Si contano a migliaia le ragazze del Sol Levante maltrattate, sfruttate e raggirate nel settore dell’intrattenimento per adulti; e se non fosse stato per gli attivisti e gli avvocati di Human Rights Now, questo fenomeno sarebbe rimasto sepolto sotto una campana di vetro.
Spesso neo-maggiorenni, di ceto basso e di origini rurali o periferiche, con scarsa o nulla disponibilità finanziaria, queste donne giovanissime vengono adescate per strada da sedicenti talent-scout con la promessa di farne delle modelle o delle celebrities: ma l’illusione dura poco. Molto presto cominciano, per loro, le pressioni e i ricatti. Subito dopo aver firmato un contratto costellato da clausole di difficilissima comprensione: “È una pura formalità: se vuoi diventare famosa, metti una firma”. Ma quel documento (siglato sulla fiducia) le ingabbia di fatto in una carriera pornografica che mai avrebbero desiderato, perché quando si rendono conto di avere sottoscritto una specie di patto col diavolo, e provano a uscirne, gli “impresari” le minacciano di ingenti e subdole sanzioni pecuniarie: “se ti tiri indietro e non appari più nuda mentre fai sesso in video, dovrai sborsare una penale salata”.
L’escamotage brandito è sempre lo stesso: “inadempienza contrattuale”. Parecchie di loro si arrendono: non possono pagare per il loro “riscatto” e non si fidano del sistema giudiziario. Entrano, obtorto collo, nel tunnel di una schiavitù di ritorno in salsa ultra HD. Diventano delle pornoattrici tristi. Qualcuna si toglie pure la vita. Tanto l’odore della paura e della disperazione, il retrogusto rancido della violenza non arriveranno mai al naso e nemmeno al cuore dei consumatori incalliti di filmati sexy all’orientale.
Disseminati ai quattro angoli del globo: il porno giapponese è un mercato florido, da esportazione, che non teme exit, dischiuso a ogni fantasia e perversione umana. Un’autentica cornucopia per voyeuristi di pratiche sessuali di ogni ordine e grado e bizzarria: dai feticismi più variopinti al sadomaso estremo, dalle gang-bang al bondage, passando per i manga animati (magari con le interpreti camuffate da teenager) e le “fantasie” di rapimento e sesso non consensuale ai danni delle donne.
In Giappone si nasce sempre meno, si fa sempre meno sesso e anzi in tanti scelgono la strada dell’astinenza a tempo indeterminato; eppure da quelle parti ogni anno l'industria hardcore genera un giro d'affari di quasi 4 miliardi e mezzo di dollari, ed escono 20 mila film (il doppio che in America). Contingentate le pornostar maschili (giusto qualche decina: il più famoso è Ken Shimizu, in arte Shimiken, anche detto il “Cristiano Ronaldo del porno”), sono ben più numerose (a migliaia) le pornostar femminili, alcune delle quali diventano delle icone pop, ricche e popolari. Ma sotto il livello rutilante dello show-system ribolle un mondo di sotto avvelenato dalle angherie, dalle sopraffazioni, dalla negazione di ogni diritto umano.
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