Un uomo che sa svolgere con intelligenza una metafora, può ben guidare un branco di imbecilli”, scriveva in una sua lettera Gustave Flaubert. Questa massima impietosa mi ronzava nelle orecchie mentre abbordavo questo libro, purtroppo non tradotto in italiano.
http://lafrusta.homestead.com/rec_legoff.html
Se siete incardinati in una grande azienda, saprete certamente ilmodus operandi dei responsabili delle risorse umane e in generale del management che vi sovrasta. Bardati di mezze filosofie (un sapere autoreferenziale) acquisito con la lettura di libri di How do it (manualistica specialistica) comprati frettolosamente nelle edicole delle stazioni o degli aeroporti, spesso privi di elementare cultura generale (ricordate quel manager di Telecom che incitava i suoi a vincere come aveva fatto Napoleone…a Waterloo!) quando non analfabeti di ritorno, molti manager della formazione e della consulenza, agiscono perlopiù per formule e schemi, ignorando totalmente il pedestre savoir faire che si acquisisce con l’esperienza, e spesso vanno in rotta di collisione, loro e le loro aziende, contro il comune buon senso che come dice don Lisander se ne sta nascosto, terrorizzato, per paura del senso comune: quello che loro hanno imposto con le loro formule e i loro schemi.
Lo spirito di finezza che soltanto una solida cultura di base ben interiorizzata ti garantisce (più Platone e meno Prozac, più Shakespeare e meno powerpoint, e alla larga da Cohelo) rende tuttavia vitale la brutale massima di Flaubert. La quale, a voler fare riferimento alla cultura generica circolante nelle slide dei nostri formatori, fa appello al pensiero analogico (emisfero destro del cervello) contrapposto al pensiero digitale, e dunque, almeno come massima, potrebbe essere degna di essere sussunta, col viatico dei Watzlawick e dei Bateson, in uno dei tanti loro schemi mentali e operativi.
Quest’opera esibisce il grande vantaggio di dare la parola agli attori del processo lavorativo, non ascoltati abitualmente su questi temi, a quelli che nel quotidiano si confrontano con quel genere di formazione ritenuta idonea a far di loro dei professionisti del management con l’aiuto di particolari “scatole degli attrezzi”. Ridà nobiltà a una forma di apprendimento intelligente, alternante dei momenti pratici, sul campo, con il supporto di un tutore già esperto, e l’insegnamento ex cathedra di una cultura generale (proprio quella che manca!), il cui ruolo è quello di dare le conoscenze e la struttura intellettuale per abbordare le diverse situazioni. Si tratta, insomma di tornare all’antico: imparare a riflettere per trovare le soluzioni e prendere delle buone decisioni, e non più di fornire ricette da applicare. Lontano da quelle opere che promuovono l’ennesima teoria criticando la teoria precedente Jean-Pierre Le Goff conduce un punto di vista ragionevole, sensato e non dogmatico. « A mille leghe dall’ideologia manageriale, denuncia lo scarto tra il bric-à-brac degli attrezzi manageriali e la realtà del management », come recita la fascetta di accompagnamento.
In guisa di riassunto
Per Jean-Pierre Le Goff, il management delle risorse umane è in crisi, ma non riesce a sbarazzarsi delle proprie illusioni. Fra queste illusioni, la credenza che si possa apprendere ex-libris a diventare manager o ancora il dimenticare che la ragione prima che conduce gli uomini al lavoro è soltanto la paga alla fine del mese. Raramente coloro che sono implicati nel processo lavorativo sono richiesti a dare i propri pareri su tematiche specifiche che li riguardano. Jean-Pierre Le Goff è quindi andato a interrogare, nelle grandi imprese francesi, gli attori protagonisti: quadri e dirigenti, coloro che si trovano tutti i giorni a confrontarsi coi problemi concreti. Costoro gli esplicitano una critica circostanziata e sovente amara delle illusioni del management e gli esternano il malessere che ne deriva. Facendo perno su questa critica, Jean-Pierre Le Goff perora un ritorno al buon senso, sviluppa un' analisi dell’attività del management che rimette in causa gli schemi alla moda e sviluppa delle proposizioni in tema di formazione.
