D’un tratto le pareti vibrano. Prima in modo quasi impercettibile, quindi con più forza. Rumori cupi e inconsueti squarciano lo spazio dell’intimità. Come per avvertire, per segnalare quel che sta accadendo. No, non è un malessere individuale, né un capogiro.
Gli occhi si alzano e trovano conferma nell’oscillare del lampadario. Ma lo sguardo si fissa al pavimento che sobbalza, sussulta. È una nuova scossa di terremoto. Dopo quelle di ieri, dell’altro ieri. Questa volta sembra persino più potente. La casa è spinta con violenza perversa da un lato, poi dall’altro. Reggerà? La mano si appoggia a uno stipite per cercare l’ultimo puntello, la parvenza di una protezione. È una mossa spontanea, ma vana e, chissà, anche sbagliata. Il corpo è fermo, impietrito. Forse è l’effetto del terrore, o forse la reazione a quel movimento che non accenna a finire e diventa, anzi, più intenso e rabbioso. Il tempo si dilata, i secondi si amplificano. Lo spazio, invece, si sottrae; mostra tutta la sua ostilità. Non accoglie più. La casa minaccia di mutarsi in una trappola. Che fare? Scendere in fretta le scale? Guadagnare l’uscita? Oppure aspettare? I pensieri si affastellano, le idee si confondono.
Gli occhi si alzano e trovano conferma nell’oscillare del lampadario. Ma lo sguardo si fissa al pavimento che sobbalza, sussulta. È una nuova scossa di terremoto. Dopo quelle di ieri, dell’altro ieri. Questa volta sembra persino più potente. La casa è spinta con violenza perversa da un lato, poi dall’altro. Reggerà? La mano si appoggia a uno stipite per cercare l’ultimo puntello, la parvenza di una protezione. È una mossa spontanea, ma vana e, chissà, anche sbagliata. Il corpo è fermo, impietrito. Forse è l’effetto del terrore, o forse la reazione a quel movimento che non accenna a finire e diventa, anzi, più intenso e rabbioso. Il tempo si dilata, i secondi si amplificano. Lo spazio, invece, si sottrae; mostra tutta la sua ostilità. Non accoglie più. La casa minaccia di mutarsi in una trappola. Che fare? Scendere in fretta le scale? Guadagnare l’uscita? Oppure aspettare? I pensieri si affastellano, le idee si confondono.
In quei pochi istanti siamo d’improvviso esposti all’azione imponderabile della terra, che si agita, si solleva, ridiscende placandosi, e poi ancora vibra — come se volesse scrollarci di dosso. È un’esperienza agghiacciante. Abituati al cemento, all’acciaio, al vetro, all’asfalto, quell’impari corpo a corpo con la terra ci sgomenta. E ci getta nell’angoscia. Perché, alla fin fine, l’angoscia è proprio questo vuoto che si spalanca ai nostri piedi, la mancanza di terreno, l’assenza di un fondamento. Per noi che navighiamo nel web, che comunichiamo con l’altra parte del mondo grazie alla tecnologia digitale, ai flussi mobili dei dispositivi elettronici e telematici, per noi che viviamo nel mondo globalizzato della tecnica, riunito da una interdipendenza terrestre, accentrato da una universalità cosmologica, il sussulto arcaico della terra è tanto più insopportabile. Ci fa sentire nudi, inermi, alla mercé di una recondita potenza indomabile. La personifichiamo al femminile e, anche solo per un attimo, ci assale il timore di finire nelle sue viscere.
Il breve silenzio d’attesa è rotto da qualche sirena. C’è chi è sceso per strada e commenta con i vicini, chi afferra il telefono per chiamare parenti e amici. Sullo schermo della tv è scritto a caratteri cubitali «nuova violenta scossa di terremoto». Giungono in diretta le prime immagini. Chiese, monumenti, palazzi rovinano al suolo. Strade impraticabili, frane. Macerie, e poi ancora macerie. Rovine che, in parte almeno, avrebbero potuto essere evitate. Gente disperata in fuga tra i vicoli dei borghi. Il pensiero va a loro — e a chi è già stato colpito. Si può immaginare che cosa abbiano patito, che cosa patiscono. Sono ormai decine di migliaia le vittime dell’inarrestabile onda sismica che, con qualche breve e apparente interruzione, dura ormai da mesi. Nei siti delle grandi testate giornalistiche vengono pubblicati i rilevamenti dei sismologi, le linee che si allungano quando misurano l’oscillazione tellurica. Poi compare la cartina dell’Italia, colpita al centro, ferita. Cerchi rossi, disegnati a partire dall’epicentro. E sotto quei cerchi, tra i pendii dei monti, le faglie che si sono aperte. Lassù la terra si è squarciata. Non tornerà più come prima.
Le scosse, sebbene più lievi, non si fermano. Gli esperti parlano di «sciame sismico». Un tremito potrebbe suggellare la fine, ma potrebbe essere anche il segnale premonitore di un moto più irruente e distruttivo. Il timore per il futuro aumenta e attanaglia ormai l’intero paese. Che cosa dovremo aspettarci? Quando e dove ci sorprenderà il prossimo sisma? Che ne sarà della catena degli Appennini che attraversa e tiene insieme l’Italia? La terra ha scosso dal fondo la nostra vita, i suoi sussulti scandiscono prepotentemente la quotidianità. Anche questa è una lesione. L’ansia domina; il panico è dietro l’angolo. Quando la situazione sembra tornare normale, resta l’impressione che l’instabilità sia di casa. Siamo noi a sottovalutare gli indizi?
Qualcuno ha provato ad usare la app «rilevatore terremoto» che, grazie all’accelerometro dei cellulari, avverte, qualche secondo prima, l’arrivo dell’onda sismica. Vale, dunque, solo per chi si trova a una certa distanza dall’epicentro. Forse rassicura e serve, tutt’al più, a spostarsi sotto un muro portante. Ma una convivenza con la mostruosa estraneità di questa forza tellurica è impossibile. Purtroppo è saggio ammettere che non possiamo controllarla, né prevederla. È invece un dovere pensare alla ricostruzione, un obbligo etico e politico per tutti. E chissà che, intorno a quel centro ferito, non si possa edificare anche una più ferma e tangibile solidarietà.
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