In una società che appare essere sempre più dominata dalla personalizzazione e dall’individualismo, esiste ancora qualcosa che possa essere chiamato cultura di massa? È vero che la diffusione del Web ha enormemente potenziato negli ultimi anni le possibilità espressive di ciascun individuo, ma è anche un dato di fatto che l’industria culturale continua più che mai a sfornare prodotti che ottengono un enorme successo commerciale attraverso la loro diffusione a livello planetario. È il caso dunque di domandarsi se può esserci ancora uno spazio oggi per una riflessione sulla cultura di massa. E con esso anche uno spazio che possa consentire lo sviluppo di una visione critica di tale cultura.
La ricerca sulla cultura di massa in Italia ha probabilmente il suo testo fondativo in Apocalittici e integrati di Umberto Eco. Tale testo è uscito nel 1964 e, in occasione del cinquantesimo anniversario dalla pubblicazione, è stato esplorato a fondo da venti autori in un volume curato da Anna Maria Lorusso: 50 anni dopo Apocalittici e integrati di Umberto Eco (Alfabeta 2 – Derive Approdi, pp. 149, euro 16). Se dopo tanti anni ci si interroga ancora su Apocalittici e integrati, è probabilmente a causa della proposta formulata da Eco in questo volume di guardare alla cultura di massa delle società avanzate da una nuova prospettiva. Una prospettiva basata sull’idea che, come ha sottolineato Gianfranco Marrone, uno dei venti autori del volume curato da Lorusso, «Per studiare la cultura di massa e i suoi media bisogna arretrare lo sguardo, e andare in cerca non delle verità dell’ultimo momento, delle variazioni di superficie delle cose e delle idee, delle forme e degli stili, ma degli schemi invarianti su cui queste stesse mutazioni si fondano». Eco dunque ha arretrato lo sguardo per poter osservare meglio ciò su cui si concentrava la sua attenzione.
La mente incarnata
Grazie all’approccio che ha adottato, Eco, come ha osservato Lorusso nella sua introduzione, ha potuto studiare i contenuti dei media e mettere in evidenza che essi sono un oggetto che va considerato molto seriamente. Possiedono cioè la stessa dignità della cultura tradizionale. Ma Eco ha anche mostrato in Apocalittici e integrati che il funzionamento dei media dev’essere esaminato, più che in termini di effetti prodotti sui destinatari del messaggio, all’interno di un circuito sociale nel quale produzione e ricezione interagiscono reciprocamente. E nel quale dunque chi riceve il messaggio è in grado anche di modificare quest’ultimo. Si tratta dell’idea del primato dell’interpretazione del lettore e dello spettatore, un’idea sulla quale Eco ha basato gran parte della sua riflessione semiotica successiva. È un’idea comunque attraverso la quale Eco, come ha osservato un altro dei venti autori coinvolti da Anna Maria Lorusso e cioè Marco Belpoliti, ha mostrato in Apocalittici e integrati che poteva affrontare la cultura di massa senza essere né un apocalittico, né un integrato.
Eco nel volume Apocalittici e integrati, più che proporre un metodo di lavoro, l’ha mostrato in azione, utilizzandolo per analizzare numerosi casi, che vanno ad esempio da Superman a Charlie Brown, da Sandokan a Rita Pavone. L’ha applicato cioè a vari prodotti che l’industria culturale aveva creato e lanciato con successo sul mercato. Ci si può però domandare se oggi sia ancora possibile ragionare in questi termini, dato che la diffusione dell’uso del Web ha radicalmente modificato il concetto di prodotto culturale e la relazione che gli individui possono avere con esso.
A dire la verità, Eco in Apocalittici e integrati intuiva già quello che è successivamente avvenuto e parlava della necessità di studiare i media nelle loro correlazioni, cioè considerando la loro natura intermediale, il loro «tradursi» reciprocamente. Ma l’espansione del Web ha enormemente potenziato le capacità relazionali dei media, modificando profondamente lo scenario culturale. Oggi, infatti, i prodotti culturali operano in una dimensione che è quella del network, in cui devono assumere molteplici forme e vivere infinite vite. E in cui anche il pubblico non è più passivo, ma si inscrive totalmente all’interno del processo di produzione dell’immaginario culturale.
