giovedì 1 maggio 2014

MASS MEDIA ED ECONOMIA. B. VECCHI, I sommersi della rete, IL MANIFESTO, 29 aprile 2014

Codici aperti. Il web provocherà un’apocalisse sociale e culturale. Un sentiero di lettura a partire dal pamphlet di Jaron Lanier e dal saggio del docente del Mit Ethan Zuckerman



lL capi­ta­li­smo rischia di crol­lare, sep­pel­lendo sotto le sue mace­rie la demo­cra­zia. Il tarlo che sta divo­rando le sue fon­da­menta è la cul­tura della gra­tuità ege­mone nella Rete. Le imprese che offrono ser­vizi e con­te­nuti nel web senza chie­dere nes­sun com­penso hanno un equi­va­lente nella can­cel­la­zione di milioni di posti di lavoro in Europa e Stati Uniti. L’autore di que­ste affer­ma­zioni è Jaron Lanier, un ricer­ca­tore infor­ma­tico che cono­sce bene la Sili­con Val­ley. La rispo­sta alle sue fosche pre­vi­sioni arriva da poche cen­ti­naia di chi­lo­me­tri, da un luogo vicino a Boston sim­bolo al pari della valle cali­for­niana della cosid­detta «rivo­lu­zione del silicio».A for­nirla è Ethan Zuc­ker­man, docente dei media labs del Mas­sa­chus­sets Insti­tute of Tech­no­logy, che guarda al web come un stru­mento utile alla dif­fu­sione di una atti­tu­dine demo­cra­tica e cosmo­po­lita che pro­pe­deu­tica alla cre­scita eco­no­mica nel mondo. 

Sono autori di due volumi espres­sione di un ambi­va­lente «spi­rito del tempo» che può tran­quil­la­mente salu­tare la Rete come la terra pro­messa e al tempo stesso con­si­de­rarla un con­ti­nente ormai sac­cheg­giato e detur­pato da novelli rob­ber barons che, incu­ranti delle con­se­guenze delle loro scelte, stanno tra­sfor­mando il pia­neta in un incubo che annienta ogni pos­si­bi­lità di feli­cità. Le rifles­sioni di Lanier e Zuc­ker­man non hanno nes­suna pre­tesa di offrire una esau­stiva ana­lisi del mondo con­tem­po­ra­neo; piut­to­sto, sono da con­si­de­rare come anno­ta­zioni su una realtà che sfugge a ogni inter­pre­ta­zione uni­voca. E come spesso accade ai libri che riflet­tono, come uno spec­chio, le ambi­va­lenze della realtà, sono con­trad­di­stinti da una rinun­cia a una loro rap­pre­sen­ta­zione critica.Il ritorno degli hoboesJaron Lanier è noto nel mondo del web come pio­niere delle ricer­che sulle realtà vir­tuali, men­tre Ethan Zuc­ker­man è cofon­da­tore di «Glo­bal Voice», uno dei forum più seguiti sulla cul­tura digi­tale. Entrambi hanno pas­sato gran parte della loro vita con­nessi a Inter­net, rite­nendo la Rete una delle nuove mera­vi­glie del mondo moderno per la sua indub­bia capa­cità di met­tere in comu­ni­ca­zione uomini e donne. Nel 2007 la realtà ha però bus­sato alle porte delle loro case e dell’ingenua uto­pia che ha carat­te­riz­zato la loro gio­vi­nezza, in que­sti due volumi, ormai non c’è quasi più trac­cia. Gli Stati Uniti, paese dove vivono, ha visto le pro­prie città popo­larsi di poveri e di uomini e donne che, come gli hoboes dei primi trenta anni del Nove­cento, girano il paese alla ricerca di qual­che lavoro che con­senta loro di soprav­vi­vere. I luo­ghi sim­bolo della potenza eco­no­mica ame­ri­cana sono stati infatti deser­ti­fi­cati da spre­giu­di­cate stra­te­gie di imprese che hanno spo­stato, con