M assa
(fr. masse-, ingl. m
ass; sp. masa-,
ted. Mass).
Secondo
l'accezione più seguita
nella sociologia contemporanea, si
intende per M. una moltitudine di persone
politicamente passive, in posizione
di oggettiva dipendenza rispetto
alle istituzioni portanti di una
società - politiche, economiche, militari
- e quindi fortemente influenzabili
da esse, incapaci di organizzarsi
e di esprimere una propria volontà,
che coincide con la gran maggioranza
della popolazione in tutti quei paesi
industriali avanzati, non solamente
quelli capitalistici, ove si sarebbe
(v.). Il termine viene peraltro
usato da
lungo tempo con grande varietà
di sig
nificati, a vo lte da parte di
uno
stesso autore e nello stesso
testo, e
molti di essi sono generici o
ambigui,
forse più di ogni altro termine
del
linguaggio sociologico.
B. Il termine M. ha avuto sin da
tempi remoti non meno di tre
referenti
diversi, con due connotazioni
pressoché
opposte per ciascuno. Per alcuni
il referente di M. è sempre
stato il
popolo lavoratore, il proletariato
(v.)
delle campagne e delle città,
ciò che
si potrebbe chiamare l’insieme
delle
classi governate-, per
altri sono state
piuttosto le classi medie (v.),
cioè la
piccola e media borghesia, che
se pure
non si identifica con la classe governante
è quanto meno - si afferma
- la forza sociale che l’esprime
e la
condiziona, imponendo la propria
volontà a qualsiasi governo. A
tali
accezioni «politiche» si è
spesso affiancata,
e a volte sovrapposta, una
accezione psicosociale dei
termine: la
M. come manifestazione materiale
di moti collettivi, moltitudine
fisicamente
concentrata in uno spazio
limitato
a causa di s tim o li o pulsioni
condivise. In questo caso M.
tende a
diventare sinonimo di folla. Inoltre,
posti dinanzi ai movimenti di
emancipazione
delle M., intese vuoi come
proletariato vuoi come classi
medie
- movimenti che con ambedue i
soggetti
si sono sovente espressi in moti
di folla - alcuni li hanno
considerati
un fenomeno progressivo, mentre
altri
vi scorgevano il segno che
anticipava
la fine d’una civiltà fondata su
valori
aristocratici. L’ intreccio dei
tre
diversi referenti, nitidi solo
se presi isolatamente,
e delle opposte connotazioni
presso vari autori, è all’origine
di
molte odierne ambiguità del
termine,
del quale è pertanto essenziale
ripercorrere brevemente la
storia.
Nel tardo Medioevo erano
chiamate
M. certi tipi di corporazione d’arte
e di mestiere, in specie di
quelli più comuni.
Tale associazione con i lavori
manuali ha probabilmente
influito su
uno dei successivi usi del
termine per
designare, al plurale - le M. -
gli ordini
o ceti inferiori, gli strati
sociali
più poveri, il popolo minuto del
contado,
dei borghi, delle città. Codesto
uso
era normale in molte lingue
europee,
ma non in italiano, nel Sei- e
Settecento.
Durante l’Ottocento il termine
M. si
diffuse nel linguaggio storico,
politico
e sociologico europeo per una
serie
di fattori: da un lato, la
formazione di
un proletariato industriale che
si concentrava
visibilmente nelle città, lo
sviluppo
tra le sue file di un forte movimento
sociale (v.), la parte avuta dai
moti di folla durante la
Rivoluzione
francese, poi nei moti
rivoluzionari del
1848, infine nella Comune di
Parigi;
dall’altro, lo sviluppo delle
classi medie,
il ruolo sempre più ampio che
svolgevano
nell'economia, e la loro parallela
ascesa politica culminante nelle
rivoluzioni
del '48, cui parteciparono
in prima linea le M. popolari ma
di
cui le classi medie furono per
allora
le principali beneficiarie.
La nuova dimensione, presenza e
visibilità delle classi
inferiori sollecitò
i primi interpreti del movimento
sociale
a impiegare il termine M. con
una connotazione progressista,
per
designare nelle M. proletarie
gli agenti
del mutamento storico e i futuri
soggetti
della nuova società che sarebbe
dovuta emergere dalle rovine
della
società borghese. Così lo
impiega
Marx, quando afferma, nella Introduzione
alla critica della filosofia
hegeliana
del diritto (18 41 -184 2), che
la filosofia diventerà forza
materiale
allorché si impadronirà delle
M., viste
come un aggregato di proletari
ancora
privi di una adeguata coscienza
di classe (v.). Tale accezione e
connotazione
di M. è rimasta pressoché
immutata nel pensiero marxista,
sino
ai contemporanei. La dialettica
tra
la M. disgregata e incoerente,
sia
come organizzazione sia come
cultura,
e il partito e gli intellettuali
come
agenti di unificazione
ideologica
e organizzativa, sarà un nodo
centrale
delle riflessioni di Gramsci
(cfr.
