Di fronte allo specchio gli oranghi si
avvicinavano di più e sporgevano le labbra verso l'immagine come per baciarla
Charles Darwin
Finora la scienza ci
aveva assicurato che solo l'aristocrazia dei primati superiori fosse in grado di
riconoscersi in una superficie riflettente. Ci si aspetta, infatti, che questa
prerogativa sia associata a comportamenti sociali complessi, dotati di empatia e
cooperazione La recente performance di Happy, un elefante che sembra
riconoscersi allo specchio, mette in crisi le acquisizioni per cui questi
animali sarebbero privi di prerogative così sofisticate.
In questa pagina si possono vedere alcuni filmati degli elefanti "consapevoli"
Figurarsi un elefante davanti a uno specchio è un po' come
immaginarselo all'interno del famoso negozio di cristalli: goffo e fuori posto.
Perché un elefante davanti a una superficie riflettente dà intuitivamente la
sensazione di essere nel luogo sbagliato? Il motivo forse risiede nel fatto che
per noi esseri umani gli specchi sono l'occasione per esercitare la nostra
vanità, per esplorare minuziosamente il corpo e per preoccuparsi dell'aspetto
fisico che abbiamo. Gli specchi sono nello stesso tempo utensili consueti
nell'esperienza quotidiana di ciascuno di noi e oggetti dotati di un valore
simbolico speciale. Ricorriamo all'uso dello specchio quasi ogni giorno della
nostra vita, eppure il confronto con una superficie riflettente può sempre
rivelarsi un'esperienza turbativa. Probabilmente gli specchi sono gli artefatti
che hanno più a che fare con la nostra coscienza, decisivi come sono nella vita
ordinaria delle persone per la costruzione della propria identità
personale.
Di fronte al test della
macchina
Per esempio, di norma è proprio davanti agli specchi che
scopriamo di essere diventati vecchi. Le reazioni altrui possono risparmiarci la
durezza che solo la superficie piatta e levigata degli specchi è in grado di
riservarci. Con le parole dello scrittore e medico Georges Duhamel: «Parlavo con
Gilbert ... ed ecco che vedo, attraverso il fumo del sigaro, un volto
sconosciuto: un uomo robusto, con le spalle larghe e il collo tozzo, una zazzera
di capelli grigi quasi bianchi, un'espressione di forza e di stanchezza nello
stesso tempo. Era di profilo, e quasi mi voltava le spalle. Penso: 'Da dove
viene questo vecchio signore? Non ce l'hanno presentato'. In quel momento,
faccio un gesto, e quell'uomo fa lo stesso gesto. Fu come aver ricevuto un pugno
nello stomaco. Quel vecchio signore sconosciuto ero io».
Tutto ciò, almeno
intuitivamente, sembra estraneo alla forma di vita di animali come gli elefanti.
Per apprezzare cosa è uno specchio, infatti, bisogna essere in grado almeno di
riconoscere la propria figura nel riflesso. Finora la scienza ci aveva
rassicurato sul fatto che gli elefanti, al pari di moltissime altre specie
animali, non comprendono che in un riflesso è possibile contemplare la propria
figura. Daniel Povinelli, uno psicologo comparativo che lavora all'Università
della Luoisiana negli Stati Uniti, in un esperimento del 1989 aveva notato che -
messi di fronte a uno specchio - gli elefanti non erano in grado di riconoscere
la propria immagine. Essi, infatti, non passavano il cosiddetto «test della
macchia».
Qualche buona
intuizione
Si tratta di una procedura sperimentale, originariamente
elaborata dallo psicologo statunitense Gordon Gallup, che permette di saggiare
il riconoscimento allo specchio in creature che non sono in grado di dire se
nell'immagine vedono se stessi. Funziona così: si produce una macchia su un
animale facendo in modo che non si renda conto dell'operazione. La macchia viene
situata in una parte del corpo che non può esser vista se non tramite uno
specchio. Si colloca quindi l'animale in un ambiente in cui c'è una superficie
riflettente e se ne osserva la reazione. Se l'esemplare tocca continuamente la
macchia o tenta di rimuoverla, se in generale esibisce un comportamento diretto
verso il proprio corpo che non potrebbe avere se non ritenesse che l'immagine
riflessa gli appartiene, allora probabilmente si rende conto di stare guardando
la propria figura. Altrimenti non possiede la forma di consapevolezza necessaria
a fare le giuste inferenze relativamente a se stesso.
