mercoledì 23 aprile 2014

CINEMA E SOCIETA' ITALIANA. C. PICCINO, La rabbia giovane nel nord-est italiano, IL MANIFESTO, 23 aprile 2014

a prima volta di Pic­cola patria è stata la scorsa Mostra del cinema di Vene­zia, quasi un anno fa. Ci sono voluti molti mesi prima che il fim dagli Oriz­zonti lagu­nari arri­vasse nelle nostre sale, nel frat­tempo lo ave­vano voluto al festi­val di Rot­ter­dam, tra i più impor­tanti nel mondo — i pro­fes­sio­ni­sti del set­tore lo defi­ni­scono «il primo grande appun­ta­mento dell’anno» visto che capita in gen­naio — e poi in molti altri. Ales­san­dro Ros­setto che col suo film ha stu­pito — e con­qui­stato tanti spet­ta­tori — non salta fuori dal nulla. 



Da anni gira «docu­men­tari» che sono sto­rie di con­trad­di­zioni, con­flitti som­mersi, crepe fasti­diose al punto che, per fare un esem­pio, il film su Fel­tri­nelli — o sulla Fel­ti­nelli — è stato cen­su­rato dalla «com­mit­tenza» (la Fel­tri­nelli stessa) e mai distri­buito in Ita­lia. Nel suo caso, come in quello di molti altri, penso a Leo­nardo Di Costanzo, Alberto Fasulo, e la stessa Alice Rohr­wa­che è ora in con­corso a Can­nes col secondo film, Le mera­vi­glie, il «docu­men­ta­rio» non è mai stato un «genere», ma un rife­ri­mento teo­rico, il labo­ra­to­rio di ricerca poe­tica e fil­mica di un’immagine capace di espri­mere i sen­ti­menti con­tem­po­ra­nei. Dun­que luo­ghi, atmo­sfere — come nel caso di Ros­setto in Bibione Bye Bye One e Chiu­sura — sto­rie, figure emble­ma­ti­che di un pae­sag­gio ita­liano che que­sti autori pro­vano a ren­dere pae­sag­gio cine­ma­to­gra­fico. Lo stesso sguardo torna in Pic­cola patria, e ne trat­teg­gia le geo­me­trie, la scrit­tura (alla sce­neg­gia­tura lo stesso Ros­setto insieme a Cate­rina Serra e Mau­ri­zio Braucci), la visce­ra­lità delle emo­zioni, e anche nella «sba­va­ture», o forse pro­prio gra­zie a esse, dona potenza al film. Eccoci di nuovo nel «suo» nor­dest — Ros­setto è nato a Padova, dove è tor­nato dopo aver vis­suto tra Parigi, Bolo­gna e Roma — per quella che in fondo è una sto­ria d’amore: tra due ragazze, le pro­ta­go­ni­ste Maria Rove­ran e Roberta De Solier, scon­fi­nando più in una spe­ciale e asso­luta com­pli­cità, e tra una di loro, il per­so­nag­gio di Luisa (Rove­ran), e il ragazzo alba­nese Bilal (Vla­di­mir Doda), quasi due Romeo e Giu­lietta dei nostri giorni. Ma anche la sto­ria di un pre­sente — del resto: tutte le sto­rie d’amore sono immerse un un tempo no? — e di un pezzo d’Italia, dei suoi umori, dei suoi males­seri e di quei cam­bia­menti che vi hanno gene­rato fustra­zioni eco­no­mi­che e per­so­nali spesso peri­co­lose. Si parla di crisi, di lavoro che non c’è più, di un diso­rien­ta­mento pri­vato e col­let­tivo. Dello scon­tro tra adulti e ragazzi. Di attese e di ipo­cri­sie — anti­che e sem­pre nuove. Di un con­fine impre­ci­sato tra città e cam­pa­gna lungo i bordi di un’autostrada, e den­tro a un hotel con piscina e pre­tese hol­ly­woo­diane ma ano­nimo come il resto, dove nel movi­mento inces­sante dei camion e delle auto­mo­bili che non si fer­mano mai la realtà si scio­glie nell’immaginario. L’incontro che segue — a lungo rin­viato — è acca­duto pochi giorni prima dell’uscita in sala di Pic­cola patria, a Roma, un bel pome­rig­gio di sole.Come sei arri­vato all’’immagine della «Pic­cola patria»?All’inizio di tutto ci sono i luo­ghi. Per me sono quasi un’ossessione. Avevo in mente con grande chia­rezza que­sta imma­gine in cui la cam­pa­gna incon­tra la città ma com­batte per non esserne com­ple­ta­mente assor­bita. È una visione che porto con me dall’adolescenza, sono cre­sciuto in posti così. Dovevo tro­varne uno simile, il mio film comin­ciava da là. Fin­ché non siamo arri­vati nell’albergo che è diven­tato il cen­tro della sto­ria, quando l’ho visto mi sono detto: eccolo, è il posto giu­sto. Il resto, il caso­lare dove vive la fami­glia di Luisa, la rou­lotte del ragazzo alba­nese Bilal, è arri­vato dopo. Abbiamo cer­cato molto anche que­sti spazi per­ché sapevo che dove­vano essere vicini, tra loro doveva sta­bi­lirsi una sorta di cor­ri­pon­denza nell’esprimere la giu­tap­po­si­zione tra il con­te­sto urbano e la cam­pa­gna. Nella ricerca è fon­da­men­tale ascol­tare i luo­ghi, capire quali cose pos­sono entrare nel film, appro­priarsi delle espe­rienze che i luo­ghi ti danno, e non solo sul piano pratico.Però «Pic­cola patria» è un film costruito com­ple­ta­mente all’interno di una dimen­sione narrativa.Strut­tu­ral­mente Pic­cola patria è come si dice una «fin­zione». Anche se la sepa­ra­zione tra docu­men­ta­rio e fin­zione per me non è mai esi­stita, almeno da quando ho sco­perto il cinema, a Parigi, vedendo i film di Scor­sese, Depar­don, Cas­sa­ve­tes, Bra­khage… L’ idea di rac­con­tare la fin­zione con la non-finzione, che sem­bra essere una sco­perta di oggi, è sem­pre esi­si­tita. Penso che girare un film com­porti l’assunzione di un rischio, il che signi­fica scom­met­tere su un pro­getto, met­tersi in peri­colo, lavo­rare alla ricerca di un lin­guag­gio. E in que­sto senso non ho mai pen­sato al docu­men­ta­rio o alla fin­zione come a degli scom­parti inco­mu­ni­ca­bili. Nel film ci sono ele­menti che pos­siamo defi­nire più «docu­men­ta­ri­stici», la messa, il comi­zio, la festa popo­lare; li volevo, e per­ciò li ho cer­cati, dove­vano fun­zio­nare come il coro della tra­ge­dia. Io e Cate­rina Serra (la cosce­neg­gia­trice, ndr) abbiamo sem­pre pen­sato a que­sta sto­ria come a una tra­ge­dia clas­sica, in cui con­ver­gono una serie di micro­sto­rie, di incon­tri casuali insieme alla cifra locale del nor­dest. In que­sti casi ho «but­tato» gli attori in una situa­zione di realtà chie­den­do­gli, come per esem­pio in chiesa, di «diven­tare» i fedeli della fun­zione domenicale.È per que­sto che hai deciso di girare in dialetto?Visto che il ter­ri­to­rio era la lente del nostro rac­conto, il dia­letto mi sem­brava quasi neces­sa­rio. È la lin­gua dei luo­ghi, doveva essere quella del film.C’è una com­po­nente di forte fisi­cità nelle imma­gini, non solo rispetto agli attori ma anche nel modo di ren­dere il pae­sag­gio pro­ta­go­ni­sta a sua volta.Ho lavo­rato molto sui corpi dei pro­ta­go­ni­sti, e sul modo in cui dove­vano muo­versi nello spa­zio cer­cando di capo­vol­gere il rap­porto abi­tuale tra attore e per­so­nag­gio. Non volevo che si esau­risse nello spa­zio di un ’motore/azione/stop’. Abbiamo abi­tato insieme nell’albergo dove gira­vamo, vivendo una dimen­sione dome­stica, e in que­sto è stato fon­da­men­tale lavo­rare con una troupe gio­vane e soprat­tutto ’lon­tana da Roma’. Senza cioè i mac­chi­ni­sti o gli elet­tri­ci­sti ma piena di dispo­ni­bi­lità. Con gli attori non ho mai blin­dato il dia­logo scritto, anzi molto spesso siamo andati con­tro la sce­neg­gia­tura. Era pre­vi­sto che sal­tasse nella crea­zione insieme, dove gli chie­devo di imma­gi­nare una sto­ria pre­ce­dente coi loro per­so­naggi. É un lavoro impor­tante che ricade anche sul tempo delle riprese. Forse que­sto è l’aspetto dove ho più usato gli stru­menti del docu­men­ta­rio. Là sai che quando cominci a girare tutto è come oro colato, per que­sto devi stare attento a cosa suc­cede, devi riu­scire a cat­tu­rare le epi­fa­nie dell’imprevisto da dove arri­vano le emo­zioni più pro­fonde, con­scie o incon­sce, di chi ti sta davanti. Ho pro­vato a tra­sfe­rire que­sta espe­rienza nella ’fin­zione’ cer­cando di tenere diritta la barra senza limi­tarmi a girare le pagine della sceneggiatura.Pos­siamo dire che «Pic­cola patria» è un film sui gio­vani in que­sto momento storico?Direi piut­to­sto che è un film sul san­gue dei gio­vani il cui pre­sente e pos­si­bile futuro è alla mercè di tutti. I corpi, i culi delle ragazze, e tutti que­gli aspetti di modi di fare che sul momento sem­brano essere espres­sione di una grande libertà, si rive­lano una forma di vam­pi­riz­za­zione costante. Nei miei per­so­naggi ci sono alcune durezze tri­ve­nete che amo, quell’andare a testa bassa con­tro una società che umi­lia le loro vite.E che mal­grado loro andrà avanti.Par­lavi del lavoro con gli attori. Nella riu­scita del film sono un tas­sello fon­da­men­tale. Come li ha scelti?Dove­vano par­lare veneto e essere dispo­ni­bili alla nostra idea di set. Il casting è stato abba­styanza clas­sico, e come suc­cede in tutti gli incon­tri a quello giu­sto scat­tava qual­cosa. Per farti un esem­pio: Maria Rove­ran viene dal quar­tiere dove sono cre­sciuto, abbiamo in comune la stessa iro­nia. Con Lucia Mascino, che inter­preta la madre di Luisa, ci cono­sce­vano da tempo, ci era­vamno incon­trati a un coprso di reci­ta­zione. E avere avuto un’esperienza come da attore mi ha molto aiutato

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