Nardone, 1971). Al polo opposto
dello
schieramento ideologico di
fronte
al problema delle M. moderne,
autori
quali Burckhardt e Nietzsche,
avendo per referente più l’ascesa
delle
classi medie che quella del
proletariato,
scorgono invece nell’avvento
delle M. l’espressione del
declino della
c iv iltà europea, il trio n fo
della
mediocrità, l’affermazione dell’egoismo
e della ristrettezza di
orizzonti
culturali e politici degli
individui più
irresponsabili e inetti. Un noto
passo
delle Considerazioni sulla
storia
u n ive rsa le di B u rc kh a rd t (1 8 6 8 ,
1 8 7 0 -1 8 7 1 ), nel quale
suona uno
sprezzo per il numero come
principio
base della democrazia, il cui
nucleo
può farsi risalire addirittura
ad
A ris tote le (la democrazia non
è il
miglior governo, ma solo quello
degli
o/ polloi, dei molti),
compendia efficacemente
il pessimismo aris tocratico
dell’epoca: «Il futuro
appartiene
alle M., o agli uomini capaci di
spiegar loro le cose nel modo
più
semplice»; i capi delle M.
moderne
sono perciò, di necessità, dei
«terribili
semplificatori».
Tra i due estremi si situano,
avendo
ancora per referente le classi
medie, alcuni
convinti fautori della democrazia
(v.) liberale, come A. de
Tocqueville e
J. Stuart Mill, i quali temono
però che
le forme di governo democratico
diano
origine a un nuovo genere di
dispotismo,
la cosiddetta «tirannia della
maggioranza». Tocqueville non
usa
il termine M., ma il capitolo
che ne La
democrazia in America (t. Il, 1835)
egli dedica alla «onnipotenza
della
maggioranza negli Stati Uniti»,
e ai
suoi effetti in varie sfere, lo
colloca a
pieno titolo fra i precursori
del significato
di M. come agente politico
attivo,
e anzi pericolosamente attivo,
mentre i sociologi contemporanei
ne
teo rizzera nno in special modo
la
passività. Sulla stessa linea Stuart
M ill, che nel saggio su La
lib e r tà
(1859) formulò le regole cui una
società
democratica dovrebbe attenersi
per ev ita re che l ’ in d iv id
u o sia
schiacciato dall’opinione
pubblica, dal
costume, dai gusti della
maggioranza,
definisce la M. come la
«mediocrità
collettiva», notando che essa
coincide,
nell'America dei suoi tempi, con
l’ insieme della popolazione
bianca,
mentre in Inghilterra è
costituita «soprattutto
dalle classi medie» (Stuart
Mill, 18 59 ; ed. it. 19 46 , p.
109),
quella M. di «droghieri e
mercanti»
che più degli operai formavano
allora
l’incubo dell’aristocrazia.
Anche nel
pensiero di Mill la M. non è
quindi una
moltitudine politicamente
irrilevante,
anzi; i rischi per la democrazia
non
derivano dalla sua apatia
politica,
bensì dalle sue attive
rivendicazioni,
che esasperano il principio
maggioritario
a danno dell’autonomia e della
c reatività in d iv id u a li di
cui una
democrazia ha più bisogno di
altri; i
governi non sono lo strumen to
di
un’élite per dominare le M., ma
il
potere che esse esprimono per
schiacciare
qualsiasi deviazione dalla
norma,
dalla «normalità» dominante.
L’interpretazione conservatrice
o reazionaria
dei fenomeni di M. ha avuto
largo corso, fino ai giorni
nostri, anche
per l’influenza di due opere
ampiamente
diffuse in tutte le lingue, La
psicologia
delle folle, di G. Le Bon (1895),
e La ribellione delle masse, di
J. Ortega
y Gasset (1 9 3 0 ). Il
referente temuto
e odiato da Le Bon sono le folle
rivoluzionarie francesi, di cui
Taine aveva
tratteggiato pochi anni prima la
cieca
suggestionabilità (Lancien
régime,
1876), e di fatto la sua analisi
tratta
spesso di fenomeni che attengono
propriamente alla folla, intesa
come
moltitudine di individui
radunati in
un determinato luogo e tra loro
interagenti
sulla base di pulsioni e
credenze
condivise, ancorché elementari.