In conclusione, Jean-Pierre Le Goff auspica che sia presa in conto l’evoluzione naturale dell’ingegnere gestionale (nel sistema francese è questo il cursus honorum previsto e accettato) verso la professione di manager e propone una formazione sul modello dell’apprendistato, fatta da una alternanza tra l’applicazione pratica in azienda (apprendimento delle relazioni umane, del ruolo del manager con il supporto di un tutor) e un periodo d'aula (acquisizione di una solida cultura generale).
L’obiettivo di quest’opera è di « fissare qualche principio e di rendere conto dell’attività del management nel settore della gestione delle risorse umane.
Jean-Pierre Le Goff pone fondamentalmente due domande:
- Come dirigere ?
- Come apprendere a dirigere ?
La prima delle domande è trattata nelle interviste che l’autore ha realizzato. Per la seconda, l’autore si propone di avanzare un metodo concreto di formazione.
La messa in causa delle « illusioni» rilevate sul campo lungo il corso delle interviste:
1. I lavoratori coinvolti sentono che ciò che è loro inculcato durante la formazione è contrario al buon senso.
I quadri e gli ingegneri sono strattonati tra ciò che suggerisce loro l’istinto, il loro buon senso e le teorie manageriali, ridondanti di soluzioni preconfezionate, che sono loro somministrate durante la formazione manageriale.
Le teorie neo-behavioriste riducono in qualche modo l’uomo a un insieme di meccanismi elementari, sui quali si può agire, azionandoli semplicemente. L’illusione consiste nel credere che la conoscenza di tali meccanismi permetta di colpo di aumentare il coinvolgimento nel lavoro e quindi anche di far leva sulla produttività.
I quadri subissati da anni da questo tipo di formazione sono ritenuti manager di miglior qualità e idonei a motivare e “azionare” il loro personale. Nei fatti escono da questa formazione con delle conoscenze teoriche e con quella famosa “scatola degli attrezzi” che dovrebbe loro permettere di far fronte a ogni situazione. Ma i manager consultati non ci si ritrovano in questo schema. Avvertono che la motivazione ad esempio, è insita in ciascuno e che è illusorio volerla azionare, schiacciando un bottone o utilizzando un attrezzo. Prima di ogni cosa, è la necessità di sussistenza che spinge gli uomini al lavoro e questo punto non può essere dimenticato. Gli altri aspetti e il significato che ciascuno assegna al proprio lavoro non possono essere per altro verso sistematizzati.
Dipendono perlopiù dall’importanza relativa che ciascuno assegna alle proprie attività sociali e professionali. Presentandosi come la risposta contraria al taylorismo, il management moderno pretende di valorizzare convenientemente il fattore umano, ma nei fatti mette in opera anch’esso una nuova forma di sistematizzazione.
I manager denunciano anche le teorie che postulano l’adesione di ciascuno alle direttive generali, alla partecipazione ai gruppi di lavoro o ai circoli di qualità. Si rendono ben conto che le risposte favorevoli di un impiegato alle sollecitazioni aziendali possono essere verosimilmente messe nel conto della semplice paura di essere licenziati in periodi di disoccupazione e che una vera adesione alle politiche delle imprese sulle quali in ogni modo, non c’è presa, parrebbe illusoria.
Jean-Pierre Le Goff denuncia l’inflazione di questi attrezzi e di queste teorie come rivelatrici della semplice perdita del buon senso. Citando Hannah Arendt « Ciò che c’è di imbarazzante nelle teorie moderne del comportamento non è che esse siano false, ma che esse possoano diventare vere; nel senso che esse sono nei fatti la migliore concettualizzazione possibile di alcune tendenze evidenti della società moderna.»
