Una delle grandi novità del XXI secolo è il
riapparire su larga scala delle forme di dipendenza schiavile e semischiavile.
Un segnale in tal senso, sia pure espresso con disarmante ingenuità, si è
avuto, in sede ufficiale, quando «da Oslo è partita una delegazione guidata da
Ole Henning, allarmata dalle notizie sulla diffusione del caporalato nella
raccolta del pomodoro nel Sud Italia» («Corriere della Sera», 23 ottobre 2013).
Il riferimento è alla condizione semischiavile dei neri impiegati nelle
campagne della Capitanata, di Villa Literno o di Nardò. Beninteso, il pomodoro
poco «etico» è solo la punta dell’iceberg di un fenomeno mondiale, nel quale rientrano
le maestranze schiave del Sud-Est asiatico o del Bangladesh, per non parlare
dei minatori neri del Sud Africa, sui quali spara ad altezza d’uomo una
polizia, anch’essa fatta di neri, per i quali la meteora Mandela è passata
invano. È chiaro che il profitto si centuplica se il lavoratore è schiavo
(schiavo di fatto, se non proprio formalmente). E il profitto è più sacro del
Santo Graal nell’etica del «mondo libero». La mondializzazione dell’economia e
il venir meno di qualunque movimento — o meglio collegamento — internazionale
dei lavoratori ha creato le condizioni per questo ritorno in grande stile di
forme di dipendenza che in verità non erano mai scomparse del tutto. Basti
ricordare che soltanto «nel febbraio del 1995 il Senato del Mississippi, uno dei
baluardi storici del razzismo Usa, ha approvato il XIII emendamento della
Costituzione americana, siglato nel 1865, secondo cui la schiavitù volontaria o
involontaria non potrà esistere entro i confini degli Stati Uniti» («Corriere
della Sera», 19 febbraio 1995). E, quanto all’Europa, non sarà male ricordare
che l’abrogazione della schiavitù coloniale, varata dalla Convenzione nazionale
a Parigi nel febbraio 1794, rimase di fatto lettera morta, poiché nel frattempo
buona parte delle colonie francesi nelle Antille era passata, nel turbine della
rivoluzione in Francia, sotto controllo inglese e la liberale Inghilterra aveva
vanificato gli effetti dell’abrogazione. Di qui la necessità di una nuova
solenne abrogazione, nel 1848, sotto l’impulso di Henri Wallon e di Victor
Schoelcher. Intanto incubava, negli Usa, la feroce guerra civile causata dalla
secessione del Sud, baluardo della schiavitù.
Il nesso tra capitale e schiavitù non si è dunque mai del
tutto spezzato. Ora un bel libro di Herbert S. Klein (Il commercio atlantico
degli schiavi , Carocci, pp. 288, e 20) ricostruisce, con fredda e tanto più
efficace documentazione, questa vicenda sulla scala dei secoli (soprattutto
XV-XIX), non senza un breve ed efficace preambolo sulle origini antiche
dell’ininterrotto fenomeno. Nel rapido sguardo che Klein rivolge alla schiavitù
antica si apprezza lo sforzo volto a distinguere l’entità del fenomeno in
Grecia da un lato e dall’altro nel mondo mediterraneo e continentale unificato
da Roma, dove la massa di schiavi, soprattutto nei secoli II a.C. - fine II
d.C., fu di gran lunga più grande che nella Grecia delle poleis . Forse Klein
non conosce il sesto libro dei Sofisti a banchetto di Ateneo di Naucrati (fine
II d.C.) — cioè la più grande enciclopedia a noi giunta di epoca
ellenistico-romana —, ma certo lì la questione viene ampiamente sviscerata,
cifre alla mano: e non è del tutto vero, a stare a quell’importante repertorio
antiquario, che nella Grecia del tardo V e IV secolo a.C. non si riscontrassero
realtà schiavistiche imponenti. La schiavitù in Grecia ha creato qualche
imbarazzo a una parte degli studiosi moderni (quelli in particolare cui è parso
che il fenomeno offuscasse la purezza del miracolo greco), i quali perciò si
sono affannati a screditare le poche cifre tramandate intorno all’entità del
fenomeno. Altri interpreti hanno ritenuto preferibile una linea più provocante,
e cioè: la schiavitù fu un bene perché rese possibile il miracolo greco. Altri
ancora, come il dilettante onnivoro, ciclicamente «riscoperto» per amor di
paradosso, Giuseppe Rensi (1871-1941), propugnarono in pieno XX secolo il
ripristino della schiavitù come unica garanzia di difesa del capitale: «Il
lavoratore — scriveva Rensi nei Principi di politica impopolare (1920) — in
quanto lavora non può non essere dipendente, sottoposto, servo di colui che gli
richiede le sue funzioni (…). Aveva perfettamente ragione Aristotele quando
sosteneva la necessità e l’eternità della schiavitù».
Questo modo di ragionare può avere vaste ramificazioni. Per
esempio negli anni Settanta ebbe un quarto d’ora di celebrità Eugene D.
