal riferimento alla rotondità, alla delimitazione sferica della terra stessa, anche se esso non potrà mai essere definitivo e del tutto rassicurante (ivi, pp. 17-22).
La riflessione di Sloterdijk è certamente meno “apocalittica” di quella di Virilio. A caratterizzarla, comunque, è l’insistenza con cui egli sostiene che noi ci accorgiamo tardi di una globalizzazione del pianeta che è iniziata almeno dai tempi delle prime circumnavigazioni.
La nostra epoca globale, secondo lui, è solo il momento in cui si dissolve definitivamente l’illusione di poter vivere protetti nella «vita autoctona», nei confini dello Stato e della Nazione; essa è solo l’epoca in cui diviene evidente la «catastrofe delle ontologie locali», che è in atto da circa cinque secoli (ivi, pp. 28-29).
Qui, in realtà, è opportuno notare che sia Sloterdijk che Virilio tendono a sottovalutare il fatto che la vocazione globalizzante della modernità fino ad oggi non ha mai smesso di provocare per reazione ritorni – per lo più rovinosi – alla “autoctonia xenofobica” o al nazionalismo più chiuso in se stesso e aperto, al contempo, all’espansionismo più catastrofico, come dimostra – fra l’altro – l’invasione russa dell’Ucraina.
Altro aspetto di rilievo del discorso di Sloterdijk è che – secondo lui – gli inizi della modernità, in quanto epoca della prima globalizzazione terrestre, sono segnati profondamente dagli investimenti speculativi che si scatenano con la nascita del capitalismo.
È da allora che imprenditori e mercanti “speculano”, ossia comprano, vendono, investono continuamente in ogni parte del pianeta rischiando e indebitandosi per veder tornare il denaro investito quanto più incrementato da un guadagno (cfr. ivi, pp. 48-51).
Anche in questo senso, secondo Sloterdijk, la globalizzazione attuale non aggiunge nulla di veramente nuovo a quella della prima modernità: il nesso fra speculazione e globalizzazione, che pensiamo sia tipico della nostra epoca, si realizza sin dalla nascita del capitalismo.
Si tratta di una tesi che, in linea di massima, può essere accolta; essa non è particolarmente sconvolgente. Ciò che, tuttavia, va certamente evitato in proposito è il rischio di considerare “secondari” rispetto alla speculazione i processi di espropriazione ai quali Arendt – sulla scorta di Marx – si riferisce quando parla dell’accumulazione originaria.
Qualunque sia il rilievo da attribuire agli investimenti speculativi, sembra certo che le espropriazioni e, in particolare, le espulsioni dei contadini dal mondo rurale rappresentino una sorta di “invariante” del capitalismo e della globalizzazione vecchia e nuova. E a questo proposito qui basterà richiamare i giganteschi accaparramenti di terre per i quali oggi usiamo la nota espressione: land grabbing.
Non c’è ragione di escludere, d’altra parte, che anche i processi di privatizzazione di patrimoni, spazi, servizi pubblici e comuni degli ultimi decenni rientrino tra i fenomeni ricorrenti di espropriazione materiale e di alienazione dal e del mondo di cui ci parla Arendt.
3. Dall’alienazione alla crisi ecologica
3.1 Richiamare il nesso arendtiano tra la vocazione espropriativa del capitalismo e l’alienazione dal mondo può essere utile a inquadrare anche la crisi ecologica tra le forme e gli esiti di tale alienazione.
Come abbiamo visto, secondo Arendt (1994), le espropriazioni da cui ha origine e su cui si basa il capitalismo sono premessa e condizione di un processo di accumulazione e produzione che «può continuare solo a patto che nessuna durevolezza e stabilità del mondo possano interferire con esso» (ivi, p. 188). Il che significa che la destabilizzazione del mondo provocata da questo processo non deriva dalla semplice “espulsione” dell’uomo dal mondo (a partire da quella dei contadini poveri); essa risulta anche, o soprattutto, dal consumo del mondo, che si innesca con le espropriazioni e continua con l’accumulazione e la produzione capitalistica.
Nei capitoli di Vita activa riguardanti il lavoro e l’opera la nostra autrice si esprime in maniera nettissima in questo senso quando considera l’automazione della produzione industriale contemporanea.