In
essa emergono i lati peggiori
dell’individuo,
il quale regredisce così a forme
arcaiche di irresponsabilità e
di violenza,
che ciascun singolo, preso a sé,
respingerebbe con sdegno. D’altro
lato
Le Bon usa il termine M. sia per
intendere gli individui nella
folla, che
sono appunto «trasformati in
M.»,
sia per designare moltitudini
anonime,
da cui le folle in senso proprio
emergono.
Quest’uso libero e acritico del
termine
M. gli verrà rimproverato da
molti sociologi posteriori, da
Tarde (in
L’opinion et la fou le, 1 9 0 1 ) a von
Wiese. Il referente di M. di
Ortega y
Gasset, pur avendo connotazioni
spregiative
analoghe a quelle di Le Bon -
della M. vengono sottolineati
sempre
e soltanto la carica
distruttiva, l’irresponsabilità,
la regressione a stati infantili
o atavici, il crasso egoismo e
lo
sprezzo dei valori più alti - è
alquanto
diverso. La M. è di nuovo la
moltiJacob
Burckhardt
dichiara:
«Il futuro appartiene
alle masse, o agli
uomini capaci di spiegar
loro le cose nel modo
più semplice».
(Camille Fissano,
"Place du Havre",
Art Institute
of Chicago ,
tudine incolore, opaca,
indistinta, di
uomini medi, prodotto della
tecnica e
della democrazia liberale,
convinti che
la vita è facile e abbondante,
paghi del
proprio patrimonio morale e
intellettuale
e perciò chiusi a ogni istanza
esterna, e pronti quindi a
imporre a tutti,
in ogni momento, la loro volgare
opinione,
«secondo un regime di azione
diretta» (Ortega y Gasset, 1930;
ed.
it. 1962, p. 89).
Dagli inizi del XX secolo, nei
paesi
di lingua tedesca, dove l’opera
di Le
Bon viene tradotta ben presto
con il
titolo Psychologie der Massen
(19122),
il termine Masse è stato
ed è preso
frequentemente per designare un
aggregato
di persone radunate in un
luogo e tra loro interagenti
sulla base di
emozioni derivanti dalla
presenza reciproca
e dall’orientamento comune
di fronte a uno stimolo, uno
scopo, un
pericolo; è cioè sinonimo di folla
(il
referente numero tre) sebbene a
differenza
di questo termine non implichi
di
necessità la presenza di un gran
numero
di persone in uno spazio
ristretto, ma
semplicemente una compresenza di
persone, poche o molte che
siano. Tra
l’imponente letteratura tedesca
sulla
psicologia delle M. così
intese-già nel
1915 sarebbe stato impossibile
compilare
una bibliografia completa su
tale
soggetto - spicca l’opera di
Elias Canetti,
Massa e potere (1960).
Per altri autori, tedeschi e
non, il termine
M. designa invece una forma specifica
della sociabilità (v.),
che può
coincidere o no con una
moltitudine radunata.
Gli autori che hanno
maggiormente
contribuito allo sviluppo di
questo concetto di M. sono
Freud,
von Wiese e Gurvitch. Per Freud
la M.
è un numero rilevante di persone
collegate
tra loro, in modo da costituire
una
unità - naturale o artificiale,
spontanea
o organizzata - ad opera di una
«potenza
» o legame psicologico
riconducibile
in ultimo a una manifestazione
dell’Eros.
Caratteristico del fenomeno
«M.» è che un individuo, di cui
sono
note le predisposizioni, i
motivi, le intenzioni,
mostra di sentire, pensare e
agire in maniera affatto diversa
quando
sia inserito in una «moltitudine
umana
» sulla base di uno specifico
vincolo
affettivo; o anche solo quando, sulla
stessa base, egli si riferisca a
essa.
Non è in fa tti indispensabile
che la
«moltitudine degli altri» sia
fisicamente
presente (Freud, 1921: ed. it.
1971, p. 67 sgg., p. 89 sgg.).
Il costituirsi
di questa «pulsione sociale»
non è attribuibile soltanto al
fattore numerico;
alle sue origini v’è un ambito
più ristretto, la famiglia.
