In psicoanalisi conosciamo l’importanza del rapporto dell’essere umano con lo specchio. Come Lacan ci ha insegnato si tratta di una tappa cruciale dello sviluppo psichico: il bambino che ancora non conosce la sua immagine, che non ha mai visto il suo volto, incontra, grazie allo specchio, la sua identità riflessa apprendendo a costruirsi e a riconoscersi come un Io. È la virtù dialettica dello specchio a rendere possibile il riconoscimento della propria immagine attraverso l’immagine di un altro.
La pratica del tiro con l’arco nello Zen illustra in un altro modo questa stessa logica: l’autocoscienza si costituisce solo quando la freccia scagliata dal mio arco raggiunge il suo bersaglio. Ma lo specchio non è solo il luogo dove possiamo realizzare il riconoscimento positivo della nostra immagine. È anche un luogo che facilmente mobilita fascinazioni intensamente morbose. Da una eccessiva fissazione incantatoria allo specchio sorge, infatti, la figura mitologica di Narciso che per rincorrere la rappresentazione ideale di se stesso, riflessa nelle acque, perde la sua vita. La passione narcisistica è una passione smisurata per la propria immagine che genera solo distruzione. Non a caso Lacan metteva in stretto rapporto la passione narcisistica per la propria immagine con la tendenza aggressiva. Non sopportiamo di non essere quell’immagine ideale di noi stessi che lo specchio proietta davanti a noi. Aggrediamo chi ci pare abbia realizzato quel miraggio per noi impossibile da realizzare. Diventiamo, così, persecutori dei nostri ideali esteriorizzati.
Quando la passione narcisistica si accentua eccessivamente, il mondo che è apertura illimitata alla differenza rischia di restringersi, di ridursi sterilmente alla superficie asettica dello specchio. Il mondo perde la sua bellezza per irrigidirsi in una identità chiusa su se stessa. Da tappa fondamentale per la costituzione dell’autocoscienza, lo specchio si trasforma così in una prigione. Non è questa una cifra del nostro tempo? Non viviamo forse in un mondo che sembra assomigliare sempre più ad uno specchio? È qualcosa che vediamo tanto nella vita individuale quanto in quella collettiva. Nella vita individuale assistiamo sempre più alla tendenza a realizzare legami tra simili, speculari, neutri, anaffettivi, legami che danno luogo a nicchie separate e falsamente autoconsistenti. Esempi? Pensiamo all’anoressia contemporanea, ai siti Pro-Ana che inneggiano fanaticamente all’anoressia come stile di vita, al culto spasmodico del fitness, a quella nuova religione del corpo che ci indottrina in una schiavitù igienista che trasforma il diritto alla cura del nostro corpo in un incubo ipersalutista che fa valere un ideale uniformante di efficienza. I corpi in forma sembrano tutti corpi in divisa, corpi tutti uguali.
Ma pensiamo anche alle depressioni, oggi sempre più diffuse anche tra i giovani, come segnale di un restringimento della vita, di una chiusura mortifera su se stessi. O al venire meno della differenza generazionale, alla confusione che regna tra genitori e figli e tra le fasi evolutive della vita psichica: genitori che fanno i figli, adulti che giocano a fare gli adolescenti. La rete stessa e i suoi vari social networks è luogo di apertura o di chiusura del mondo? L’obbligo della connessione permanente non rischia forse di ridurre lo schermo della rete in un nuovo specchio narcisistico?
Anche la vita collettiva sembra incistarsi in uno specchio narcisistico. Pensiamo alle forti tendenze particolariste, etniche, che reagiscono all’universalismo apparente della globalizzazione dell’economia. Ho spesso ricordato che quando utilizziamo la metafora della “società liquida” dobbiamo anche far notare una tendenza altrettanto forte: quella del raggruppamento solido, autoreferenziale, dei simili, dell’identico. L’assenza di confini, di binari simbolici saldamente costituiti, di criteri normativi condivisi, che caratterizza l’aspetto “liquido” del nostro tempo, tende a generare, come una sorta di reazione sintomatica, la spinta all’esclusione del diverso, dello straniero, della differenza. Tende a radicalizzare una nozione di identità chiusa su se stessa, ad esasperare la spinta ad una “identificazione a massa” che abolisce la differenza. La violenza del femminicidio, del razzismo, del fondamentalismo religioso ed etnico, hanno la loro matrice comune proprio nell’adorazione narcisistica della propria immagine ideale e onnipotente che esclude tutto ciò che risulta ad essa eccentrico.
La psicoanalisi ci insegna che l’arroccamento sulla nostra identità, resa falsamente solida, è sempre indice di malattia. Questo accade nei gruppi sociali, nelle istituzioni come nella vita individuale. Quando il confine – che ha il compito cruciale di delimitare la nostra identità (senza il quale vi sarebbe il caos totale, il disordine della schizofrenia) – si irrigidisce, si inspessisce, si ingessa, la vita si ammala, perde la ricchezza dello scambio. Il mondo si riduce a uno specchio uniforme, a una superficie piatta che si limita a riflettere la presunta immagine ideale di noi stessi. Quando il confine cessa di essere, come direbbe Bion, “poroso”, può solo diventare una fortezza. E, come spesso e tristemente accade, le fortezze alla difesa delle quali gli umani si prodigano, sono, in realtà, desolatamente vuote.
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