Fra le tante iniziative in ricordo di Tullio De Mauro che stanno avendo luogo a un anno e poco più dalla sua scomparsa, non mi pare di averne vista nessuna dedicata a una delle imprese a cui teneva di più. Parlo della sua testarda speranza che l’amministrazione italiana potesse finalmente imparare, se non a parlare, almeno a scrivere in modo civile e affabile.
A questa speranza dette corpo tra l’altro promuovendo il “Manuale di stile dei documenti amministrativi” di Alfredo Fioritto (2009). Se la ministra Fedeli, che in più occasioni si è fatta paladina della memoria di De Mauro, se ne fosse ricordata, dai suoi uffici non uscirebbero documenti come il raggelante Sillabo (sic) per l’educazione all’imprenditorialitàdestinato alle scuole medie di secondo grado, che ha fatto scalpore il mese scorso.
Il Sillabo, che è accompagnato da una circolare non meno raggelante, è infatti gremito di espressioni inglesi fitte fino allo stordimento: molte inutili, parecchie oscure, altre platealmente ridicole. Su questo punto è insorta l’Accademia della Crusca, che vigila sulla comunicazione pubblica segnalando eccessi, abusi e sfondoni. Secondo l’Accademia, il Sillabo sembra promuovere, più che lo spirito imprenditoriale, «un abbandono sistematico della lingua italiana». Un vero scoramento deve aver colto l’Accademia, se, alla fine della nota sul Sillabo, gettando la spugna, dichiara che «in considerazione della gravità del modello linguistico-concettuale offerto dal Sillabo» rinuncia del tutto a proporre soluzioni italiane alternative.
È chiaro che per rieducare l’amministrazione italiana (nel linguaggio e in altri ambiti) non è bastato lo scrupolo di De Mauro né basta la devozione che la ministra gli dichiara. La Crusca però ha segnalato con discrezione un altro aspetto critico del Sillabo: oltre che la lingua in cui è scritto, a creare allarme sono i concetti di cui è intessuto.
Il fitto documento (11 pagine) infatti non è che una tetra lista di frasi all’infinito (alcune senza neanche quello), divise in gruppi tematici e messe in fila quasi come giaculatorie, che non dicono nulla a chi si aspetta che i discorsi contengano un senso complessivo.
Ci vuol poco a immaginare che il Sillabo non è che la svelta messa in pagina di uno di quei Power Point che psicologi e consulenti aziendali usano a sostegno delle loro chiacchierate. Riporto qui alcuni campioni pescati a caso, con miei concisi commenti tra parentesi: «Comprendere l’importanza di avere una visione su possibili scenari futuri e loro concrete attuazioni (ovvio, banale). Condividere le passioni personali con il resto della classe anche attraverso giochi di ruolo, quiz individuali e lavori di gruppo (i quiz come strumento per condividere le passioni personali?). I pilastri di un’idea: rispondere ad un’esigenza e creare una soluzione originale (banale)».
In qualche caso, si sfiora la scrittura automatica: «Personas: costruire gli archetipi degli stakeholder correlati ad una sfida/idea specifica (beneficiari, clienti, ecc.) a supporto dell’implementazione di un’idea. Comprendere le caratteristiche e le potenzialità della co-progettazione, anche attraverso approcci di design thinking e sfruttando tecniche di prototipazione rapida.» Di queste massime, nel documento ne trovate centinaia, il che rende la lettura a dir poco disperante.
Ma gli estratti che ho dato qui sopra mostrano che il punto dolente del Sillabo non è tanto la cascata di espressioni inglesi, e neanche l’inondazione di platitudes che contiene. È piuttosto il modello di cultura che ne trapela. Cerco di darne una prototipazione rapida. Il mondo avanzato è avviluppato da tempo da una spessa coltre di cascami di cultura aziendal-economica (e del connesso linguaggio), originata nei dipartimenti di management statunitensi e poi spruzzata in forma degradata su tutti gli ambienti operativi. Il destinatario di qualunque servizio (alunno, passeggero, ammalato, detenuto) è ormai un cliente (o anche un customer), l’ente che gli assicura il servizio è un’azienda, la soddisfazione dell’utente è la customer satisfaction, le figure professionali che intervengono sono gli attori (o i players), il risultato è creazione di valore, bisogna essere non più attivi ma proattivi, la ricerca di finanziamenti è un fundraising e così via.
In questo universo l’inglese è a casa sua per una sua speciale proprietà: un banale termine inglese messo al posto di uno italiano comune dà di colpo l’impressione di essere un ineludibile termine tecnico, magari elaborato in qualche laboratorio californiano e raffinato da anni di uso specialistico. In questo modo il senso comune (banalità incluse) viene spacciato facilmente come scienza avanzata.
Ciò che più ci interroga, però, è il fatto che su questa base culturale si son costruite imprese potenti e aggressive, il cui business è ormai fiorente su scala mondiale. Uno dei settori più permeabili è la scuola o (come è meglio dire seguendo il Sillabo) l’education, da tempo diventata un ghiotto obiettivo (o target) per i privatizzatori di tutto.
Ad aprire la strada è stata la digitalizzazione, che, data la vastità della popolazione che abita la scuola, fa gola a molti. Soprattutto a quel che chiamo il blocco educativo-computazionale, il temibile complesso di multinazionali 4.0 tra informatica e media che stanno divorando tutto ciò che sul mondo della scuola si impernia: case editrici, attività di formazione, arredamento e equipaggiamento, strutture per il tempo libero. Possono contare sull’ingenuità o la furbizia dei decisori e sull’entusiasmo da neofiti dei professionisti della scuola, che in questo modo si sentono moderni.
Molte delle lavagne elettroniche (LIM) che inondarono l’Italia una decina di anni fa giacciono abbandonate, ma furono ugualmente piazzate a tremila euro ciascuna. Da tempo in mezzo mondo si preme per riempire le scuole di tablet, che un’ideologia entusiastica diffusa presenta come il rimedio di tutti i mali. La nostra Fedeli ha perfino insediato una commissione che indichi come sfruttare il telefonino a scopo didattico. Ai tempi della sua predecessora, la ministra Giannini, il Miur sbandierò un accordo con TED, multinazionale dell’education, per tenere nelle scuole corsi di public speaking. Si tratta di un’organizzazione statunitense «votata (diceva il comunicato stampa) alle idee che meritano di essere diffuse» (sic).
E cos’era il Public speaking? Nient’altro che il più noto “parlare in pubblico” o, con termine desueto, l’oratoria, che la multinazionale aveva riscoperto e trasformato in sillabo per piazzarla nelle scuole. Non so che fine abbia fatto quell’accordo, ma ricordo che il pacchetto comprendeva anche un concorso finale, il TEDxYouth, «rivolto a tutti gli studenti italiani delle scuole superiori che potranno candidarsi e raccontare le proprie idee in un “discorso” di 18 minuti in 11 diverse categorie.» Nemmeno gli insegnanti sono risparmiati, se si lasciano tentare dal Global Teacher Prize, organizzato da una Varkey Foundation, che designa il miglior insegnante del mondo!
Il Sillabo della Fedeli ha fatto giustamente insorgere l’Accademia della Crusca. Dovrebbe però fare effetto anche ai cittadini, perché è un segnale minuto ma eloquente dello spirito aziendalistico e privatizzante che soffia sull’Occidente e ne sta ristrutturando le istituzioni.
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