Detta pulsione
però diventa operante in nuove
direzioni
allorché l’individuo si collega
con
altri in una M. A parte il
contributo
così dato a una più approfondita
definizione
del concetto di M., Freud
anticipa
qui la teoria del gruppo di
riferimento
(v.), il cui nucleo è appunto
costituito
dall’osservazione che un
individuo
che «si riferisce» a un gruppo
da
lui apprezzato o temuto o
desiderato,
agisce in un modo particolare,
diverso
dal suo agire individuale, anche
se
11 gruppo non è presente.
Pervon Wiese la M. è una formazione
sociale
(v.) caratterizzata dalla
comparsa
di un senso di solidarietà
disorganizzata,
emotiva, e però orientata in
una stessa direzione. Egli
sottolinea,
riprendendo alcuni spunti di
Vleugels
- già presenti anche in Freud -
la
fluidità del confine tra
«moltitudine»,
cioè un mero aggregato o raduno
di
persone che agiscono ciascuna
per
motivi privati, e M. Un evento
improvviso,
come la chiusura improvvisa di
un parco di divertimenti, può
trasformare
la moltitudine degli spettatori
in una M. solidale. Importante è
anche
la sua distinzione tra M.
concreta e M.
astratta. La prima è costituita
da persone
effettivamente radunate in un
luogo
e quindi è osservabile da tutti,
mentre
la seconda è formata da una
moltitudine
di persone anche separate e
lontane che hanno in comune
determinate
esperienze di vita, in base alle
quali possono eventualmente dar
origine
a M. concrete. Affine a questa
distinzione, ma non esattamente
corrispondente,
è la distinzione che lo
stesso autore stabilisce fra M.
attuale
o attiva, e M. latente. Per
Gurvitch
(1 9 6 3 2) la M. è una delle
forme di
sociabilità mediante fusione parziale,
e precisamente quella che
possiede un
minor grado di intensità: in
essa la
fusione è debole e non interessa
che le
manifestazioni più esterne dell’individuo.
Esse si interpenetrano solamente
in superficie con quelle di
altri, mentre
gli aspetti più intimi della
personalità
ne restano esclusi.
Uso occasionale benché frequente
del termine M. viene fatto per
designare
un certo numero di persone
che agiscono in modo simile
senza
avere rapporti tra loro. Questo
concetto
di M., che corrisponde alla
«moltitudine
» di Vleugels e di von Wiese,
è stato chiamato da Sombart, in
una
sua rassegna dei significati del
termine,
il concetto statistico di M.
L’odierno significato di M. come
moltitudine politicamente
passiva, reso
in A a motivo del suo prevalere
nella
sociologia contemporanea, non
solo
nordamericana, si trova
anticipato
ne ll'o pera di Mosca ed è stato
ampliato e affinato da Wright
Mills.
In questa accezione M. designa
l’insieme dei governati, della
maggioranza
amorfa e disorganizzata
sottoposta
alla volontà e alla direzione
della minoranza
organizzata, la classe p o
litica
(v.), secondo la versione di
Mosca;
ovvero, secondo gli sviluppi di
Wright
Mills, la maggioranza della
popolazione,
inclusi lavoratori e classi
medie, che
nel sistema sociale del
capitalismo
avanzato si trova in una
posizione totalmente
subordinata, tutte le maggiori
decisioni essendo prese al
vertice
della piramide del potere
politicoeconomico-
militare da una élite (v.)
che
appare nei fatti irresponsabile
e inamovibile.
Mills definisce la M., in
contrapposizione
al pubblico, come una formazione
in cui le caratteristiche
originali
del pubblico si sono esattamente
rovesciate:
«nella M., a) coloro che
esprimono
un’opinione sono di gran lunga
meno numerosi di coloro che la
ricevono
[...]; b) la comunicazione
di notizie
e opinioni è quasi sempre
organizzata
in modo tale che è difficile o
impossibile
all’individuo controbattere
immediatamente
con efficacia; c) il passaggio
dall’opinione all’azione è
controllato
dalle autorità [...]; d )
la M. non
è autonoma rispetto alle
istituzioni: in
essa penetrano anzi gli agenti
delle autorità,
riducendo irrimediabilmente le
possibilità degli individui di
formarsi autonomamente
un’opinione attraverso la
discussione» (Wright Mills,
1956: ed.
it. 1959, p. 320). A onta del
disaccordo
tra Mills e Riesman sulla
struttura
del potere nella società
americana,
il membro tip ic o di codesta
M. è cara tte riz zato assai
bene da
Riesman come l ’uomo
eterodiretto,
e, in un contesto più specifico,
da
Whyte come l ’uomo dell’organizzazione
(Riesman, 1950; Whyte, 1956).
