«Il calcio non è solo per gli uomini: ma per quelli a cui piace giocare». Parole che sono uno spettacolare gol in rovesciata contro la facile retorica, se a pronunciarle è una bambina di 10 anni, strappata grazie ad un pallone dalla strada e da un destino con solo due opzioni previste: spacciare o prostituirsi. Parole che sono ossigeno vitale per Philip Veldhuis, olandese di 31 anni, di cui una decina passati come allenatore nel settore giovanile dell’Amsterdam, che ha scelto di mollare tutto e di trasferirsi nelle favelas di Rio de Janiero con l’intento di fare qualcosa di concreto per i giovani.
“Ho puntato sul calcio di strada: si può giocare ovunque, con regole concordate direttamente tra i ragazzi, garantendo la bellezza e la cura del gesto tecnico. L’obiettivo è quello di portare lo street football in luoghi dove i bambini non hanno il senso della moralità, sono abituati a convivere con le armi, ed hanno pochissima stima di sé. Giocando a calcio invece provano l’esperienza del successo, del lavoro di squadra, del sentirsi apprezzati, e imparano lezioni che possono poi utilizzare nella vita vera”. Nasce così il “Favela Street”, con tanto di campionato e campi improvvisati che spuntano ovunque ci sia lo spazio per tirare una palla in una porta abbozzata. Ma a Philip tutto ciò non basta: gli occhi delle ragazze che sbirciano le partite lo spronano a coinvolgere un’amica olandese campionessa di street football, Roxanne Hehakaija: insieme danno vita al “Favela Street Girl”, vincendo resistenze e pregiudizi, con 80 ragazze che tra le baraccopoli danno spettacolo tra dribbling e colpi di tacco, diventando loro stesso allenatrici delle bambine più piccole. “Ci sono adolescenti coinvolte nel traffico di droga che sono uscite dalla loro banda per seguirci: ora sanno con precisione cosa desiderano dalla vita ed hanno la percezione di essere qualcuno. E la soddisfazione più grande è proprio questa: offrire gli strumenti per scegliere il proprio futuro. Noi la nostra Coppa del mondo l’abbiamo già vinta”.
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