domenica 20 settembre 2015

ANTROPOLOGIA. C. WULF, L’alterità che resiste al disincanto del mondo, IL MANIFESTO, 19 settembre 2015

Ogni ten­ta­tivo di ridurre l’altro all’«identico» a sé è desti­nato a fal­lire. Come è sem­pre stato, l’estraneo è la pre­con­di­zione della diver­sità cul­tu­rale.
La glo­ba­liz­za­zione ha messo a punto le seguenti tre stra­te­gie per la ridu­zione dell’alterità: ego­cen­tri­smo, logo­cen­tri­smo e etno­cen­tri­smo.

I pro­cessi che con­tri­bui­scono alla costi­tu­zione della sog­get­ti­vità moderna e alla genesi della cen­tra­lità dell’ego sono stati inda­gati da una grande varietà di pro­spet­tive. Le tec­no­lo­gie del sé pro­muo­vono lo svi­luppo di sog­getti indi­vi­duali. Molte di que­ste stra­te­gie sono con­nesse all’idea di un sé auto-sufficiente, che si ritiene con­duca auto­no­ma­mente la sua vita e debba svi­lup­pare da sé la sua bio­gra­fia. Gli effetti col­la­te­rali, non pre­ven­ti­vati, di una sog­get­ti­vità auto-sufficiente di que­sto tipo sono tut­ta­via innu­me­re­voli. I pro­cessi di auto-determinazione spesso richie­dono uno sforzo ecces­sivo da parte degli indi­vi­dui; in qual­che caso fini­scono per impe­dire la stessa auto-determinazione cui mirano, e sfuma anche solo la spe­ranza di un’azione auto­noma. Da un lato, l’egocentrismo è il fon­da­mento della sog­get­ti­vità moderna, ed è ciò che con­sente al sog­getto indi­vi­duale di soprav­vi­vere, di eser­ci­tare il pro­prio domi­nio e capa­cità di mani­po­la­zione. Dall’altro lato, l’egocentrismo pre­clude ogni forma di dif­fe­renza e con­trae la diver­sità. I ten­ta­tivi del sog­getto indi­vi­duale di ridurre l’altro ai pro­pri scopi, di assog­get­tarlo ai pro­pri intenti e di ren­derlo una cosa a pro­pria dispo­si­zione sono gene­ral­mente effi­caci — e tut­ta­via, al tempo stesso, non è raro che si risol­vano in fal­li­mento. Que­sta con­sa­pe­vo­lezza schiude nuove pro­spet­tive per la gestione della dif­fe­renza e dell’alterità in quanto campo ine­dito del sapere e della ricerca.

La razio­na­lità superiore

Una delle con­se­guenze del logo­cen­tri­smo è invece la ten­denza a per­ce­pire l’altro esclu­si­va­mente attra­verso il pri­sma dei cri­teri deri­vati dalla razio­na­lità euro­pea. Accet­tiamo sol­tanto ciò che è in accordo con le leggi della ragione; tutto il resto è escluso. Chi par­teg­gia per la ragione ha ragione, anche se que­sta ragione è ridu­zio­ni­sta e fun­zio­nale. Per­ciò, i geni­tori hanno gene­ral­mente ragione di fronte ai loro bam­bini, le genti civi­liz­zate di fronte ai cosid­detti pri­mi­tivi, i sani di fronte ai malati e così via. Chiun­que pos­sieda la facoltà di ragione è supe­riore a chi risulta dotato di forme infe­riori di azione razio­nale. Mag­giore è la dif­for­mità del lin­guag­gio e della ragione altrui dalla norma gene­rale, mag­giore è la dif­fi­coltà di approc­ciare l’altro e di com­pren­derlo. Nie­tzsche, Freud, Adorno e molti altri hanno cri­ti­cato quest’auto-sufficienza della ragione e messo in luce come la vita umana sia solo par­zial­mente acces­si­bile alla ragione.
Nel corso della sto­ria, l’etnocentrismo ha distrutto un gran numero di espres­sioni di dif­fe­renza ed alte­rità, per sem­pre. I pro­cessi che hanno con­dotto alla distru­zione delle cul­ture stra­niere sono stati ana­liz­zati mol­tis­sime volte. Tra gli esempi più san­gui­nosi c’è senz’altro la colo­niz­za­zione dell’America cen­trale e meri­dio­nale nel nome di Cri­sto e dei re cri­stiani. La con­qui­sta del Sud Ame­rica ha signi­fi­cato la sop­pres­sione delle cul­ture locali. Valori indi­geni, saperi e pra­ti­che cul­tuali ven­nero sosti­tuiti con forme e con­te­nuti della cul­tura euro­pea. Tutto ciò che era stra­niero, tutto ciò che era dif­fe­rente venne sra­di­cato. I nativi non erano in grado di capire quanto gli Spa­gnoli fos­sero insi­diosi. Fecero in prima per­sona espe­rienza di quanto la cor­dia­lità degli spa­gnoli fosse altro rispetto a quel che pre­ten­deva di essere.
Gli spa­gnoli fecero pro­messe, ad esem­pio, non per man­te­nerle, bensì per ingan­nare e sviare i nativi. Ogni loro azione mirava a obiet­tivi diversi rispetto a quelli che fin­geva di per­se­guire. Gli inte­ressi della corona e della mis­sione cri­stiana, da un lato, e l’inferiorità dei popoli indi­geni, dall’altro, legit­ti­ma­vano la con­dotta colo­niale. Motivi eco­no­mici, inol­tre, inco­rag­gia­vano la distru­zione di qual­siasi forma altra di vedere il mondo.

