Megalomania e vanità sembrano di questi tempi abitare la scrittura, la politica, la musica e la scienza. Dal romanzo alla pagina Facebook, l’autocelebrazione appare continua ed è diventata indigesta a molti, difficile da tollerare. Le caratteristiche del megalomane impenitente risultano più o meno sempre le stesse: presunzione, senso d’invincibilità, manipolazione della realtà, narcisismo, onnipotenza, idealizzazione di sé.
Negli anni si è spesso ripresentato nel dibattito culturale lo spettro della megalomania degli scrittori: dagli eccessi di Gabriele D’Annunzio che dichiarò di essere il paroliere più capace d’Italia avendo utilizzato nelle sue opere più di 40mila parole diverse (tesi smentita molto tempo dopo dal calcolo meccanico), alle dichiarazioni della ex moglie dello scrittore francese Emmanuel Carrère che lei stessa accusa di attacchi di megalomania bipolare, fino all’articolo uscito anni fa a firma di Matteo Marchesini in cui alcuni scrittori italiani come Nicola Lagioia, Antonio Scurati e Tiziano Scarpa venivano definiti megalomani perché «fingono di dominare il contesto sociopolitico planetario».
Era il lontano 1894 quando anche Matilde Serao si interrogava sul tema nel suo racconto “L’amante sciocca”, la parabola disperata di una giovane donna semplice, umile e giusta che viene scelta da un borioso scrittore come compagna delle sue giornate. Nel racconto lo scrittore Paolo Spada dice d’essere un individuo dall’animo raffinato, uno che scrive capolavori. Quando parla di letteratura con gli amici non può fare a meno di gridare, perché è solo così che si parla a suo parere dell’arte: gridando. Adele, la sua amante sciocca, ascolta dalla stanza attigua queste urla e i terribili silenzi che seguono. «Resta pure, ma taci» non fa che dirle Paolo, quando Adele teme di disturbarlo durante i suoi incontri o durante la “sacra” scrittura.
Oggi che i cenacoli e le discussioni fino a tarda notte sono stati sostituiti dai post su Facebook e le bacheche di chi scrive si sono riempite di recensioni ricevute, classifiche scalate, copie vendute, ristampe, premi e menzioni, la megalomania di tutti noi impazza, la sensazione di continui traguardi e autoriferimenti è più viva che mai.
È di questi mesi una polemica social che sembra aver toccato i nervi scoperti del mondo della scrittura: gli scrittori e le scrittrici si attribuiscono da soli una rilevanza del tutto arbitraria? Sì, troppo spesso, ha risposto la pagina Facebook “Io, professione mitomane”, che riportava segnalazioni soprattutto sui giornalisti e le giornaliste che sul web facevano sfoggio della propria vanità.
Di recente anche molte giovani scrittrici, mie coetanee, erano passate per quella pagina ricevendo insulti e minacce private, derisioni da centinaia e centinaia di utenti. Tanto era diventato l’accanimento dei commentatori che alla fine gli amministratori stessi hanno deciso di chiudere la pagina. Da satirica era diventata violenta.
La tesi più sostenuta era che si dichiarassero capacità e competenze letterarie autocelebrandosi senza ritegno e senza costrutto. Le domande più frequenti: «Ma questa chi è? Chi la conosce?». Come se la megalomania trovasse giustificazione nell’effettivo valore, ma biasimo nella mediocrità decisa dal pubblico della pagina. L’interrogativo si è fatto insistente verso varie personalità, anche completamente fuori dal mondo dei libri, che sembrano attribuirsi importanza sui social. I commenti ricorrenti: «Vola basso», «Vai a lavorare», «Ma chi si crede di essere?».
Mentre quindi c’è da una parte una caccia minacciosa all’impostore, dall’altra però imperversa nella comunicazione una perenne e vibrante affermazione dell’io. Alla megalomania più evidente di chi è maggiormente seguito si accompagna una tendenza generale all’autocelebrazione quotidiana che sembra coinvolgerci tutti tra uno status e l’altro. Io ho fatto così, io penso colà, mio figlio è bellissimo, mia figlia ha preso nove in matematica, da giovane avevo le gambe lunghe, il mio gatto è aggraziatissimo e così discorrendo. Piccole note di una grande sinfonia comune e globale: l’inno al “sé”. Tra gli esempi di eccessi vale la pena menzionare una musica ormai a tutti gli effetti popolare come la trap. I testi raccontano la compresenza di un io smisurato, altissimo, vincitore, e un tu che dal basso guarda e invidia. L’io che canta è quello dei soldi, del sesso, della droga, l’io che si è fatto largo fino alla vetta e da lì mostra e dimostra la propria forza, il proprio dominio. Un io criticato dall’opinione pubblica come nocivo per le generazioni più giovani.
«Il mio orologio è preciso, dice esattamente quanto sono ricco», scrive Sfera Ebbasta in “Tik Tok”, in collaborazione con Marracash: «Il tuo disco appena uscito, frate’. È appena uscito dalla Top 50”. Mentre Paky in “Rozzi” afferma: «Mo sento un inno, nel rione i miei urlano: “Paky”. Tu senti “ni-no”, è tuo padre che avrà parcheggiato». Beba nella canzone “Groupie” di qualche anno fa inizia così: «Tutte dietro me come se avessi il bouquet. Mi guardi come se mi avesse fatto Monet». E si potrebbero fare molti altri esempi, in cui nei testi c’è sempre un io lussuoso, dominante, strafatto, opulento, mitomane che parla contro un tu, il quale subisce, umiliato e inginocchiato.
