I dati dicono che stiamo vivendo una situazione eccezionale. Per i Paesi dell’Europa meridionale (Italia, Spagna, Portogallo, Grecia e, in tono minore, Francia), il 2013 segna l’ennesimo anno di arretramento economico. In questo quadro, gli ammortizzatori sociali sono riusciti ad evitare il peggio, ma non hanno potuto impedire il blocco dell’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro.
I livelli della disoccupazione giovanile (under 25) sono drammatici: 59.1% in Grecia, 55.9% in Spagna, 38.4% in Italia, 38.3% in Portogallo, 26.5% in Francia — in tutto 3.6 milioni di ragazzi europei sono senza lavoro. Persino Mario Draghi ha lanciato l’allarme sui rischi sociali a cui siamo esposti.
Il nodo si stringe ancor più nel confronto con la situazione tedesca: la Germania, che pure ha le sue difficoltà, in questi anni ha visto crescere il proprio Prodotto interno lordo (Pil) ma soprattutto è vicina alla piena occupazione. L’Europa rischia così di affondare tra le accuse reciproche. I Paesi del Centro-Nord, con i conti in ordine, possono, a ragione, rinfacciare, ai Paesi del Sud, fortemente indebitati, le loro inefficienze. E questi ultimi possono, con buoni argomenti, accusare di pagare per l’egoismo dei Paesi più forti. Come in una famiglia in crisi, il divorzio è dietro l’angolo.
Persino il calcio conferma plasticamente la situazione: le due squadre tedesche che arrivano in finale di Champions League eliminando le squadre spagnole, dopo aver eliminato quelle italiane, sono lo specchio dell’Europa di oggi. Un mondo a due velocità. Dal punto di vista strutturale, la diagnosi è chiara: gli standard sempre più impegnativi determinati dalla globalizzazione, affrontati sotto il vincolo dell’unità monetaria europea, nel quadro della crisi finanziaria internazionale, hanno messo a nudo tanto i ritardi del Sud Europa (al netto delle pur importanti differenze che esistono tra, ad esempio, l’economia italiana e quella spagnola) quanto le incongruenze dell’architettura europea. Si può discutere sul peso relativo di queste concause. Ma il risultato non cambia. Nel corso degli ultimi anni, la situazione si è andata aggravando: allo stato in cui siamo, non si può pensare di andare avanti così né si può immaginare che i Paesi più deboli escano da soli dalla spirale in cui sono intrappolati.
Oggi, come mai prima, dalla fine della Seconda guerra mondiale, ci sono condizioni strutturali che approfondiscono il fossato che si va scavando nel mezzo del Vecchio Continente. Rischiando di spaccarlo. Affrontare una situazione straordinaria come quella che stiamo vivendo richiede una iniziativa straordinaria. Che significa trovare al più presto un modo concreto per dare una boccata di ossigeno all’intera economia europea. Al tempo stesso, nessuna azione straordinaria può, da sola, sciogliere i problemi di fondo, che riguardano da un lato la capacità dei Paesi del Sud di realizzare quel pacchetto di riforme strutturali necessarie per essere all’altezza dei tempi; dall’altro, la determinazione a sollevare l’Europa da quella condizione impropria che deriva dall’aver realizzato l’unione monetaria senza unione politica.
La Germania, dal canto suo, deve decidere: insistere con la linea di questi anni significa mettere a repentaglio il disegno di unificazione per perseguire un disegno di potenza nazionale. La fine dell’euro potrebbe forse favorire la germanizzazione di ampie parti del Vecchio Continente. Ma le tensioni che ne seguirebbero ci riporterebbero a un passato che pensavamo dimenticato. Oppure la Germania può diventare la levatrice della futura Europa. Indicando una road map, chiara ma realistica e sostenibile, che porti entro la fine del decennio a delineare i contorni di una unione politica.
Anche il Sud Europa — che ha nell’Italia la capofila — deve decidersi: lo spirito europeo, che ha sempre coltivato, deve assumersi le sue responsabilità. Nessuno può chiedere ai Paesi ricchi di pagare in cambio di niente. I Paesi del Sud hanno il dovere di riconoscere il ritardo storico in cui versano e di mettere finalmente mano alle riforme. Per usare un’immagine calcistica: qualificate per il campionato mondiale, le loro rappresentative non ne sono all’altezza. E rimediano così una serie di brutte figure.
Al punto in cui siamo, la teoria dei giochi suggerisce che siamo destinati al peggio. Impostare sulla base del mutuo interesse un negoziato tra parti così disomogenee, e con opinioni pubbliche così emotive, è una sfida impossibile. Anche perché l’equilibrio virtuoso a cui si deve aspirare si può raggiungere solo in un certo numero di anni. Ad aiutarci è la consapevolezza che il costo di un abbandono del progetto europeo sarebbe alto per tutti. Ma non è possibile stare insieme senza una visione politica positiva, capace, cioè, di far tesoro dell’insegnamento di Aristotele per il quale l’amicizia politica, che è condizione per la fondazione di una qualunque comunità, nasce solo dal comune riconoscimento e perseguimento di un bene comune irriducibile alla mera somma degli interessi di parte.
In questi dieci anni ci eravamo illusi che la moneta unica avrebbe creato l’unità politica. Ora la situazione si è ribaltata: se non si agisce politicamente, sarà l’euro a far deragliare il percorso di unificazione. Spezzando la solidarietà tra il Nord e il Sud del Continente. Senza individuare il bene comune capace di rifondare una amicizia europea — l’Europa che vogliamo essere, il percorso per arrivarci e le condizioni per poterci stare — non sarà possibile uscire dalla crisi nella quale ci ritroviamo. La politica, più che mai, è in campo.
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