Il consumo del mondo è il vero pericolo derivante da questa tendenza: essa comporta l’accelerazione progressiva dei ritmi produttivi, a cui deve corrispondere il consumo crescente e incessante di ogni prodotto, compresi gli oggetti destinati una volta all’uso durevole; questi perdono così la funzione di garantire e proteggere la permanenza di un mondo artificiale duraturo dalla forza travolgente tipica dei processi naturali (cfr. ivi, pp. 89-90; 93; 107-108).
Le considerazioni da fare su tutto questo sono di due tipi.
- Pur non esplicitando le conseguenze ecologiche del processo che descrive, evidentemente Arendt ci consente comunque di percepirle chiaramente: il consumo del mondo, quello degli oggetti durevoli in particolare, non può non comportare prima o poi l’esaurimento delle risorse naturali necessarie a riprodurli.
- È proprio con un discorso di questo tipo, d’altra parte, che l’autrice esprime ai massimi livelli il suo antinaturalismo che, in realtà, è soprattutto un anti-vitalismo: automatizzando la produzione, secondo lei, la società contemporanea intensifica a dismisura «il ritmo naturale della vita», il ricorrere dei bisogni e della loro soddisfazione, rafforzando la «funzione principale della vita rispetto al mondo che consiste nel consumare ciò che è durevole» (ivi, p. 93; cfr. pp. 89-90).
Qui la vita sembra destinata inevitabilmente a svolgere una funzione meramente distruttiva.
Comunque sia, l’antinaturalismo e l’antivitalismo di Arendt appaiono inconciliabili con l’attenzione alla natura e alla vita che sarebbe richiesta da una sensibilità ecologica. Ma in realtà questi aspetti del suo pensiero possono essere problematizzati utilmente tornando all’ultimo capitolo di Vita activa.
3.2 In questo capitolo l’antinaturalismo e l’antivitalismo dell’autrice si ripresentano in maniera chiarissima, nonostante i ripetuti riferimenti alla terra e alla natura in quanto parti o presupposti del mondo che è oggetto di alienazione.
Secondo l’autrice, infatti, l’espressione più grave dell’alienazione dal mondo sta nell’assunzione, da parte dell’uomo moderno, della vita come «bene supremo»: per lui «la vita, e non il mondo, è il bene più alto». L’uomo moderno traduce così la sacralizzazione cristiana della vita – in quanto premessa dell’eternità della vita ultraterrena – in «priorità della vita su qualsiasi altro valore» (ivi, p. 237).
A prendere il sopravvento sull’esistenza dell’uomo è «il processo vitale della specie umana»: conservazione e potenziamento della vita nell’ambito della relazione fra individuo e società diverranno finalità superiori alle altre (ivi, pp. 239-240). La vita stessa della società assumerà caratteri di necessità e di processualità naturale a cui l’uomo moderno si assoggetterà rispondendo ad esse con il proprio lavoro.
Ora, la visione scientifica del «processo vitale» a cui Arendt si riferisce – qui e in altri testi – è l’evoluzionismo darwiniano (cfr. ivi, p. 233; Id. 1996, pp. 249-251, 634-635; Id. 2007, pp. 338). Partendo da questo dato, e andando anche oltre le sue intenzioni, il senso del suo discorso può essere letto nei termini seguenti.
A contribuire in misura determinante all’alienazione moderna dal mondo può essere stata proprio la prevalenza della visione darwiniana della vita. In questa visione l’organismo e la specie hanno una centralità indiscutibile rispetto alle condizioni ambientali in cui vivono, ossia rispetto a ciò che potremmo chiamare il loro “mondo comune”. Inoltre, le relazioni fra organismi e specie, da un lato, e ambiente, dall’altro, hanno sempre un carattere antagonistico.
L’importanza fondamentale che nella teoria darwiniana ha il concetto di lotta per l’esistenza si basa soprattutto su questo carattere delle relazioni tra vita e ambiente: la lotta per l’esistenza è sempre una lotta contro le condizioni ambientali. Come scrive Darwin (1967), questa lotta si svolge «fra gli individui della stessa specie, fra quelli di specie diverse, e di tutti gli individui contro le condizioni fisiche della vita» (p. 140).
Dunque, se il processo della vita viene concepito in questi termini, l’adesione – di cui parla Arendt – dell’uomo moderno alle logiche di tale processo certamente non comporta la sua “immersione pacifica” nel mondo naturale.