Oblio della diversità

Ego­cen­tri­smo, logo­cen­tri­smo ed etno­cen­tri­smo sono inti­ma­mente con­nessi l’uno all’altro, e in quanto stra­te­gie per la tra­sfor­ma­zione dell’altro si rin­for­zano mutual­mente. Il loro obiet­tivo con­di­viso con­si­ste nel distrug­gere l’alterità e sosti­tuirla con qual­cosa a cui siamo abi­tuati. La con­se­guenza è l’oblio della diver­sità cul­tu­rale. L’unica pos­si­bi­lità per soprav­vi­vere fu, per i nativi, accet­tare e adot­tare la cul­tura dei vin­ci­tori. Una tra­ge­dia ancora mag­giore riguarda quei casi nei quali all’assoggettamento dei nativi seguì il com­pleto annien­ta­mento delle cul­ture locali e regionali.
Per­ché la gente possa impa­rare a pre­stare atten­zione e a essere sen­si­bile all’importanza della diver­sità cul­tu­rale, occorre che fac­cia espe­rienza dell’alterità in prima per­sona. Que­sta espe­rienza mette la gente in una posi­zione tale da essere in grado di rela­zio­narsi con l’estraneità e la dif­fe­renza, e svi­lup­pare un inte­resse per il non-identico. Gli indi­vi­dui non sono entità auto­nome e auto-sufficienti: con­si­stono, piut­to­sto, di un gran numero di ele­menti con­trad­dit­tori e fram­men­tari. Rim­baud ha coniato un’espressione ad hoc per quest’esperienza, più valida che mai ancora oggi: «me stesso è qual­cun altro». L’osservazione di Freud secondo cui l’Io non è padrone in casa pro­pria va nella mede­sima dire­zione. Inte­grare que­sti ele­menti dell’individualità sog­get­tiva esclusi dall’immagine di sé che cia­scuno si pro­duce inter­na­mente è una pre­con­di­zione per per­ce­pire e rispet­tare l’alterità nel mondo esterno. Solo chi è in grado di rico­no­scere l’alterità den­tro di sé può rico­no­scere anche l’alterità fuori di sé, e impa­rare a rela­zio­nar­visi. Se siamo in grado di per­ce­pire l’elemento altro già all’interno della nostra cul­tura, si svi­lup­perà in noi anche un inte­resse per gli aspetti estra­nei delle cul­ture diverse dalla nostra e diven­terà gra­dual­mente pos­si­bile attri­buire a esse valore. A tal fine, occorre pro­muo­vere la capa­cità di fare dell’altro il punto di par­tenza del nostro pen­siero, cioè impa­rare a vedere noi stessi attra­verso gli occhi degli altri, impa­rare a pen­sare eterologicamente.
Una pro­spet­tiva inter– e trans-culturale è essen­ziale, oggi più che mai, per­ché si pos­sano per­sua­dere gli indi­vi­dui ad apprez­zare la diver­sità cul­tu­rale e a rico­no­scere l’importanza della difesa e pro­mo­zione del patri­mo­nio cul­tu­rale imma­te­riale. Oggi, molte per­sone non appar­ten­gono più a una sola cul­tura, ma par­te­ci­pano di un gran numero di tra­di­zioni cul­tu­rali. Un’educazione inter­cul­tu­rale o trans-culturale è un utile stru­mento per aiu­tare que­ste per­sone a con­fron­tarsi con le dif­fe­renze cul­tu­rali che tro­vano già in se stesse, nel loro imme­diato cir­con­da­rio e nella rela­zione con gli altri. Non è pos­si­bile pen­sare all’identità senza alte­rità; l’educazione inter­cul­tu­rale implica, per­ciò, una con­nes­sione rela­zio­nale in grado di mediare tra un sé irri­du­ci­bil­mente frat­ta­lico e le molte forme d’alterità. Gli ibridi cul­tu­rali stanno diven­tando sem­pre più impor­tanti. Se la com­pren­sione degli altri è con­di­zio­nata alla com­pren­sione di sé e vice­versa, allora il pro­cesso di edu­ca­zione inter­cul­tu­rale è anche un pro­cesso di cono­scenza del sé, di edu­ca­zione del sé. Se effi­cace, l’educazione inter-culturale finirà per con­fer­mare l’intuizione fon­da­men­tale per cui è impos­si­bile una «com-prensione» totale dell’altro.

