lunedì 11 marzo 2013

SOCIETA' DELLO SPETTACOLO. LE CRITICHE DI BARBARA CARNEVALI A GUY DEBORD. DA 'LE APPARENZE SOCIALI', IL MULINO, 2012


Nostalgia per l’immediato. Il romanticismo sociale di G. Debord

Secondo l’autrice la denuncia debordiana della società contemporanea come ‘società dello spettacolo’ ruota attorno a 3 presupposti:





  1. la società moderna, nella sua accezione capitalistica, è una società ‘malata’, anzi è l’ultimo stadio a cui sarebbe giunta la storia della civiltà occidentale, stadio di un percorso involutivo nel quale si sarebbe portato a compimento un graduale processo di “degradazione ontologica crescente: dall’essere si sarebbe passati all’avere per finire nell’apparire” (27). In un film del 1978, “Giriamo di notte e siamo consumati dal fuoco” (In girum imus nocte et consumimur igni) (si possono vedere alcune sequenze sulla rete) Debord contrappone immagini di ‘vita autentica’ (fotografie di origine autobiografica, documenti e memorie della Parigi degli anni Cinquanta, una  lunga sequenza delle fondamenta di Venezia girato da una barca) ad immagini di ‘vita inautentica’ accompagnate da didascalie come questa: “La distruzione di Parigi non è che una illustrazione esemplare della malattia mortale che sta uccidendo tutte le grandi città e questa malattia, in se stessa, non è che uno dei numerosi sintomi della decadenza materiale di una società” (27). Questo primo punto viene definito anche come “una sociodicea inserita in una filosofia pessimistica della storia” (30)
  2. lo spettacolo è una forma di alienazione in quanto “è lo specchio in cui la società contempla adorante la propria immagine perfezionata e sublimata senza sapere che è una immagine capovolta”. Infatti, la società ‘autentica’ è ormai (senza rimedio?) alle nostre spalle: vicina ad una natura non corrotta, senza “false brume dell’inquinamento, senza alberi morti soffocati” (estratti dal film citato). Secondo Carnevali, Debord si riallaccia alla tradizione anticapitalistica romantica, ad esempio, ai versi di un William Blake che scriveva di “fabbriche cupe e sataniche (these dark, satanic mills) (Prefazione a Milton). La ‘vita autentica’ è, per Debord, origine e meta della sua particolare filosofia della storia;

  1. il concetto di feticismo della merce. Ciò che vale, nella società capitalistica, non è il ‘valore d’uso’ di un prodotto (ciò a cui il prodotto serve) quanto il ‘valore di scambio’, ciò che il prodotto rappresenta; 
  2. certo, lo scopo principale di Debord non è quello di “fondare una nuova teoria della società” quanto quello di denunciare il meccanismo con cui l’ideologia capitalistica cerca di ingannare lo spazio pubblico. Il tutto porta ad una conclusione paranoica per cui “lo spettacolo sarebbe creato da poteri occulti che, attraverso la propaganda dei media, ingannano un volgo credulo e passivo (…) Non è altro che la vecchia tesi della religio instrumentum regni riadattata alla nuova religione della spettacolarità” (32).

Le critiche di Carnevali alle analisi di Debord

1. La società è, per sua natura, spettacolare o lo è diventata solo oggi, al tempo del capitalismo?
   Per l’autrice la socialità e i rapporti sociali implicano necessariamente “la mediazione di maschere ed apparenze”; ogni società poggia su una dimensione “mediale e immaginale”. Dunque società vuol sempre dire anche ordinario apparire sensibile, fatto che non impedisce di denunciare, poi, le eventuali “manifestazioni straordinarie” di questi aspetti. Debord non prende seriamente in considerazione il mondo delle apparenze “misconoscendo le cause della loro produzione fisiologica e il loro ruolo nello sviluppo normale dell’interazione … manca una analisi più realistica e spassionata della dimensione estetica del sociale” (32).
2. Le immagini e le apparenze provengono solo da quel potere che sta, tradizionalmente, in alto?
   Se appare giusta la relazione esistente fra apparenze, immagini e potere, occorre, però, spostare l’attenzione dalla fonte più scontata ed ovvia da cui esse possono avere origine per chiedersi se, invece, “il profluvio di immagini che invade il sociale non sia anche il prodotto necessario della società stessa e non sorga spontaneamente dalle sue profondità antropologiche” (32).