L’esigenza di conservare e sviluppare la vita propria e della società implica piuttosto una contrapposizione a questo mondo, una lotta contro le sue insidie e i limiti che esso impone alla vita stessa. Perciò, quando l’autrice insiste sulla subordinazione delle attività dell’uomo moderno allo scopo della «sopravvivenza della specie dell’animale umano» (Arendt 1994, p. 239), non fa che evidenziare i “limiti darwiniani” in cui resta ingabbiata la visione moderna della vita: una visione antagonistica delle relazioni tra gli esseri viventi, e perciò anche dell’uomo, con l’ambiente e con gli altri esseri viventi.
Si dà il caso però che Arendt, come abbiamo visto, proprio nell’ultimo capitolo del suo libro ci inviti a pensare che tanto l’ambiente naturale quanto la terra come “supporto” della vita, siano elementi primari del mondo comune dell’uomo; ciò che invece non fa è trarre le conseguenze di questa sua attenzione a tali elementi ripensando le relazioni dell’uomo con essi e con la vita in generale; ripensando, in definitiva, la vita stessa come parte del mondo comune dal quale non possiamo permetterci di alienarci consumandolo.
Da questo punto di vista, dire che con l’industria automatizzata «ogni produttività umana» viene «risucchiata in un processo vitale enormemente intensificato» (ivi, p. 93) può significare che così la riproduzione e il consumo delle condizioni della vita subiscono accelerazioni, alterazioni e mutazioni sempre più rapide, profonde e imprevedibili; il che può comportare che tali condizioni, una volta mutate, finiscano per divenire indifferenti alle sorti dell’uomo e del suo mondo, oltre che a quelle di altre specie viventi.
Sia pure inconsapevolmente, dunque, Hannah Arendt sembra spingerci a riflettere sia sull’indifferenza che la natura può “maturare” verso le sorti dell’uomo, sia sull’aumento incontrollabile di questa indifferenza che l’illimitata automazione produttiva può provocare.
4. Pandemia e mondo ecosistemico
4.1 Per non lasciare questo discorso a un livello di enunciazione generale qui può essere opportuno riferirsi alla pandemia come espressione della crisi ecologica. Essa, infatti, può essere ricollegata del tutto attendibilmente alle alterazioni ecosistemiche provocate dalla nostra “società automatizzata e globalizzata”.
In proposito basterà richiamare i fattori indicati generalmente come condizioni dei salti di specie degli agenti patogeni che provocano le cosiddette “malattie infettive emergenti e ri-emergenti”: cambiamento climatico, urbanizzazione illimitata, estrattivismo, deforestazione, mobilità crescente di persone e merci, industrializzazione degli allevamenti, commercio di animali selvatici, etc. (cfr. Knobler et al. 2006).
Il problema che emerge da tutti questi processi non è solo quello dell’alterazione degli ecosistemi delle altre specie animali, ma anche quello della nostra radicata “disattenzione” verso il livello microbico della biosfera del pianeta (Quammen 2014; Raffaetà 2020); livello nel quale, appunto, rientrano gli “agenti patogeni” delle malattie epidemiche.
Da circa un quarantennio ci eravamo convinti che le malattie infettive fossero ormai destinate a essere sconfitte dalla medicina contemporanea almeno nei loro effetti letali.
Inoltre, gli sviluppi della biomedicina avevano contribuito all’affermarsi dell’idea che nella sfera genetica e molecolare del nostro corpo si trovino in gran parte le chiavi per la comprensione e la cura delle malattie che rimarrebbero da trattare dopo la “sconfitta” delle malattie infettive.
Sfortunatamente la pandemia ci ha posti di fronte a un quadro diverso che proverei a descrivere articolandolo in tre livelli (ai quali altri se ne potrebbero aggiungere); un quadro che – pur nella sua semplicità – potrebbe essere una buona base per una ridefinizione “ecosistemica” del mondo comune dal quale continuiamo ad alienarci.
Il primo livello è quello delle relazioni fra individuo e collettività umana, dalle quali non c’è modo di prescindere in generale e, in particolare, quando le malattie infettive emergenti e ri-emergenti assumono la pericolosa contagiosità di cui ci ha dato prova il coronavirus.
Il secondo livello è quello, che ho già richiamato, delle relazioni fra le nostre società (la nostra specie) e le altre specie viventi di cui non possiamo pensare di alterare gli ecosistemi senza mai subirne le conseguenze, per esempio, con le zoonosi.