L’impoverimento del sé

In un’epoca di disin­canto del mondo, in cui assi­stiamo alla pro­gres­siva per­dita di diver­sità cul­tu­rale, sus­si­ste il rischio che, in tutto il mondo, gli indi­vi­dui fini­scano per imbat­tersi esclu­si­va­mente in se stessi e nelle loro pro­prie pro­du­zioni, e che que­sta man­canza di alte­rità riduca dram­ma­ti­ca­mente la ric­chezza dell’esperienza di sé e del mondo. Se la con­tra­zione della diver­sità cul­tu­rale minac­cia la ric­chezza della vita umana, allora pro­muo­vere la diver­sità cul­tu­rale dev’essere una pre­oc­cu­pa­zione cru­ciale per la for­ma­zione degli individui.
Si badi che l’educazione cul­tu­rale e inter­cul­tu­rale, rispet­ti­va­mente, non vanno ridotte alla mera abi­lità di trat­tare con le mino­ranze. L’educazione oggi, nel con­te­sto glo­ba­liz­zato della nostra società, è ovun­que un com­pito inter­cul­tu­rale; nel qua­dro di un’educazione inter­cul­tu­rale, la capa­cità di con­fron­tarsi e venire a patti con le cul­ture stra­niere, con l’alterità pre­sente all’interno della pro­pria cul­tura e con quella insita in noi stessi è di cen­trale importanza.
L’antropologo dell’uomo globale
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Chri­stoph Wulf è un antro­po­logo tede­sco che ha con­cen­trato la sua pro­du­zione teo­rica sull’educazione, dun­que sui mec­ca­ni­smi, i riti e le isti­tu­zioni pre­po­ste alla tra­smis­sione del sapere. Nato a Ber­lino, si è lau­reato alla Frei Uni­ver­si­tat, ate­neo dove è tor­nato per inse­gnare antro­po­lo­gia e edu­ca­zione. Attual­mente è anche diret­tore dell’Interdisciplinary Cen­ter for Histo­ri­cal Anth­ro­po­logy. Wulf ha pro­mosso anche la for­ma­zione e lo svi­luppo di gruppi di ricerca sulla «edu­ca­zione alla pace». Da oltre dieci anni ha con­cen­trato le sue ana­lisi sulla for­ma­zione dell’«uomo glo­bale», tema attorno al quale ha dedi­cato l’unico libro tra­dotto in taliano «Antro­po­lo­gia dell’uomo glo­bale» (Bol­lati Boringhieri)

INCONTRI  DAL DEBITO AL PATRI­MO­NIO GENETICO

Per i «pri­gio­nieri del pre­sente» è dif­fi­cile imma­gi­nare un futuro da vivere. E dun­que anche una ere­dità cul­tu­rale, sociale da tra­smet­tere. Sono alcuni anni, però, che gli orga­niz­za­tori del Festi­val della filo­so­fia di Modena, Carpi e Sas­suoli invi­tano filo­sofi, eco­no­mi­sti, socio­logi e scien­ziati ad imma­gi­nare come rom­pere la gab­bia del pre­sente. Que­sto signi­fica deli­neare un futuro (sia nella sua variante uto­pica che disto­pica) da imma­gi­nare, a par­tire tut­ta­via da quel pre­sente che si vuol supe­rare. Quest’anno la parola chiave è «ere­di­tare», lemma usato per son­dare il ter­reno della tra­smis­sione cul­tu­rale (il rap­porto tra ten­denze all’omologazione imma­nenti, per gli orga­niz­za­tori della cosid­detta glo­ba­liz­za­zione, e alte­rità delle diver­sità), dei rap­porti tra le gene­ra­zioni, del debito (attorno al quale si è dispie­gata la reto­rica delle poli­ti­che dell’austerità), dell’ereditarietà gene­tica (ter­reno che inve­ste campi deli­cati come la sal­va­guar­dia della pri­vacy e la tra­sfor­ma­zione del «bio­lo­gico» — genoma umano ma non solo — in set­tore eco­no­mico). È dun­que la gab­bia del pre­sente che è inter­ro­gata, cri­ti­cata, pas­sata al setac­cio di una gri­glia inter­di­sci­pli­nare che il Festi­val della filo­so­fia ha ormai scelto come con­di­zione neces­sa­ria per orga­niz­zare le lec­tio magi­stra­lis, i work­shop, le mostre e le per­for­mance arti­sti­che che per 3 giorni tra­sfor­me­ranno le tre città in uno spa­zio pub­blico di discus­sione. Molti i rela­tori chia­mati a discu­tere di «ere­dità». Tra gli ita­liani, Enzo Bian­chi, Mas­simo Cac­ciari, Ste­fano Rodotà, Fede­rico Ram­pini, Carlo Sini, Gustavo Zagre­bel­sky, Remo Bodei, Simona Forti. Tra gli ospiti fran­cese, oltre a Chri­stoph Wulf, del quale pub­bli­chiamo un brano della sua lunga rela­zione, vanno segna­late alcune pre­senze costanti — Jean-Luc Nancy, Marc Augé, Zyg­munt Bau­man — e «nuovi ingressi», come Richard Sen­nett e Van­dana Shiva. Il pro­grama com­pleto del Festi­val, che ha preso il via ieri, può essere con­sul­tato nel sito: www​.festi​val​fi​lo​so​fia​.it.

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