1. Le classi sociali nell’emiciclo parlamentare.
La doppia ipotesi che muove questa indagine è che i partiti politici non sono altro che i “veicoli” con cui le classi sociali si contendono il potere politico nelle competizioni elettorali e che queste classi sono riconducibili, grossolanamente, alle denominazioni classiche di “borghesia”, “proletariato” e “ceti medi”. Naturalmente queste denominazioni andrebbero adattate al giorno d’oggi, così da distinguere la borghesia in industriale, agraria e finanziaria; il proletariato da chiamarsi meglio “salariato” o “classe operaia” (ma non certamente “classe subalterna”!); mentre i ceti medi risultano come un coacervo di strati sociali difformi in cui sono indistintamente compresi i “padroncini” (di fabbrica e di campagna), i lavoratori autonomi (artigiani, commercianti, e liberi professionisti) e gli impiegati sia privati che pubblici. E qui va ricordato lo sconcerto che ci prese quando, appena pochi anni dopo l’insorgenza operaia dell’autunno caldo, Paolo Sylos Labini osò documentare, statistiche alla mano, che l’Italia era un paese a maggioranza della “quasi classe” dei ceti medi invece che del proletariato: nel 1971 il 49,6% contro il 47,8% che nel 1983 era già passato al 54% contro il 42,7%[i].