Il terzo è invece quello dei nostri rapporti con il microbioma, ossia con l’onnipresenza nell’ambiente di forme di vita e di materia vivente microscopiche e irriducibili all’idea di specie animale o vegetale (batteri, virus, funghi, etc.).
A tal proposito, qui non è superfluo ricordare che la presenza di batteri e virus nei nostri ecosistemi non è necessariamente patogena; essa può essere priva di conseguenze patologiche e molto spesso è benefica e persino necessaria alla salute degli organismi.
È l’alienazione da questi ed altri aspetti della complessità della biosfera e dei nostri ecosistemi ad averci esposti non soltanto alla pandemia, ma anche alla nostra straordinaria incapacità di prevenirla e di reagire ad essa, se non ricorrendo a metodi storicamente datati come la quarantena, il lockdown e le campagne vaccinali, per quanto essi siano indubbiamente efficaci nell’immediato.
Comunque sia, avendo aperto una nuova epoca di radicali incertezze, la pandemia dovrebbe indurci a riflettere su una fase storica in cui – secondo vari autori – la modernità avrebbe avuto davvero il suo lontano inizio: il periodo che si apre con la peste nera arrivata in Europa nel 1346; una pandemia alla quale seguirono con estrema frequenza altre grandi pestilenze per circa quattro secoli.
4.2 Sloterdijk (2011) sostiene che il Decameron di Boccaccio abbia un’importanza paradigmatica in proposito: raccontarsi “buone” novelle per superare la “malinconia” provocata dalla peste è la strategia che uomini e donne di una modernità nascente inventano per fronteggiare un mondo carico di “cattive” novelle. Essi concepiscono e vivono l’epoca che si apre come un tempo in cui cattive e buone novelle si susseguiranno necessariamente (ivi, pp. 6-13).
Quel tempo, secondo l’autore, è lo stesso in cui si creano le premesse della prima globalizzazione col fiorire dei commerci marittimi che risultano sempre più decisivi sia per lo sviluppo dell’economia sia per il propagarsi e il ricorrere delle pestilenze.
Non è un caso – dice l’autore – che Venezia, oltre a divenire la “potenza globale” che sappiamo, abbia svolto un ruolo esemplare anche nella storia delle pestilenze: essa infatti ha inventato la tecnica della quarantena che ha consentito di separare le cattive novelle della circolazione dei contagi da quelle buone della circolazione delle ricchezze in un mondo che si globalizza (ivi, pp. 14-16).
Diversamente da Sloterdijk, altri autori – Thomas Berry e Nancy Erhard in particolare – hanno visto nella peste nera e nelle pestilenze successive soprattutto dei fattori di rottura dei tessuti comunitari premoderni e di incoraggiamento progressivo dell’uomo a chiudersi nella dimensione individuale e privata.
Berry (1988, pp. 125-ss.) sostiene che le grandi epidemie proto-moderne spinsero le società ad allontanarsi da un mondo considerato ormai depositario di una forza ostile all’uomo. Secondo lui, gli atteggiamenti che esse adottarono furono soprattutto due:
1. distaccarsi da questo mondo cercando la redenzione ultraterrena, come accadde con le espressioni più radicali e settarie della Riforma protestante;
2. cercare di sfruttare la forza ostile del mondo rendendola utile alla società con l’applicazione industriale delle conoscenze scientifiche. In questo stesso senso Erhard (2007), riferendosi ai fattori biosferici delle pestilenze, sostiene che – in un modo o nell’altro – «i movimenti dei microbi, dei ratti e delle pulci» hanno contribuito decisamente a formare l’ethos della modernità (ivi, p. 59).
Condividendo queste idee, direi che dopo la pandemia siamo in una situazione piuttosto simile a quella creata dal ricorrere delle pestilenze proto-moderne: il nostro ethos rischia di tornare (o continuare) a chiudersi in una dimensione individuale, “privata” e “settaria”, sfuggendo ancora alla necessità di aprirsi al mondo.
Viene da chiedersi con una certa urgenza perciò se siamo disposti a scongiurare questo rischio; o se vogliamo insistere nel credere che le nostre società siano comunque capaci di emanciparsi dai condizionamenti del mondo, mentre continuano certamente ad alienarsene.
Nessun commento:
Posta un commento