Come si evince da un’altra opera
di
Wright Mills, I colletti
bianchi (1950),
quelli che costituiscono gran
parte della
M. dominata dalle élite del
potere,
il suo concetto di
massificazione, ovvero
di trasformazione di una
popolazione
di piccoli produttori
indipendenti
in salariati, presenta più di
una analogia
con il concetto di proletarizzazione
(v.), preferito nel linguaggio
politico e
sociologico europeo. Hannah
Arendt ha
sottolineato l'opportunità di
applicare
il termine M. solamente a quella
maggioranza
di persone politicamente
neutrali
o indifferenti che non
aderiscono
mai a un partito e che per la
loro apatia
non possono venire integrate in
alcuna
organizzazione fondata su un
interesse
comune (19582, p. 311). Queste
M. hanno costituito il terreno
di elezione
per lo sviluppo del fascismo (v.)
europeo negli anni ’20 e ’30.
Un ultimo significato di M., che
si
contrappone virtualmente a tutti
i precedenti,
è quello di moltitudine
indifferenziata
di destinatari di messaggi
diffusi dai mezzi di comunicazione
di M. (v.), con l’implicazione che
individui
separati e lontani reagiscono
in modo simile a stimoli simili.
In questa
accezione il termine ha una
componente
soggettiva che non ha nelle
altre; è infatti l’emittente dei
messaggi,
o un osservatore che adotta il
suo stesso punto di vista, a
etichettare
genericamente come M. i
destinatari
dei messaggi stessi, ignorando
le caratteristiche sociali che
possono
rendere anche estremamente
diversi
i comportamenti dei soggetti
considerati, e stabilire tra
loro rapporti
di conflitto o di solidarietà i
più svariati.
Si giustifica così - ma soltanto
in questo caso - l'affermazione
di
Raymond Williams, che «non vi
sono
di fatto M.; vi sono solo modi
di considerare
la gente come M.» (1 9 6 1 ;
ed. it. 1968, p. 354).
. L'analisi delle M. come formazioni
sociali specifiche - forme della sociabilità
o aggregati di persone riuniti
in
uno spazio determinato, le une e
gli altri
a volte coincidendo - ha dato
luogo
a numerose tipologie che vertono
sia
sulle caratteristiche
strutturali della M.,
sia sui diversi stati che un
dato tipo di
M. può assumere. Le stesse
tipologie
sono però prive di senso se il
referente
è invece la maggioranza
politicamente
inerte. Tra le caratteristiche
strutturali
più frequentemente considerate
rientrano il modo di
formazione, che
può essere naturale, ad opera di
processi
sociali non intenzionalmente
attivati
da alcuno (e in questo caso la
M. si avvicina alla folla) o
artificiale,
in forza di una pressione
esterna o di
un piano voluto dai
partecipanti; il grado
di organizzazione e cioè di regolazione
e formalizzazione dei rapporti e
dell’attività interna alla M.; la
durata,
che può andare da pochi minuti a
molte
generazioni; il grado di
complessità,
ovvero la differenziazione
interna: vi sono
M. relativamente semplici e
primitive
e altre finemente articolate; \’apertura
o la chiusura della M.,
che nel primo
caso accoglie nuovi membri come
si presentano, mentre nel
secondo li respinge
o li sottopone a severa
selezione;
il grado d i visibilità, cioè
di percettibilità
da parte di osservatori esterni;
la dominante affettiva, intesa
come
lo stimolo o lo scopo che integra
e
orienta la M.: la fuga dinnanzi
a un
pericolo, l’aggressione nei
confronti di
individui di altri gruppi, una
festa; la
composizione, che può risultare internamente
omogenea o fortemente
eterogenea;
le funzioni cui la M.
contribuisce,
a livello individuale o
collettivo, da
una (M. unifunzionale) a molte
(M.
multifunzionale); infine il ritmo
d i azione,
più o meno rapido o accelerato.
Combinazioni specifiche delle
diverse
modalità di queste
caratteristiche distinguono
tipi particolari di M.: così la
chiesa e l’esercito sono M.
artificiali, organizzate,
durevoli (Freud); i partecipanti
a una festa campestre
costituiscono
invece una M. naturale, aperta,
scarsamente organizzata,
eterogenea e
transitoria. L’individuazione di
un tipo
di M. così operata permette di
inferire
altre sue caratteristiche e di
prevedere
con una certa approssimazione il
suo
comportamento in varie
circostanze.