l’attivo sup­porto dei vari governi, i loro siti pro­dut­tivi in altri paesi.Tutto ciò, nei due libri, costi­tui­sce l’ineludibile sfondo di un’analisi che tra­suda un’amara disil­lu­sione. Certo, Ethan Zuc­ker­man in Rewire (Egea edi­zioni, pp. 256, euro 26) con­ti­nua a con­si­de­rare Inter­net come l’habitat di una atti­tu­dine cosmo­po­lita che come un virus con­ti­nua a pro­pa­garsi per il mondo, anche se deve ammet­tere che le virtù demo­cra­ti­che della Rete sono più visi­bili al di fuori che non all’interno degli Stati Uniti, paese che ha visto dispie­garsi una capil­lare atti­vità di con­trollo sulle comu­ni­ca­zioni on-line da parte delle agen­zie di intel­li­gence nazio­nali. Chi non nutre nes­suna illu­sione sulle virtù sal­vi­fi­che della Rete, invece, è pro­prio Jaron Lanier, che con­si­dera il pia­neta sull’orlo di una apo­ca­lisse cul­tu­rale e sociale. In que­sto La dignità ai tempi di Inter­net (Il Sag­gia­tore, tra­du­zione di Ales­san­dro Del­fanti, pp. 409, euro 22), lo ripete con­ti­nua­mente, come un man­tra che dovrebbe allar­gare la coscienza: l’economia digi­tale pro­duce disoc­cu­pa­zione e povertà.In nome della creativitàIl disin­canto di Jaron Lanier verso ogni let­tura apo­lo­ge­tica della Rete non è recente. Già negli anni pas­sati aveva pun­tato l’indice con­tro la tra­sfor­ma­zione di uomini e donne in gad­get da ven­dere al mer­cato della pub­bli­cità (Tu non sei un gad­get, Mon­da­dori). Altret­tanto radi­cali sono state le sue cri­ti­che verso la pre­tesa da parte delle imprese di imporre stan­dard nell’uso e nello pro­du­zione dei pro­grammi infor­ma­tici: stan­dard che ini­bi­scono pro­cessi inno­va­tivi e crea­tivi nello svi­luppo del soft­ware. In que­sto volume, la cri­tica si con­cen­tra sulla cul­tura della gra­tuità ege­mone in Rete. Per il ricer­ca­tore infor­ma­tico, que­sto signi­fica la can­cel­la­zione di interi set­tori pro­dut­tivi e l’appropriazione pri­vata dei con­te­nuti non­ché di soft­ware inno­va­tivo pro­dotti dalla coo­pe­ra­zione sociale.Il suo ragio­na­mento si sof­ferma sul fatto che imprese come Goo­gle o Face­book, uti­liz­zando soft­ware open source, offrono ser­vizi e con­te­nuti gra­tui­ta­mente in cam­bio, però, di una ces­sione da parte dei sin­goli della pro­prietà sui pro­pri dati per­so­nali, che ven­gono rac­colti e memo­riz­zati per essere suc­ces­si­va­mente ela­bo­rati e ven­duti ad altre imprese. L’essenza dei «Big Data» sta pro­prio in que­sto scam­bio luci­fe­rino: gra­tuità in cam­bio di rinun­cia alle infor­ma­zioni e con­te­nuti pro­dotti dalle rela­zioni in Rete. L’effetto col­la­te­rale è la per­dita di milioni di posti di lavoro. Lanier, che è anche un musi­ci­sta, descrive la crisi ver­ti­cale dell’industria disco­gra­fica cau­sata dalla pra­tica dello sha­ring (la con­di­vi­sione di file musi­cali) e dal man­cato paga­mento del diritto d’autore agli arti­sti. Allo stesso modo indica nella pos­si­bi­lità di ripro­durre all’infinito le imma­gini e nelle pos­si­bi­lità di fare foto con tele­foni cel­lu­lari la leva che ha di fatto distrutto l’industria foto­gra­fica, ter­re­mo­tando l’intera filiera pro­dut­tiva