Dove l’io è chi canta ma il tu è indefinito, può essere l’altro rapper che prima lo ha menzionato in qualche canzone ma poi non sembra mai decollare con la sua musica, oppure un “tu” che siamo tutti noi, gli altri che quei soldi e quella fama non li hanno, gli altri e le altre che guardano. L’io che dice e pensa di essere grande basta quindi a renderlo tale, oppure dietro alla megalomania, si nasconde il vuoto, qualcosa di perduto?
Questa domanda sembra ricorrere nei due romanzi di una giovanissima ma già celebre scrittrice statunitense, Emma Cline, che ci racconta due figure di pericolosi megalomani: Harvey Weinstein e Charles Manson. I due personaggi si riconoscono per la violenta affermazione del sé attraverso i corpi degli altri (soprattutto corpi femminili), e i tentativi di rivalsa sempre vagheggiati e dietro l’angolo, ingigantiti, tanto ridicoli da essere dannosi e feroci. Come Manson (nel romanzo è presentato sotto le spoglie di un alter ego letterario) insegue il successo da musicista e non accetta il proprio fallimento, così Harvey è sicuro di poter passare impunito ai numerosi processi per violenza sessuale e già si vede salvato e assolto, pronto a ripartire e riportare in auge le logiche del suo potere lavorativo-sessuale.
Sul versante nostrano, in “Sembrava bellezza” Teresa Ciabatti prende di petto la mitomania dell’io-scrittrice. La bambina insicura, che non si sente mai bella, diventa famosa con il suo ultimo romanzo ed entra nell’Olimpo dei grandi, dei più amati. Allora tutti la cercano, tutti la vogliono e lei finge entusiasmo alle presentazioni, interesse per i suoi lettori: un io che si dichiara continuamente scrivente, operante, importante. Un io che sembra infine bearsi delle sconfitte che le sue aguzzine adolescenziali le hanno inflitto, senza neanche volerlo.
Quindi mentre Livia, la bellissima sorella maggiore dell’amica, tanto ammirata da ragazze, ha ora cinquanta anni ed è inferma, la scrittrice è riconosciuta, è celebre, ha scalato la sua vetta, e cerca di mettere a tacere le voci del passato, silenziandole con il disprezzo di chi ce l’ha fatta. Ma nel corso del libro appaiono le prime falle al sistema della confessione, la scrittrice che si è da sola incoronata scopre lentamente il fianco, racconta le proprie bugie, perché spesso ha fatto questo: mentre diceva di mettersi a nudo, si nascondeva.
Per svelare questo inganno, per scoprire cosa si cela, spesso, dietro alla mitomania proviamo a fare un passo indietro nel tempo e a tornare al 1894, l’anno di Serao. È giorno e Paolo Spada ha appena finito di scrivere metà del suo romanzo, sono passati mesi di cupezza, silenzi, sparizioni, pelle pallida e negazioni, ma adesso c’è un primo traguardo dopo tante «ore d’inchiostro». Spada sorride, beato, guarda Adele e le dice: «Sai? Sto scrivendo un capolavoro». E lei pensa che il peggio sia alle spalle ora che lui è soddisfatto. Eppure passa il giorno, arriva la notte e il volto di Spada muta completamente, se prima era pronto a gridare al mondo le sue doti, la sua verità, ora eccolo con lo sguardo perduto, seduto alla sedia come al patibolo. «Ho scritto delle corbellerie ignobili», dichiara Paolo ad Adele. «Come? Non ti sembravano un capolavoro?», chiede lei confusa. «Mi sembravano. Ero esaltato. Sono corbellerie».
Gli sembravano poche ore prima, esaltato dal senso di onnipotenza era lì a trarre compiacimento dalla sua scrittura e adesso invece: «Gli scrittori sono delle bestie inconcludenti, deboli e vigliacche». Adele cerca di leggere i libri di Paolo per capirlo meglio, li prova a commentare con lui, ma non conosce la vanità tossica dello scrittore e con i suoi pareri semplici lo ferisce, lui che si dà del genio e poi dell’incapace, lui che soffre al primo cenno negativo, alla prima ombra. «La tua testa è debole, non leggere tanto», dice Paolo ad Adele. «Come, neppure i tuoi libri?», domanda lei perplessa. «I miei meno degli altri. Già, non valgono niente».
A volte Paolo dice che non può farne a meno, altre che questo scrivere è un accidente, un fastidio, un niente e poi si disprezza e li disprezza, con gli amici li difende, grida, allarga il petto e la notte ne piange. Quella che sembrava la presa in giro di uomo sbruffone diventa il racconto del suo demone e del suo dolore, che riversa sulla donna sana e buona che ha al suo fianco. Questo mitomane ha dentro di sé quindi entrambe le facce dell’io e del tu della musica trap: il vincente e il perdente, l’eccesso e l’assenza, sfoggio e dolore.
Paolo Spada è in verità il nome che Serao usava per firmare alcuni articoli di giornale. Paolo Spada è lei, è la scrittrice che irride se stessa e la letteratura tutta, ma che racconta anche l’altro lato della medaglia, quello più atroce, più doloroso che è la debolezza umana, la sua sconfitta.
«Hai sedici anni, scrittrice», scrive oggi Ciabatti e sempre, ancora, nonostante i successi sugella il patto segreto con la mancanza, con l’insicurezza, con i sedici anni che ci portiamo dentro mentre scriviamo.
L’io che fa mito di sé è schizofrenico e bipolare, alterna fasi di giubilo a fasi di massacro, finge, si imbelletta, si traveste da vincitore e poi la droga lo mangia, i soldi finiscono, il sesso diventa violenza, non vende abbastanza copie, gli anni trascorrono e si accorge di aver solo scritto “corbellerie”.
Il megalomane è una creatura del presente che ci interroga, uno specchio liscio dove guardarci, un uomo o una donna che uniscono onnipotenza e distruzione, tripudio del potere e affondo dell’io.
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