3. Siamo sicuri che i ‘nuovi schiavi delle immagini’ non desiderino essi stessi questa schiavitù?
   Si tratta dell’antico problema formulato da Etienne de La Boetie (1530-1563): la ‘servitù volontaria’*: “Comprendere perché amiamo lo spettacolo che ci domina e perché gli esseri umani non riescono a spezzare le catene immateriali delle apparenze che pure sono così fragili e vane (…) Occorre porre il problema della messinscena quotidiana, degli aspetti libidici del dominio spettacolare e della connivenza dei dominati con i loro dominatori: connivenza per lo più involontaria ed inconsapevole, ma proprio per questo tanto minacciosa (…) la magia delle immagini afferra le masse dall’interno, non cala mai inaspettata dall’alto, ma viene creata e sollecitata dal basso, dai bisogni stessi dei soggetti sociali” (33).
4. Una idea di potere come ‘formazione di compromesso’
   La spettacolarità appare come il risultato di un intreccio fra generazione spontanea e dal basso di apparenza e direzione strumentale, dall’alto, con lo scopo di dominare. Il potere, dunque, è un potere diffuso, ricercato anche da chi poi lo subisce! Si tratta, perciò, di “indagare in questa direzione, mentre il critico romantico vagheggia il mito di una società senza spettacolo cui sarebbe possibile ritornare una volta rovesciata l’alienazione esistente secondo il principio della negazione della negazione (…) Egli sogna una comunità originaria, pura, incorrotta, in cui l’umanità esiste in una dimensione di pienezza, senza veli e senza maschere, non si traveste, ma comunica in modo sincero e trasparente. Una società vergine, innocente come l’infanzia” (34).
5. Gli studi di Goffman mostrano che la presenza dell’artificio e della finzione gioca un ruolo fondamentale anche in comunità pre-moderne
   Se si guardano gli studi di E. Goffman sull’interazione sociale**, ci si accorge di un fatto molto importante: “Una dose di spettacolo è prevista dal funzionamento sano di qualsiasi tipo di società, persino da quello che sembra il più ridotto, coeso e vicino alla semplicità naturale. Con mossa decisiva Goffman ha dimostrato la sua teoria della rappresentazione sociale non a partire dal sofisticato stile di vita di una élite mondana e metropolitana, ma a partire dalla routine di una piccola isola delle Shetland, ossia proprio il tipo di comunità antimoderna che i romantici hanno esaltato in reazione alla crescita alienante delle mediazioni sociali nelle corti e nelle grandi città” (34).

Note:

* (…) «è davvero sorprendente, e tuttavia così comune che c’è più da dispiacersi che da stupirsi nel vedere milioni e milioni di uomini servire miserevolmente, col collo sotto il giogo, non costretti da una forza più grande, ma perché sembra siano ammaliati e affascinati dal nome solo di uno, di cui non dovrebbero temere la potenza, visto che è solo, né amare le qualità, visto che nei loro confronti è inumano e selvaggio. […] Ma, buon Dio! che storia è questa? Come diremo che si chiama? Che disgrazia è questa? Quale vizio, o piuttosto, quale disgraziato vizio? Vedere un numero infinito di persone non obbedire, ma servire; non essere governati, ma tiranneggiati; senza che gli appartengano né beni né parenti, né mogli né figli, né la loro stessa vita! Sopportare i saccheggi, le licenziosità, le crudeltà, non di un esercito, non di un’orda barbara, contro cui bisognerebbe difendere innanzitutto il proprio sangue e la propria vita, ma di uno solo […] Chiameremo questa vigliaccheria? diremo che coloro che servono sono codardi e deboli? Se due, tre o quattro persone non si difendono da un’altra, questo è strano, ma tuttavia possibile; si potrà ben dire giustamente che è mancanza di coraggio. Ma se cento, mille sopportano uno solo, non si dovrà dire che non vogliono, che non osano attaccarlo, e che non è vigliaccheria, ma piuttosto spregevolezza ed abiezione? […] Dunque quale vizio mostruoso è mai questo che non merita nemmeno il nome di vigliaccheria, e per il quale non si trova un termine sufficientemente offensivo, che la natura rinnega di aver generato e la lingua rifiuta di nominare?». (Discorso sulla servitù volontaria, 1552)

** “Il materiale illustrativo presentato in questo lavoro è di vario tipo: parte è stato ricavato da ricerche scientifiche; parte da documenti impressionistici scritti da gente curiosa;  parte sta a metà fra i due generi.. Inoltre mi sono spesso servito di un mio studio su di una comunità di piccoli coltivatori delle isole Shetland” (E. Goffman, Prefazione a THE PRESENTATION OF SELF IN EVERYDAY LIFE, 1959, tr. It. Il Mulino, 1969, p. 10)

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