«Come può l'uomo conoscere, con la forza della sua
intelligenza, i moti interni e segreti degli animali? Da quale confronto fra
essi e noi deduce quella bestialità che attribuisce loro?» Chissà se quando
Montaigne metteva su carta questi pensieri, nella sua torre immersa nella
campagna del Périgord, poteva immaginare la corrispondenza d'amorosi sensi che
lega i ratti, che soffrono nel vedere i loro simili torturati, e che rinunciano
alle leccornie se per averle viene inflitta una scossa ai loro compari. Chissà
se sospettava la smaccata avversione per le ingiustizie dei cebi dai cornetti,
che controllano con attenzione che i propri compagni siano trattati
correttamente. O che i bonobo hanno tutt'altra idea su come condividere un
piatto di cibo rispetto agli scimpanzé, e che questi ultimi puniscono chi
arriva tardi per la cena, quando la regola imposta dai perfidi ricercatori è
che nessuno mangia se non sono tutti presenti. O, ancora, che l'unico modo che
aveva l'etologa russa Nadia Ladygina-Kohts per fare scendere dal tetto il
testardissimo scimpanzé Joni era di mettersi a piangere. E che le elefantesse
sanno delicatamente prendersi cura di chi sta male, come le orche o i delfini,
che sono cetacei assai compassionevoli.
BEKOFF M., PIERCE J., Giustizia selvaggia. La vita morale degli animali, Dalai, Milano, 2011
Certo possiamo immaginare che l'autore dei Saggi sarebbe
interessato a leggere Giustizia selvaggia. La vita morale degli animali, una
sorta di manifesto in cui l'etologo e biologo Marc Bekoff, cofondatore, con
Jane Goodall, di «Ethologists for the ethical treatement of animals» e la
filosofa Jessica Pierce invitano a riconsiderare il nostro modo di trattare gli
altri animali, dopo aver passato in rassegna i recenti studi che mostrano che
l'altruismo, l'empatia, l'avversione per le ingiustizie, la punizione, lo
sdegno sono qualcosa di ben più antico dell'uomo. Sono condivisi da molte
specie. La loro tesi è chiara: i dati che si accumulano stanno demolendo la
nostra percezione dei confini tra esseri umani e animali, mostrando che almeno
alcune specie hanno un ampio repertorio di comportamenti morali (e immorali), e
che questi danno forma alle loro vite e alle loro società. Che la differenza
tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato svolge un ruolo importante nelle
loro interazioni sociali proprio come nelle nostre. Certo, quello che è
corretto per un lupo non è necessariamente uguale a quello che è corretto per
un uomo, e anche all'interno delle singole specie è stato mostrato che le
regole di gruppo possono cambiare.
Il saggio è il naturale seguito a La vita emozionale degli
animali, in cui Bekoff sosteneva che le vituperate bestie, almeno quelle con un
cervello ragionevolmente sviluppato, hanno vivide e distinte personalità, menti
capaci di alcuni tipi di pensieri razionali e, soprattutto, sentimenti. Ci
raccontava che i gorilla fanno funerali, i cani ridono, gli scimpanzé piangono,
i cavalli hanno il senso dell'umorismo, i topi sono grandi amanti del
divertimento, mentre i pesci possono essere afflitti e spaventati, e sono pure
capaci di astuzia e inganno. Definita la moralità come «insieme di
comportamenti correlati e indirizzati verso gli altri, tesi a sviluppare e
regolare le complesse interazioni all'interno dei gruppi sociali», Bekoff e
Pierce ritengono che questa possa essere presente nelle specie che hanno tre
caratteristiche: comportamenti empatici (legati alla capacità di sentire le
sofferenze altrui, provare cordoglio, eccetera), cooperativi (quando c'è
altruismo, reciprocità, fiducia, punizione o vendetta) e concernenti la
giustizia (quando gli animali valutano la correttezza delle azioni altrui,
hanno aspettative riguardo a ciò che si si meritano o a ciò che deve essere
condiviso, quando sono presenti sdegno, castigo, rancore).
Almeno due studi del 2007 hanno mostrato che ci sono specie,
come i ratti, capaci di altruismo reciproco generalizzato, cioè di fornire
aiuto a un individuo sconosciuto e non consanguineo. Prima si riteneva una
prerogativa degli uomini e forse degli scimpanzé. «Se l'etica ha a che fare con
l'altruismo, non è detto che quest'ultimo abbia sempre a che fare con l'etica»
scrive l'etologo Danilo Mainardi nella prefazione. In biologia, il termine
altruismo è infatti usato in maniera piuttosto generale. Taluni ricercatori
sostengono che le muffe mucillaginose si comportino in modo altruistico (sic):
alcuni di questi organismi unicellulari «si sacrificano» per divenire parte
dello stelo della struttura mucillaginosa che deve morire per fare da sostegno
alle cellule vive. Bekoff e Pierce non ritengono di dover definire «morali» i
viscidi esserini, e l'esempio permette loro di introdurre il criterio dei
requisiti minimi: le muffe infatti, presumibilmente non posseggono una vita
emotiva e non hanno nemmeno abilità cognitive come quelle che servono per
capire le intenzioni altrui o fare previsioni sul futuro. «Noi proponiamo di
considerare morali gli animali capaci delle forme più complesse di cooperazione
e non di quelle più semplici, come l'altruismo derivante da selezione di
parentela (una sorta di nepotismo, ndr) e il mutualismo (quando gli individui
collaborano in funzione di un immediato vantaggio comune, ndr); di
un'organizzazione sociale dotata di un certo grado di complessità in cui
esistano norme comportamentali stabilite cui ricollegare forti stimoli emotivi
e cognitivi su ciò che è giusto o sbagliato; di un certo livello di complessità
del sistema nervoso, che serva come base per emozioni morali e per la capacità
di prendere decisioni fondata sulla percezione del passato e del futuro; di un
livello abbastanza elevato di capacità cognitive (di una buona memoria, per
esempio); di un alto grado di flessibilità comportamentale. I candidati
comprenderebbero i bonobo, gli scimpanzé, gli elefanti, i lupi, le iene, i
delfini, le balene, i ratti».
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