domenica 16 ottobre 2016

STORIOGRAFIA OGGI. UN SAGGIO DI S. CONRAD. M. NANI, Appunti per un viaggio di andata e ritorno dal globale al locale, IL MANIFESTO, 13 ottobre 2016

La «storia globale» è ormai all’ordine del giorno anche in paesi come il nostro, resi culturalmente semi-periferici e dunque subalterni da decenni di disinvestimento e cattiva gestione delle istituzioni della ricerca e della formazione. Non a caso non figurano contributi di studiosi italiani nei tre volumi finora usciti della traduzione per Einaudi della Storia del mondo (sui sei previsti). Oltre a quest’ultima ponderosa opera, a testimoniare della diffusione dell’interesse fra ricercatori, docenti e studenti, ma anche in un pubblico più ampio, è ora la pubblicazione presso Carocci di Storia globale. Si tratta di «un’introduzione», come recita il sottotitolo, a questa recente tendenza storiografica, stesa da uno dei suoi più accreditati esponenti, il tedesco Sebastian Conrad, specialista di storia tedesca e nipponica che insegna alla Freie Universität di Berlino ed autore di una nuova sintesi problematica, What is global history?, per i tipi della Princeton University Press.


La purtroppo non impeccabile traduzione di questa agile e ricca guida, edita in Germania nel 2013, è presentata al lettore italiano da Marco Meriggi, uno degli studiosi italiani che più si è speso per la promozione di questo indirizzo di studi nel gruppo di lavoro della Fondazione Istituto Gramsci di Roma, che ha organizzato nel dicembre del 2014 il convegno «Storia d’Italia e storia globale», e come autore, con Laura Di Fiore, di World History. Le nuove rotte della storia(Laterza 2011).
Conrad invita innanzi tutto a relativizzare le distinzioni fra storia «globale» e «mondiale» (delle quali esistono due distinte riviste internazionali), così come le peculiarità che separano le loro impostazioni da altre etichette, dalla «big history» alla storia transnazionale e «incrociata» (croisée). Tutti questi orientamenti avrebbero in comune una serie di presupposti: il rifiuto dell’eurocentrismo, del nazionalismo metodologico e delle spiegazioni «interne» dei fenomeni storici con conseguente attenzione ai più ampi contesti spaziali, alle connessioni e relazioni, ai processi sincronici e sistemici. Nello specifico la storia globale sarebbe caratterizzata dalla capacità di tenere presenti due dimensioni.
IN PRIMO LUOGO, si dà il globale come «prospettiva». Fare storia globale non implica l’adozione di nuovi paradigmi, ma rivedere quelli esistenti, nella storia economica come in quella sociale e culturale, grazie all’allargamento dei contesti che aiutano a spiegare sviluppi locali, regionali o nazionali. Ad esempio, sul terreno della storia sociale, che come nota Conrad rappresenta il vero terreno di sfida per la storia globale, uno dei settori più innovativi è proprio la storia globale del lavoro e dei movimenti operai (Global labour history, a cura di Christian De Vito, Ombre corte).
Come insegna la ridefinizione – o, per taluni, l’abbandono – del concetto di «classe operaia» e della dicotomia fra lavoro «libero» e non, assumere una prospettiva globale significa sottoporre a vaglio critico molti dei concetti forgiati per comprendere la storia moderna europea e che, alla prova di altre società e più lunghi scenari, rivelano la loro parzialità.
La «prospettiva» metodologica del globale, che relativizza i confini dati e la presunta centralità europea o «occidentale», non senza un esplicito intento polemico e politico, si accompagna all’inevitabile assunzione del globale come «oggetto». Riconoscere una storia di intrecci, sviluppi indipendenti e persino «primati» extraeuropei non consente di ignorare che la progressiva, anche se non lineare né irreversibile, unificazione economica, politica e culturale del pianeta ha conosciuto un’accelerazione sotto la spinta del capitalismo e dell’imperialismo. Una storia ormai mondiale è infatti al centro già nel 1848 dal lucido sguardo del Manifesto di Marx ed Engels.