2. Gli attrezzi non risolvono tutto. Ci sono delle situazioni per le quali non esistono attrezzi
In formazione, si ricevono degli attrezzi, ritenuti i più facili da utilizzare e per altro verso divenuti oggetto di feticismo, visto che i colleghi e i superiori in precedenza hanno ricevuto gli stessi. Ma i manager, soprattutto giovani, si confrontano con situazioni del tutto nuove, per le quali sono impreparati. Un conflitto da risolvere, una decisione rapida da prendere li disorienta. Auspicano di far partecipare la loro squadra, ma i loro superiori li incalzano, e si rendono ben conto che non è ciò che le persone della loro squadra si attendono da loro. Allo stesso tempo avvertono che il manager tipo “capetto” non ha corso e che sarebbe percepito male. Non hanno mai appreso che occorrerebbe talora rassicurare i sottoposti, anche i più anziani, e che occorre sempre spiegare, dare un senso all'obiettivo perseguito. La “scatola degli attrezzi” fornita durante gli stage non funziona: non permette ad esempio di comprendere la fierezza di un lavoro ben fatto.
3. Esiste sempre uno scarto culturale importante tra l’alto e il basso della scala gerarchica.
Il management moderno ha inscenato il fantasma di una impresa consensuale e omogenea. Si tratta di un’altra illusione, quella di pensare che il nostro mondo moderno dia accesso all’informazione, a una migliore istruzione al più grande numero di persone; il divario non è scomparso all’interno delle aziende. Quando si propone a un operaio o alla “sciura Maria” di turno, in un obiettivo di ‘empowerment’, di partecipare a un gruppo di lavoro, egli si sentirà forse obbligato a partecipare, ma non ne avrà forse voglia, semplicemente perché gli manca la formazione intellettuale di base adatta alla partecipazione di un lavoro di gruppo, le capacità di analisi e di sintesi necessarie. In aula di riunione, durante il lavoro di gruppo, si sentirà fuori posto e la sua partecipazione sarà frustrante e poco produttiva per il gruppo.
I manager, per altro verso, interrogati durante le interviste auspicano che sia rimessa al loro posto la gerarchia. Non esistono aziende senza contratto di lavoro e questo implica di fatto una linea di subordinazione, di ordini dati e ricevuti. Quale che sia l’impresa e i desideri lodevoli di fare partecipare ciascuno alla sua vita e alle sue decisioni, il capo resta il capo. Il formalismo delle teorie ha accentuato la rottura. Non si comanda più al modo di una volta, si comanda comunque. Per altro verso la sovraesposizione dei quadri nel loro ambito di lavoro può accentuare questa cesura nella linea di comando con gli impiegati
Le carenze dei manager
1. I quadri si trovano nel mezzo, tra l’alto e il basso della scala gerarchica e devono sapersi ben indirizzare sia ai loro capi che agli operai/impiegati. Per questo hanno bisogno di una cultura generale solida. I quadri sono presi tra due fuochi, quello della base spesso composta da persone molto segnate dal meccanismo taylorista (dimmi ciò che devo fare) che hanno l’abitudine di essere assistiti, e quella dei capi, che non hanno alcuna idea di ciò che avviene in basso e sono nutriti delle stesse teorie manageriali.
La grande difficoltà del lavoro di quadro è di interfacciarsi con gli uni e con gli altri, di trasmettere una visione del mondo degli uni che sia leggibile dagli altri. Spesso fanno il mestiere di interpreti, un vero lavoro di trascodifica anche linguistica (con tutto quell’anglopevo che circola nelle slide!) dalla mente alle mani, dalla sfera delle idee a quella della pratica. È uno degli obiettivi della cultura generale di cui parla l’autore: dare il vocabolario e soprattutto le conoscenze necessarie per far comunicare gli uni e gli altri.
