Franco Basaglia nel ricordo di Peppe Dell'Acqua, che va in pensione e lascia il dipartimento di Salute mentale di Trieste
Agosto 1971: Franco Basaglia diventa direttore dell’ospedale psichiatrico San Giovanni di Trieste. E’ il periodo della rivoluzione culturale che porterà alla chiusura dei manicomi con la legge del 1978 dovuta proprio a Basaglia. Accanto all’innovativo psichiatra veneziano lavora anche un medico venticinquenne, baffuto, affascinato da quell’ondata di cambiamento. E’ Peppe dell’Acqua, psichiatra a sua volta e attuale direttore del Dipartimento di Salute Mentale di Trieste.Dell’Acqua è testimone vivente della trasformazione di quella collina che domina la città: da contenitore post-illuministico di “matti”, chiuso e isolato con i suoi 1200 prigionieri, le camicie di forza, gli elettroshock e le stanze imbottite, a quartiere universitario, aperto, attraversato da autobus di linea. A Dell’Acqua e al suo gruppo di lavoro (all’interno del quale Roberto Mezzina sarà il suo successore) si devono, negli ultimi decenni, la diffusione e l’evoluzione del modello di cura triestino, riconosciuto dall’Oms e basato su ascolto, empatia, reintegrazione sociale, porte aperte, persone libere. Si chiama all life approach e consiste nel rinunciare alla lettura semplicistica del malato come portatore di patologia, per adottare invece una visione olistica e funzionale che considera la persona inserita nel suo contesto sociale naturale. Oggi, attorno a quel modello, nel capoluogo giuliano lavorano più di duecento persone, strutturate in un Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura, più simile a un albergo che a un reparto d’ospedale, e in quattro Centri di Salute Mentale sempre aperti e accoglienti.
Quarant’anni e qualche bypass dopo, Dell’Acqua lascia. Va in pensione.
«Certamente non finisce un’epoca perché me ne vado io. Questa storia e questo metodo hanno ormai mezzo secolo: tutto cominciò a Gorizia, quando Basaglia iniziò a restituire dimensione etica, politica e storica alle persone rinchiuse nei manicomi. A poco a poco quell’utopia diventò realtà e il San Giovanni di Trieste ne fu piena espressione, con il suo simbolo, Marco Cavallo, la scultura in legno e cartapesta con cui aprimmo i cancelli del manicomio e attraversammo la città».
Cosa è cambiato, con la legge Basaglia?
«Le persone con disturbo mentale, fino a quel momento al di fuori della storia, sono entrate nelle relazioni, nel contratto sociale. E’ arrivata la persona, non c’è più il malato. E la persona, con la sua irriducibilità, mette in difficoltà il sapere psichiatrico, biologico, clinico. In Francia le persone muoiono ancora nei reparti di massima sicurezza. Episodi recenti di uomini morti legati ai letti sono stati segnalati anche a Cagliari e a Vallo della Lucania. Noi diciamo da sempre basta alle contenzioni e alle porte chiuse. Lo ripeto da più di trent’anni: le persone riescono a farcela malgrado tutto, perché svoltano e trovano una loro via. Dalla schizofrenia si guarisce»
Cosa risponde a chi afferma che il vostro esperimento è fallito o è rimasto almeno incompleto, visto che non sono in molti ad adottare nei fatti il metodo Basaglia, anche a manicomi chiusi?
«La questione si pone su due livelli. Il primo è che io posso dire provocatoriamente che non c’è una sola legge in Italia che si sia completata così profondamente come la legge 180. E’ accaduto che nel Parlamento italiano, la presidente di commissione Tina Anselmi chiese se le persone con disturbo mentale fossero o no cittadini: la risposta fu affermativa e questo fu il grande successo di quella legge. Altra cosa è la delega alle regioni, con le psichiatrie che non cambiano e non possono sopravvivere se non giocando su un oggetto morto come la malattia o utilizzando farmaci senza relazione con le persone in cura».
I vostri detrattori parlano di difficile gestione dei malati e di famiglie abbandonate a se stesse.
«Su questo tema il modello Basaglia non c’entra. Se lei va in Francia o negli Usa, dove non c’è questa legge, trova sempre persone sole e famiglie abbandonate e in più veri e propri “crimini di pace”. Nella civilissima Germania ci sono le “cliniche pulite”, stile Hannibal the Cannibal. In Italia, ancora oggi, regioni nobili come Lazio, Lombardia e Puglia spendono decine di milioni di euro per pagare centinaia di posti letto per persone abbruttite dai farmaci. In Friuli, ma anche a Pistoia e in molte altre località in cui il pubblico o il privato sociale funzionano bene, le persone in cura vivono nelle loro case o in luoghi in cui possono esprimere i propri desideri in relazione con altri, ambire a un lavoro e alla realizzazione di obiettivi».
Quattro decenni dopo, l’antipsichiatria non c’è più, le neuroscienze si sono evolute, i farmaci antipsicotici sono cambiati, e li usate anche voi a Trieste.
«Qui non abbiamo mai fatto antipsichiatria, ma psichiatria critica, per individuare i limiti di un sapere così istituzionale. Per quanto riguarda i farmaci, le molecole sono sempre più o meno le stesse, semplicemente per questioni di brevetti e di lucro ogni tanto tirano fuori qualcosa di nuovo, ma è un bias del mercato. Resta il fatto che chi è soggetto a trattamenti psicofarmacologici rischia di vivere un terzo in meno rispetto a chi non ne fa uso».
Però li adottate anche voi.
«Certamente. Un farmaco alla volta. Non cinque. E poi entriamo in relazione con la persona. Che è diverso da somministrare un quintale di farmaci e depositare su quelli la speranza di cambiamento».
Qual è l’episodio più intenso che porta con sé a fine carriera?
«La storia di un ragazzo che si chiama Max. Uccide il padre a 17 anni, si tatua il viso per punirsi, metà nero e metà rosso. Anni dopo, in una data fortemente simbolica, ricade in un altro episodio di violenza. Ci vogliono due decenni di strenuo lavoro da parte sua e nostra, poi si ripulisce il volto, si sposa e diventa a sua volta padre, acquisendo una dimensione completamente nuova rispetto al carcere, alle diagnosi, ai farmaci. Oggi mi chiama per raccontarmi come vanno le riunioni tra genitori all’asilo. E sono riuscito anche ad abbracciarlo, dopo tanto tempo. Prima, confrontarmi con lui generava in me emozioni contrastanti e difficili da gestire. Sa, ho un figlio della stessa età di Max. Fa lo psichiatra come me: lavora a Salerno, e mi racconta ogni giorno quant’è difficile questo mestiere».
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