e tra­sfor­mando in disoc­cu­pati i lavo­ra­tori impe­gnati nel settore.Ma se que­sti esempi dell’economia «imma­te­riale» sono ampia­mente noti, altret­tanto evi­dente è quanto acca­duto nell’economia «mate­riale». Qui il nome sim­bolo degli effetti nefa­sti delle tec­no­lo­gie digi­tali è Wal Mart, la catena di super­mer­cati che vende e pro­duce molti beni «tan­gi­bili», dall’abbigliamento all’elettronica di con­sumo e a molti altri manu­fatti più o meno tec­no­lo­gici. merci non di qua­lità, ma ven­dute a poco prezzo. Wal Mart ha suc­cesso per­ché ha un pub­blico in espan­sione costi­tuito pro­prio da lavo­ra­tori che per­ce­pi­scono bassi salari e impie­gati impo­ve­riti. Cioè quelle donne e uomini che la «rivo­lu­zione del sili­cio» ha tra­sfor­mato nell’esercito dei wor­king poor. Sono i lavo­ra­tori dell’auto, dell’acciaio, delle costru­zioni, del com­mer­cio, della sanità, dei ser­vizi che hanno cono­sciuto le stig­mate del decen­tra­mento pro­dut­tivo – gran parte delle merci Wal Mart sono pro­dotti negli swee­tshop asia­tici, mes­si­cani e arabi — e del con­te­ni­mento sala­riale che ha carat­te­riz­zato i trenta anni infau­sti della net-economy. E che hanno visto ridotti a cenere i diritti sociali con­qui­stati nel lungo Nove­cento. Lavo­ra­tori e lavo­ra­trici poveri come poveri sono i dipen­denti di Wal Mart.Jaron Lanier non è tut­ta­via ostile alla tec­no­lo­gia ed è scet­tico verso una pos­si­bile decre­scita più o meno felice. La sua «ricetta» per scon­giu­rare l’apocalisse sociale e cul­tu­rale che paventa è «in linea» con l’economia digi­tale. Pro­pone infatti di remu­ne­rare ogni atti­vità svolta in Rete, dalla con­sul­ta­zione di un sito, al mes­sag­gio inviato per com­men­tare un pro­dotto o un «mi piace». La somma delle atti­vità svolte on line con­sen­ti­rebbe l’accumulo di un red­dito indi­vi­duale per chi è disoc­cu­pato o una inte­gra­zione di red­dito per chi per­ce­pi­sce un basso sala­rio. Anche il con­sumo diviene pro­dut­tivo: ogni volta che un film o un libro o un brano musi­cale viene visto, letto o ascol­tato, il sin­golo ha diritto a un com­penso, per­ché la visita di un qual­siasi sito ali­menta il set­tore dei «Big Data».Cit­ta­di­nanze digitaliIl rico­no­sci­mento eco­no­mico delle atti­vità svolte in Rete ha come corol­la­rio una ria­bi­li­ta­zione del diritto di autore, ricon­dotto, nello schema pro­po­sto da Lanier, alla sua natura ori­gi­na­ria: diritto dell’autore ad essere retri­buito per la sua opera e non diritto pro­prie­ta­rio delle imprese. L’effetto indi­retto è la ride­fi­ni­zione di una cit­ta­di­nanza dove il mec­ca­ni­smo di inte­gra­zione sociale non è data dal lavoro, bensì dalla con­nes­sione alla Rete.Un’idea sem­plice a dirsi, ma dif­fi­cile a farsi. Jaron Lanier non pro­pone un modello sicuro di riu­scita, ma è inte­res­sato ad affer­mare appunto il prin­ci­pio che la rete è un medium uni­ver­sale e con­tri­buire alla sua valo­riz­za­zione eco­no­mica, indi­pen­den­te­mente da ciò che si fa quando si è con­nessi, deve avere un cor­ri­spet­tivo mone­ta­rio. Un punto di vista che ha fatto salire l’indice di gra­di­mento di Lanier tra i gruppi