2. Le persone intervistate hanno citato gli elementi necessari per essere manager.
Un’ etica in atto, nella situazione data, personale, concreta e che dia un quadro di coerenza. Questa si compone di quattro aspetti.
• La coerenza tra gli atti e le parole, poiché questa è un punto chiave della credibilità del manager.
• Il coraggio di dire le cose, considerato nelle aziende come una qualità spesso assente. Il linguaggio mellifluo e spesso ambiguo sono purtroppo la norma. Questa attitudine al coraggio, permette anche di dire che qualche cosa non va e di difendere la propria squadra al cospetto dei capi apicali.
• Il rispetto degli altri quale che sia l’ambiente d’origine, la loro formazione, è citato come una delle regole elementari senza la quale non è concepibile l’aspirazione a diventare manager.
• La modestia comporta il rispetto degli altri. Saper dire che ci si è sbagliati, domandare aiuto al subordinato, accettare di essere contraddetto, ascoltare le proposte che vengono fatte, sono manifestazioni di umanità necessarie per farsi accettare e rispettare a loro volta dalla squadra.
3. Alcune qualità di base sono secondo le persone intervistate indispensabili all’attività del manager.
• Saper decidere è una qualità che spesso manca. Gli ordini latitano o sono imprecisi e le persone comandate non sanno ciò che devono fare. Ciò può essere il risultato di una certa vigliaccheria ma può essere anche il risultato di una cattiva comprensione della nozione di management partecipativo. Saper decidere può anche ricomprendere il fatto di chiedere l’opinione dei sottoposti, ma la decisione è di pertinenza del manager. La decisione può d’altronde essere accolta da pareri contrari senza che ciò comporti un rigetto, se essa è saputa ben spiegare.
• Qualità e efficienza della parola sono delle qualità direttamente frutto della cultura ricevuta e assimilata. Saper dire ciò che deve essere compreso senza scarto con il linguaggio adeguato sembra semplice, ma è cosa molto ardua, se non in possesso di adeguate competenze linguistiche orali e scritte. Si capisce perciò, che oltre alle scuole di management nascano anche delle scuole di scrittura aziendale. Ma si può insegnare ciò che sembrerebbe ovvio, ciò che una adeguata cultura generale dovrebbe spontaneamente offrire come attrezzo di base?
• L’ascolto è citato come una qualità essenziale. Ascoltare è una prova di rispetto, di assunzione in sé della differenza dell’altrro, è un dato indispensabile per dirigere efficacemente.
3. Un savoir-faire è utile al manager, ma la grande difficoltà che lo investe non si rivela, spesso, in situazioni di management.
• Conciliare, negoziare sono necessari perché il quotidiano si nutre di discussioni in vista di pervenire a un accordo su numerosi argomenti. Il manager deve sapere tenere in giusto conto i pareri e le sensibilità di ciascuno.
• Conoscere gli uomini e le loro competenze permette di meglio organizzarli e disporli al meglio, secondo le necessità del soggetto e di quelle dell’azienda, come anche di valutarli più giustamente possibile.
• Il tatto è citato come corollario del coraggio di dire le cose, della necessità di apprezzare gli uomini.Balzac diceva che essere forte non significa colpire spesso e molti, ma colpire giusto. Non si tratta di dire tutto a qualsiasi persona e in qualsiasi momento, si tratta di saper scegliere il momento e le parole, e di accompagnare il proprio discorso con fatti (certi, riscontrabili) piuttosto che con opinioni.
• Umanizzare i rapporti nel lavoro è il ruolo del vero capo. A lui spetta di dare il tono, di mostrare rispetto ed educazione, di porsi all’ascolto delle piccole preoccupazioni degli uni e degli altri che si riscontrano nel quotidiano e di trovare loro una possibile risposta; di saper discutere d’altro fuor dall’argomento lavoro, magari davanti ad una tazza di caffè.
