venerdì 17 ottobre 2025

PSICOLOGIA SOCIALE. VIOLENZA SOCIETA' NATURA UMANA. CALABRO' P., La bestia dentro di noi. Intervista ad Adriano Zamperini su società e violenza, FILOOSOFIA E NUOVI SENTIERI, 4 gennaio 2015

 Preferisce parlare di “violenza” anziché di “aggressività”. Perché?

Essendo uno psicologo, la mia scelta potrà apparire ancora più strana. Dopotutto, proprio la psicologia ha contribuito alla fortuna del concetto di “aggressività”: è facile notare come nel lessico scientifico occupi un posto di primo piano. Anche nelle nostre conversazioni quotidiane, il termine “aggressivo” è usato per descrivere un numero infinito di comportamenti con cui singoli o gruppi cercano di raggiungere i propri scopi e interessi gli uni contro gli altri. Così, possiamo dire che un bullo, un soldato, un politico, un atleta, un partner e così via siano aggressivi. Ma aggressività è un “termine sfortunato”: è soggetto a innumerevoli dispute semantiche, tali da rendere evidente che siamo in presenza di un concetto interpretativo piuttosto che descrittivo. Inoltre, a me pare che molti psicologi (e non solo) siano caduti nella trappola di credere che una moltitudine di comportamenti assai diversi siano riconducibili a un’unica categoria “naturale”, l’aggressività appunto. Proprio analizzando criticamente un simile convincimento, sono giunto alla conclusione che l’aggressività è veramente un concetto-valigia, ci si può infilare di tutto e di più, e quindi mi sembra scientificamente poco spendibile per comprendere e spiegare la varie e mutevoli forme della conflittualità umana. Per questo motivo preferisco il ricorso al concetto di violenza. Non che questo concetto sia privo di ambiguità, tutt’altro; ma rigettando l’alveo “naturale” dove si fa accasare la nozione di aggressività, il ricorso al concetto di violenza costringe a fare i conti con queste ambiguità, rendendole esplicite.

giovedì 16 ottobre 2025

DEPRESSIONE E SOCIETA'. ANTONELLI CARLI L., Anatomia di una depressione collettiva, IL TASCABILE, 7 OTTOBRE 2025

 

Trattare la depressione solo come un problema individuale e chimico rischia di nasconderne le dinamiche sociali. Una riflessione sulla dimensione collettiva della depressione, e delle sue possibili cure.

(Giornalista e copy editor con una specializzazione in linguistica italiana scrive per testate come Vice, Rolling Stone, Linkiesta e Linus occupandosi soprattutto di salute mentale e reportage immersivi di carattere sociale).

Nel Medioevo, i monaci chiamavano “demone di mezzogiorno” quel torpore dell’anima che si impadroniva di loro nelle ore più calde, quando la luce abbagliante diventava insopportabile e ogni desiderio pareva svuotarsi. Un torpore senza scampo, che calava proprio nel momento di massima luce, quando tutto avrebbe dovuto farsi limpido e vitale. Non era soltanto una malinconia individuale, ma un contagio collettivo, come se l’intero monastero si fermasse a trattenere il respiro. Oggi, nelle nostre estati sempre più infuocate e assediate dal sole, ritorna un senso di stordimento simile: la promessa di felicità che la bella stagione portava con sé nelle lunghe estati della nostra infanzia si infrange sull’afa opprimente e su aspettative di sollievo puntualmente disattese. Le giornate scorrono più lente, ma non più leggere. E quella sensazione, che un tempo si sarebbe forse chiamata malinconia, oggi prende forme più sfuggenti, più cliniche, più insidiose nella loro apparente normalità.