È necessario dunque chiedersi se un approccio come quello proposto da Eco oggi possa essere ancora adottato. La risposta è complessa, ma alcuni significativi spunti di riflessione su questa questione ci vengono offerti da Nicola Dusi nel suo recente volume Dal cinema ai media digitali. Logiche del sensibile tra corpi, oggetti, passioni (Mimesis, pp. 253, euro 22).
Dusi si interroga su come i numerosi cambiamenti intervenuti nel sistema mediatico contemporaneo abbiano portato l’analisi semiotica a ripensare i suoi tradizionali strumenti di analisi. Ciò ha voluto dire porsi soprattutto il problema del rapporto tra testo audiovisivo ed esperienza cognitiva, sensoriale e affettiva dello spettatore. Non a caso Dusi ha affrontato nel suo volume l’analisi di numerosi casi (che appartengono a diversi ambiti mediatici: cinema, trailer, serie televisive, videoarte, ecc.) e l’ha fatto condividendo soprattutto l’idea della semiotica contemporanea che la mente è «mente incarnata» e dunque quando sperimenta l’atto di visione è strettamente legata al mondo e ai sensi del corpo umano.
Il tempo sospeso del Grande Fratello
Un’altra interessante riflessione sulla cultura di massa contemporanea è stata sviluppata da Letteria G. Fassari, docente alla Sapienza Università di Roma, sui candidati al reality show Grande Fratello, un prodotto esemplare della cultura mediatica contemporanea in quanto pienamente intermediale. Fassari ha scelto di sondare con vari strumenti di ricerca oltre 700 partecipanti ai provini di selezione del Grande Fratello. I principali risultati del suo lavoro sono contenuti nel volume Poplife. Il realitysmo tra mimetismo e chance sociale (Carocci, pp. 117, euro 13), dal quale emerge un’esplicita analisi critica, che però è relativa, più che ai contenuti del programma considerato, alla condizione di vita dei candidati che aspirano a entrare nel programma stesso. Una condizione nella quale le persone hanno la necessità di riuscire a collocarsi all’interno di un flusso informativo in cui lavorare e comunicare tendono a coincidere. Diventa pertanto fondamentale per esse saper comunicare al meglio con il prossimo. Anche perché ciò oggi non è una semplice richiesta proveniente dalla società, ma un vero e proprio obbligo sociale imposto dalle retoriche della creatività e della performance. Il dovere degli individui di adattarsi a dei ritmi che vengono loro imposti dall’esterno non riguarda dunque più solamente il tempo di lavoro, ma l’intera esistenza.
In questa situazione, per i candidati al Grande Fratello il modello del reality si presenta come una rassicurante via di fuga da una realtà che offre ben poche opportunità di realizzare un proprio progetto di vita. Ovvero si presenta come uno «spazio sospeso» nel senso in cui lo intendeva lo psicoanalista Donald Winnicott, in quanto si tratta di un luogo che non appartiene né alla realtà esterna, né al mondo interiore del soggetto. In esso, infatti, ci si nasconde, si sospende il giudizio su di sé e si può anche provare a reinventarsi. Insomma, la casa del Grande Fratello è vista da coloro che aspirano ad entrarvi anche come uno spazio in cui è possibile sottrarsi al mondo della produzione e dell’utilità produttiva e in cui, persino, è possibile sferrare un attacco «alla vittoria del principio del lavoro in un mondo in cui il lavoro non c’è più».
Fassari si domanda cosa possa succedere qualora questo orientamento verso la fuga dalla realtà diventi permanente. Qualora cioè, come oggi spesso accade alle generazioni più giovani, l’intera vita venga affrontata cercando continuamente di entrare in un qualche «spazio sospeso». La sua risposta è influenzata da alcune recenti riflessioni sviluppate in ambito psicoanalitico, per le quali un orientamento di questo tipo indebolisce nell’individuo la spinta all’azione esercitata dall’immaginario e determina dunque una grave crisi della capacità di generare forza creativa.
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