4. Infine, le competenze sono necessarie al manager :
• Capacità di analisi e di sintesi per risolvere i problemi pratici. Queste capacità s’apparentano secondo l’autore con una «ginnastica intellettuale» che aiuta a prendere le decisoni.
• Capacità di espressione e di argomentazione per fare da ponte tra i superiori e i subordinati, per dialogare sulle questioni tecniche come sulle questioni di gestione del personale.
Proposte dell’autore
1. Il funzionamento dell’essere umano non si reduce a una serie di meccanismi elementari sui quali influire, azionando gli “attrezzi”, per indurre motivazione e produttività.
Per l’autore in opposizione alle teorie neo- behavioriste, gli esseri umani hanno un funzionamento, delle motivazione che gli sono propri, ed è compito del manager conoscerli, individualmente, al fine di poter interagire. Gli esseri umani non sono ‘azionabili’ a piacimento.
La risposta alle domande e alle difficoltà riscontrate non vengono tratte dalla “liturgia manageriale” ma escono dalla propria comprensione degli altri, comprensione forgiata dall’esperienza e dall’ascolto. È necessario trovare un nuovo referenziale per istaurare una nuova motivazione , una nuova logica meglio adatta al cambiamento che ha luogo sia nell’impresa come in tutto l’ambiente circostante.
2. Non si apprende ogni cosa con gli attrezzi e gli stage ; per essere manager, occorre: averne voglia e fare una periodo di apprendistato sul campo.
La voglia è necessaria. Si tratta di interagire con degli esseri umani, si tratta di fare funzionare un organismo fatto da individui, ciò che genererà fatalmente dei conflitti, delle decisioni difficili da prendere e da annunciare. Come farlo senza il “gusto degli altri”?
Quanto all’apprendistato, questo viene ad aiutare il manager a forgiarsi un’epserienza. Con il suo tutor, il cui compito è di analizzare il confronto con l’esperienza; il manager potrà sbagliarsi e apprendere dagli errori come dai successi.
3. I manager hanno quindi bisogno di formazione per collocarsi nelle imprese.
• Questa formazione deve permettere di rimpiazzare l’ideologia con la professionalità.
La professionalità deve rimpiazzare l’ideologia nata negli anni 40 e che vuole che le imprese come le altre organizzazioni vadano diritte all’utile, e non si preoccupino del superfluo. Da questa ideologia sono nati i concetti di formazione moderna, adatta a questa o a quella funzione di impresa e strumentalizzata.
La professionalità perorata dall’autore deve essere prima di tutto evolutiva e ancorata su delle basi solide di conoscenze.
Il management moderno chiede a ciscuno degli attori delle imprese di essere ugualmente implicato e responsabilizzato.
• Questa formazione deve permettere di rimpiazzare gli attrezzi con l’esperienza.
Non c'è più bisogno di attrezzi allorquando si sa prendere le decisioni da soli, allorquando si è appreso sul campo e con l’aiuto di un tutor, a gestire le questioni difficili e evolvere quando occorre, essere partecipativi o direttivi, quando si è compreso, ad esempio, che è il momento di andare a prendere un caffè con la squadra senza essere pertanto familiari.
Questa formazione deve permettere di rimpiazzare la sottocultura con una vera cultura generale.
Quella che Jean-Pierre Le Goff chiama cultura manageriale è ai suoi occhi una sottocultura, corroborata da logomachia e da segni di riconoscimento.
È una nuova forma di elitismo e di arrivismo che si avvale di un vocabolario proprio. La lingua altera e snatura la percezione che gli individui hanno del loro ambiente, tanto per coloro che la utilizzano che per coloro che l’ascoltano e non comprendono nulla.
Ora, questo bisogno di riconoscimento e di appartenenza è tanto più grande tanto più manca il “vero” linguaggio comune, quello sorto dalla cultura generale, sempre più latitante.
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