Approfittare di uno
specchio sembra insomma qualcosa che è possibile soltanto per creature che sono
dotate di una forma benchè embrionale di autocoscienza. Gli elefanti di
Povinelli non manifestavano tale sagacia. Eppure dovevano avere qualche buona
intuizione sul genere di oggetti a cui appartengono gli specchi. Infatti, se nel
riflesso vedevano del cibo, per afferrarlo si voltavano indietro, invece di
cercarlo in ciò che stava loro davanti. Sembrava che fossero in grado di
comprendere il meccanismo riflettente degli specchi, anche se non giungevano
fino al punto di afferrare il fatto che una delle cose che vedevano riverberate
erano proprio loro.
Questo è ciò che sapevamo sugli elefanti e gli specchi
fino a poche settimane fa. Ma ora, grazie al lavoro di altri ricercatori, tra
cui il celebre primatologo Frans de Waal, siamo indotti ad ammettere almeno un
elefante nel circolo esclusivo di coloro che sono in grado di riconoscersi allo
specchio. Contrassegnato con una vistosa croce da un lato della fronte e posto
dinanzi a una estesa superficie riflettente, Happy - un esemplare ospite dello
Zoo del Bronx a New York - tocca ripetutamente la parte segnata, a quanto pare
incuriosito della strana circostanza.
L'esperimento ha avuto una vasta eco
sui giornali statunitensi e britannici, tra cui il «New York Times», il
«Washington Post» e l'«Economist». La performance di Happy desta sorpresa perché
non ci si aspetta che un elefante possa esibire un comportamento così complesso.
Riconoscere se stessi, infatti, di norma è la base per attribuire credenze e
sentimenti agli altri individui. Ci si aspetta che il riconoscimento di sé sia
associato a una serie di comportamenti sociali complessi, di tipo empatico e
cooperativo, che non supponiamo presenti in animali come gli elefanti. Proprio a
motivo dell'interesse che l'esperimento ha suscitato nei media internazionali, è
opportuno notare che l'evidenza in questione non è in effetti molto robusta e
che la prova andrebbe ripetuta con altri esemplari nonché replicata in contesti
ecologicamente più significativi di uno zoo. D'altra parte, è evidente che si
tratta di un dato su cui la comunità scientifica è chiamata a riflettere e su
cui ciascuno può farsi una idea personale osservando i filmati di Happy sul sito
Internet della rivista in cui è stata data la notizia dell'avvenimento (vedi la
scheda).
Se davvero gli elefanti fossero in grado di riconoscersi allo
specchio, dovremmo aggiungerli a quelli di cui già si conosceva questa abilità,
scimpanzè, bonobo, esseri umani, oranghi, alcuni gorilla, ossia l'aristocrazia
dei primati superiori. Molti altri animali sono stati messi alla prova davanti
allo specchio, offrendo un campionario vario e talvolta divertente di reazioni.
Sembra che, contemplando la propria figura, i fenicotteri rosa si eccitino
sessualmente. I delfini, per parte loro, fanno un mucchio di capriole e
circonvoluzioni davanti alla loro immagine macchiata, dando talvolta la
sensazione di comprendere ciò che stanno vedendo. Molte scimmie, invece, hanno
un comportamento meno amichevole e aggrediscono colui che ai loro occhi deve
sembrare un intruso. In generale la risposta che è stata osservata più
frequentemente è di tipo sociale, come se l'animale supponesse di stare
guardando un altro individuo e rispondesse sulla base delle regole sociali della
propria specie.
Che la questione sia cruciale, e non da poco tempo, lo
dimostra - fra l'altro - il fatto che già Charles Darwin avesse fatto
interessanti osservazioni a questo proposito: nel suo L'espressione delle
emozioni nell'uomo e negli animali, ricorda di aver posto uno specchio tra due
oranghi del Giardino Zoologico di Londra: «All'inizio essi guardavano le proprie
immagini con la più grande sorpresa e spesso cambiavano il loro punto di vista.
Quindi si avvicinavano di più e sporgevano le labbra verso l'immagine come per
baciarla, esattamente come prima avevano fatto l'uno verso l'altro, quando erano
stati messi alcuni giorni prima nella stessa stanza».
Di fronte a tali
comportamenti ci si potrebbe semplicemente godere lo spettacolo dell'ottusità
animale davanti agli specchi, riservando ai malcapitati narcisi il genere di
sufficienza con cui generalmente nella storia abbiamo trattato le altre specie
animali. Sono informati da questa disposizione d'animo molti filmati amatoriali
che si possono guardare su YouTube, uno dei principali siti Internet di
consultazione e condivisione di brevi filmati (http://www.youtube.com). Ma non
si tiene conto di due circostanze: la prima è che, come abbiamo notato, noi
umani non siamo l'unica specie in grado di riconoscere la propria immagine
riflessa.