Genovese: non già per i suoi studi molto utili sull’Economia politica della
schiavitù (Einaudi, 1972), ma per i suoi paradossi sul carattere «progressivo»
della schiavitù negli Usa del XIX secolo (Neri d’America , Editori Riuniti,
1977). E invece gli studi di Genovese meritano di essere ricordati per altre
ragioni: per aver messo in luce l’intreccio nell’epoca nostra, o molto vicina a
noi, tra capitalismo e schiavitù. «Il capitalismo — scrisse — ha assorbito e
anzi addirittura incoraggiato molti tipi di sistemi sociali precapitalistici:
servitù della gleba, schiavitù etc.» (L’economia politica della schiavitù ).
Quelle sue osservazioni risalenti all’inizio degli anni Sessanta, e focalizzate
— tra l’altro — sul caso emblematico dell’integrazione perfetta dell’Arabia
Saudita nel sistema capitalistico mondiale, tornano attualissime oggi, visti il
ritorno in grande stile del fenomeno schiavitù come anello indispensabile del
cosiddetto «capitalismo del Terzo millennio», nonché il ruolo cruciale della
feudale monarchia saudita nella difesa del cosiddetto «mondo libero» e nella
strategia planetaria degli Stati Uniti. Per gli Usa infatti il criterio
realpolitico ha quasi sempre avuto la meglio sulle scelte di principio, in
questo come in altri campi: la forza e il tornaconto come potenza erano il
fondamento, mentre la «dottrina» volta a volta esibita era, ed è, il paravento.
La tratta degli schiavi è stata praticata senza problemi (anche il virtuoso
Jefferson aveva i suoi schiavi, con tutte le implicazioni economiche ed etiche
che ciò comportava). Klein dimostra molto bene nel suo saggio, dal quale
abbiamo preso le mosse, che fu la penuria di mano d’opera interna a
incrementare l’opzione in favore della tratta; e che il meccanismo incominciò a
declinare nella seconda metà dell’Ottocento, non tanto in conseguenza della
guerra civile americana, quanto piuttosto per l’irrompere sulla scena della
massiccia emigrazione dall’Europa. Il fenomeno accomunò le due Americhe: «La
colonizzazione dell’Ovest statunitense e la conquista argentina del deserto
furono movimenti del primo e del tardo Ottocento che provocarono il massacro
delle native popolazioni amerindie che vi si opposero e la loro sostituzione
con coloni immigrati».
La «macchia» rappresentata dalla schiavitù non
passava inosservata in Europa: non bastava l’autoesaltazione retorica americana
a celarla. Nel 1863 un politico inglese di rango, che era anche un fine
studioso di storia antica, John Cornewall Lewis, pubblicò un dialogo, di tipo
platonico-socratico, intitolato Qual è la miglior forma di governo? (riedito
vent’anni fa da Sellerio), nel quale la pretesa dell’interlocutore denominato
«Democraticus» di provare la possibilità di attuare il modello democratico e
repubblicano con l’argomento «gli Stati Uniti lo sono» viene demolito
dall’antagonista, il quale osserva che tale non può essere un Paese in cui
esista la schiavitù. È una considerazione, oltre che un monito, che vale anche
per il nostro presente. Nel giugno 2013 si tenne a Kiev, mentre era al governo
il presidente eletto Yanukovich, la conferenza dell’Osce sul traffico di esseri
umani. Nel rapporto conclusivo si leggeva: «Dal 2003 il traffico di esseri
umani ha continuato a evolversi fino a diventare una seria minaccia
transnazionale, che implica gravi violazioni dei diritti umani. Sono stati
sviluppati nuovi sofisticati metodi di reclutamento, sottile coercizione e
abuso della vulnerabilità delle vittime, nonché di gruppi emarginati e discriminati».
A questo si aggiungano le risultanze del rapporto Eurostat sul traffico di
esseri umani in Europa dell’aprile 2013. Negli stessi mesi «La Civiltà
Cattolica» pubblicava un saggio del gesuita Francesco Occhetta, La tratta delle
persone, la schiavitù nel XXI secolo , mentre sul versante giuridico appariva
un volume denso non solo di dottrina ma anche di storia, La giustizia e i
diritti degli esclusi di Giuseppe Tucci con una significativa introduzione di
Pietro Rescigno. Si può ben dire, in conclusione, che l’intreccio tra
ramificata, onnipresente e indisturbata malavita e finanza incontrollata e
incontrollabile (riciclaggio del denaro «sporco») rappresenta ormai il contesto
ideale per lo sfruttamento intensivo e lucroso delle nuove forme di schiavitù. Altro
che articolo 600 del nostro codice penale! Il culto feticistico del profitto,
del denaro che produce sempre più denaro, è giunto al suo criminogeno apogeo.
Ed è tragicomico vedere e ascoltare il personale politico che amministra i
Paesi in cui tutto questo è consentito pontificare ipocritamente sulla tutela,
in casa d’altri, dei «diritti umani».
* LUCIANO CANFORA E’ UNO STORICO ED
UN FILOLOGO DELLA CULTURA CLASSICA
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