di mediat­ti­vi­sti liber­tari tra le due sponde dell’Atlantico, pro­pensi a limi­tare la loro cri­tica alla net-economy in quanto tec­no­strut­tura che ingab­bia le poten­zia­lità crea­tive del sin­golo. Ma Lanier non è un mediat­ti­vi­sta. Le sue tesi non vogliono certo tra­sfor­mare la realtà, ma tro­vare il modo per una par­ziale redi­stri­bu­zione della ric­chezza che non modi­fi­chi i rap­porti sociali domi­nanti: il suo obiet­tivo è, infatti, evi­tare il col­lasso del capi­ta­li­smo – l’apocalisse annun­ciata con un tono blasé e vaga­mente mes­sia­nico -, sal­vando e rico­struendo la «classa media», cioè la vit­tima sacri­fi­cale del capi­ta­li­smo contemporaneo.Qui serve un’opera di tra­du­zione seman­tica: la classe media di que­sto volume non è il ceto medio euro­peo o i white col­lar di Char­les Wirght-Mills, bensì la classe ope­raia, il lavoro vivo, il lavoro sans phrase di mar­xiana memo­ria. Già per­ché, ecco il para­dosso della sua ana­lisi, il capi­ta­li­smo non ha, nel suo svi­luppo, pro­dotto, secondo lo schema mar­xiano di cri­tica dell’economia poli­tica, il sog­getto desti­nato a sov­ver­tirlo: più sem­pli­ce­mente sta distrug­gendo pro­prio quel sog­getto, tra­sfor­mando tutti in una under­class che non ha capa­cità poli­tica di fer­mare la distru­zione delle basi mate­riali della ric­chezza. Nella rico­stru­zione della «classe media» ser­vono, e qui torna utile il sag­gio di Ethan Zuc­ker­man, delle «figure ponte» ani­mate da spi­rito xeno­filo (la curio­sità e la dispo­ni­bi­lità verso l’altro) che met­tono in rap­porto mondi diversi e dif­fe­renti. Sono cioè i «tra­dut­tori» di iden­tità, di stili di vita, di regimi poli­tici che inven­tano un nuovo cosmo­po­li­ti­smo e un regime di accu­mu­la­zione della ric­chezza che ha al cen­tro il sin­golo, non più e non solo indi­vi­duo pro­prie­ta­rio, ma anche essere sociale che fa della sua par­te­ci­pa­zione a una dimen­sione col­let­tiva il suo tratto distintivo.
L’assenza del PoliticoL’abbandono della gio­va­nile e inge­nua uto­pia sulla Rete come regno della libertà è però pro­pe­deu­tica allo svi­luppo di una visione altret­tanto inge­nua, dove un ruolo cen­trale viene svolto dal mer­cato e dall’idea libe­rale che più si hanno infor­ma­zioni più è pos­si­bile vivere in libertà. Le tesi dei due autori non sono robin­so­nate, come reci­tava il grande vec­chio della cri­tica all’economia poli­tica quando ana­liz­zava gli stu­diosi del nascente capi­ta­li­smo, ma poco ci manca. Oltre a una povertà e appros­si­ma­zione ana­li­tica dei due volumi – ele­mento che con­trad­di­stin­gue più quello di Lanier che quello di Zuc­ker­man – entrambe le ana­lisi can­cel­lano la dimen­sione del Poli­tico, cioè dei rap­porti e di eser­ci­zio di potere nel capi­ta­li­smo con­tem­po­ra­neo. Sono libri sullo spi­rito domi­nante del tempo. Met­tono sì in evi­denza para­dossi e con­trad­di­zioni della realtà con­tem­po­ra­nea, ma non li inter­pre­tano. Né sono pro­pensi a intra­pren­dere l’esodo che, dopo aver attra­ver­sato il deserto del reale, rie­sca a dare forma alle ric­chezze del possibile


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