La seconda è che negli stessi esseri umani la capacità in questione
è più fragile di quanto si possa supporre. Generalmente i bambini non passano il
test della macchia se non sono arrivati a due anni di età. Prima di questo
momento guardano la loro immagine come se stessero osservando un altro bambino,
oppure cercano di esplorare la superficie dello specchio battendo sull'immagine
con le mani e leccando ciò che vedono. A circa diciotto mesi, forse quando
cominciano a nutrire dei sospetti sul bimbo riflesso e sono però ancora
imbarazzati da una scena di cui evidentemente non comprendono del tutto il
significato, cominciano a evitare senz'altro quel compagno di giochi dispettoso
che compie esattamente i loro stessi movimenti. Tale reazione, detta appunto di
evitamento, sparisce solo quando il bambino diviene capace di riconoscersi nel
riflesso.
Anche quando la capacità di riconoscimento è ormai raggiunta, non
lo è purtroppo in modo sicuro e irreversibile: una causa delle strane esperienze
speculari che talvolta si possono sperimentare è la stanchezza, come nel caso di
ciò che è accaduto al vecchio Ernst Mach, nonostante la sua eccellenza di
neuroscienziato ante litteram: «Tempo fa, dopo un faticoso viaggio notturno in
treno, molto stanco, sono salito su un omnibus e ho visto salire un altro uomo
dal lato opposto. 'Che triste - ho pensato - quel professore che è appena
entrato'. Ero io: di fronte a me c'era solo un grande specchio. La fisionomia
della mia classe sociale, evidentemente, mi era più familiare di quella di me
stesso».
Quando il riconoscimento allo specchio non fallisce a causa della
stanchezza, come nel racconto di Mach, può fallire per una malattia
neurodegenerativa, come nel caso dell'autismo o del morbo di Alzheimer.
Il ruolo dell'emisfero destro
Una serie di
studi recenti suggeriscono che nel cervello umano vi sono circuiti neuronali
dedicati al riconoscimento del proprio volto e che, quando sfortunatamente essi
finiscono per essere danneggiati, il riconoscimento allo specchio va fatalmente
incontro al fallimento. Scienziati di successo come Oliver Sacks hanno
popolarizzato l'esistenza di strane sindromi come la prosopagnosia, a causa
della quale un individuo può sperimentare una estrema difficoltà a riconoscere e
memorizzare i volti delle persone che incontra. È meno noto però che ci sono
casi di persone che, pur non essendo affette da questo genere di disturbi e
avendo quindi normali capacità di riconoscimento delle facce altrui, non
riescono tuttavia a riconoscere il proprio volto nel riflesso. Questo genere di
pazienti sono affetti da una patologia nota proprio come «segno dello specchio»,
che di norma è causata da un danno all'emisfero destro del cervello. Sembra
quindi che l'emisfero destro svolga un ruolo determinante nel riconoscimento
della propria immagine.
Tale circostanza è stata provata anche ricorrendo a
una recente tecnica investigativa, la stimolazione magnetica transcranica. Si
tratta di una metodologia che permette di stimolare tramite un impulso magnetico
esterno il sistema nervoso centrale inibendone in modo selettivo il
funzionamento: è possibile, così, stabilire qual è il ruolo che una certa
regione del cervello svolge nell'esecuzione di un determinato compito. Inibendo
dunque l'attività della corteccia prefrontale dell'emisfero destro, si è
scoperto che anche nelle persone sane la capacità di riconoscere il proprio
volto può essere artificialmente compromessa, per poi ritornare nella norma una
volta che l'effetto della macchina si sia esaurito.
Considerazioni istruttive
La capacità di
riconoscersi allo specchio è dunque non soltanto una prerogativa di creature
sofisticate al meglio delle loro capacità, ma è anche fragile: sono
considerazioni istruttive riguardo a ciò che immaginiamo sia la nostra
autocoscienza. Da una parte è chiaro che essere consapevoli di se stessi non può
ridursi all'essere in grado di conoscere la propria immagine. La nostra vita
interiore è fatta soprattutto di ricordi, conversazioni silenziose con noi
stessi e sensazioni che non riusciamo a condividere con gli altri. Eppure, la
semplice constatazione che una creatura non umana non sia indifferente alla
propria immagine ci rende meno soli nell'ordine della natura - e forse mette
anche noi all'interno di quel negozio di cristalli, alle prese con un senso del
sé più delicato di quanto immaginavamo.
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