STORIA GLOBALE ripercorre la storia delle storie del mondo, che non sono un’invenzione recente né occidentale, ma saggia soprattutto gli sviluppi degli ultimi vent’anni. Impresa essa stessa globale, l’ascesa della nuova tendenza storiografica risente della trasformazione dei campi culturali, sempre più unificati su scala mondiale, ma non certo su un piano paritario. Si consolida infatti il potere dei centri dominanti della produzione storiografica, collocati negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, con la preminenza ormai schiacciante dell’inglese, espressione della esigenza di una lingua franca che allarghi le comunicazioni, ma soprattutto di un’egemonia culturale che raddoppia simbolicamente quella politica ed economica. Si trasfondono così su scala planetaria le innovazioni, sollecitate nei centri dominanti dalle trasformazioni interne ed esterne ai campi della ricerca: la «globalizzazione», l’ascesa cinese, l’articolazione delle gerarchie produttive, le nuove guerre, internet e le comunicazioni low cost han reso più evidenti l’insostenibilità dell’eurocentrismo, l’importanza delle connessioni e la necessità di cambiare le scale spaziali dell’analisi storica, specie agli occhi di nuove generazioni di studiosi. Questo processo non va necessariamente nella direzione di una legittimazione del sistema: esemplare a tal proposito la vicenda che vede da anni ricercatori di mezzo mondo, a partire dai subaltern studies indiani, rammentare a quelli italiani che si può ancora far buon uso storiografico di Antonio Gramsci e di Ernesto De Martino.
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Quel che non va dimenticato, tuttavia, è che, come nel caso evidenziato a suo tempo da Bourdieu e Wacquant dell’importazione dagli Stati Uniti in Europa di categorie ritenute fuorvianti per l’esame del razzismo, la cultura è un campo di lotte e anche la ragione ha i suoi imperialismi.
Conrad ha ben presente queste asimmetrie e vi ritorna costantemente. Ricorda infine che fare storia globale non significa necessariamente comporre grandi affreschi sulla base del confronto della letteratura secondaria (spesso solo di lingua inglese), ma che le fonti restano centrali e che felici apporti provengono dal fecondo intreccio di locale e globale: l’esperienza della «microstoria» può qui offrire un prezioso contributo, come han ricordato a più riprese due studiosi italiani non a caso «migranti», Francesca Trivellato e Christian De Vito ( «Quaderni storici», n. 3, 2015).
NON C’È ALLORA RICERCA storica al di fuori di quella globale? Come ha ricordato Patrizia Delpiano («L’Indice», n. 3, 2016) sarebbe una conclusione affrettata: non sempre il contesto globale è quello più pertinente, dipende dal problema storico; in tutti i casi, esistono isolamenti e frammentazioni e la stessa costruzione di connessioni va spiegata anche a partire da ragioni interne e locali.
Conrad non si nasconde che resta ancora molto da fare per uno sguardo dal basso (genere, classe e subalterni) sul globale. A monte di tutte queste dotte disquisizioni, fare storia globale pone problemi generali di formazione linguistica e di disponibilità di risorse: non è possibile, se non in termini caricaturali, pensare di condurre molte delle ricerche che giustamente Conrad cita come esemplari senza leggere e parlare lingue non europee e senza periodici soggiorni di studio all’estero.
Nel regime di sottofinanziamento e precarizzazione di gran parte delle università del mondo, questo spiega perché la storia globale si possa praticare quasi solo nei centri degli imperi o degli ex-imperi e perché buona parte del suo slancio si debba a studiosi immigrati o figli e nipoti di una qualche diaspora.
Al di là di queste riserve, molte delle quali condivise dallo stesso Conrad, resta l’insegnamento fondamentale della storia globale: qualsiasi trattazione storica deve almeno porsi il problema della reale dimensione spaziale delle cause e delle conseguenze del fenomeno che indaga. Questi spazi non coincidono necessariamente con le partizioni amministrative o statali, che è giusto oltrepassare, ma senza naturalmente dimenticare il potere delle istituzioni, la loro capacità di influire con la loro tessitura normativa, burocratica e simbolica sui confini del sociale, al pari di mercati, comunicazioni, lingue e dell’inesauribile mobilità di persone, cose e idee.

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