Qualsiasi M. particolare può
assumere
parecchi stati, essere cioè
latente
o attiva; con o senza guida;
tranquilla
o morbosamente eccitata;
concreta,
composta da determinate persone
fisicamente radunate o radunag
li, o astratta, costituita cioè
da individui
che hanno in comune un unico
tratto o esperienza, come gli
spettatori
di cinema o i tifosi di uno
sport,
senza ulteriori
caratterizzazioni e a
prescindere dalla loro
collocazione nello
spazio o nel tempo.
Come s’è visto il concetto di M.
si
collega strettamente ai concetti
di
classe politica (v.), comportamento
collettivo (v.), comunicazione di M.
(v.), cultura di M. (v.),
movimento soc
ia le (v.), società in d u s tria
le (v.),
società d i M. (v.). Negli studi condotti
su tali temi si dà spesso
rilievo
alla continuità esistente sia
tra fenomeni
come M. e foila - tutte le folle
sono tipi di M., e molti tipi di
M. originano
folle in presenza di determinati
stimoli - sia tra la M. e altri
tipi di
comportamento collettivo.
Con riferimento
alla accezione
«politica» del termine si afferma spesso
che le M. sono un prodotto dell’industrializzazione,
dello sviluppo di élite
politiche, economiche e militari
che
le escludono sistematicamente
dalle
decisioni più rilevanti, della
burocratizzazione
crescente di tutte le società
industriali, capitalistiche e
socialiste,
della tecnologia e delle
comunicazioni
di M. Tale affermazione si fonda
su una prospettiva storica
errata. La
grande maggioranza della
popolazione,
in tutte le società precedenti l’attuale,
non ha mai partecipato se non
in minima misura alle principali
decisioni
politiche, almeno come soggetto
consapevole e responsabile.
Parlare
di decadenza, di dissolvimento
delle qualità civili e morali
più elevate
nel pelago della mediocrità
collettiva,
significa scambiare un processo
di emergenza e di accrescimento
della
visibilità sociale di M. di
popolazione
per una degenerazione rispetto
a una situazione di reale
cittadinanza
culturale e politica che in
realtà non
è mai esistita per le M.,
essendo essa
in passato privilegio di
ristrette élite.
È vero peraltro che il
dissolvimento dei
legami della comunità locale (v.),
l’urbanizzazione
(v.), l’organizzazione del
lavoro (v.) industriale, e in generale
lo sviluppo economico (v.)
e la modernizzazione
(v.), hanno prodotto e tuttora
producono M. di natura e d
imensioni
affatto nuove a paragone del
passato. Ciò ha dato origine a
problemi
di interpretazione e di azione
politica
del tutto originali.
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medicina-, ted. Medizinsoziologie).
A. L’analisi sociologica della
M.
prende a oggetto: a) le
differenze osservabili
nella frequenza, natura,
distribuzione
delle principali malattie tra
strati, classi, gruppi etnici,
professioni,
mestieri, ricercando le cause
dirette
e indirette di esse nella
struttura globale
della società, nella organizzazione
del lavoro (v.), nei rapporti tra
una società, il suo (cosiddetto)
ambiente
naturale (v.) e l’ambiente artificiale
che essa si è creata; b) i
diversi
tipi di organizzazione sociale
sviluppatisi
per la cura dei malati,
considerati
sotto l’aspetto di is titu z
io n i
(v.) e di sistemi soc iali (v.)
e messi
M e d i c i n a , s o c i o l o
g i a d e l l a
41
in rapporto con la struttura
della società;
c) i ruoli sociali, le
professioni,
le associazioni che si
sviluppano attorno
alla pratica, all'insegnamento,
alla gestione sociale della
medicina,
come gli ordini dei medici, i
sindacati
degli infermieri, le facoltà di
medicina;
d) le relazioni sociali e l'interazione
(v.) tra medico e paziente; e)
la scienza medica come forma di
scienza (v.), di conoscenza (v.) e
di
ideologia (v.) f) le ideologie, gli
atteggiamenti
correttivi, i pregiudizi
relativi
alla salute e alla malattia,
sempre
in rapporto alle strutture
sociali in
cui esse si formano, si
esprimono e
si trasformano.
Tradizionalmente viene inclusa
nella
sociologia della M. anche la
sociologia
delle malattie mentali (v.),
ma
l’evoluzione della
considerazione sociologica
di queste ultime, che arriva
in taluni casi a negarne la
realtà ogge
ttiva, tende a farne un ramo di
studio relativamente
indipendente.
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