Le sciatrici italiane Federica Brignone, Sofia Goggia e Marta Bassino sono ormai per tutti la «valanga rosa». Si sono piazzate nei primi tre posti alla finale della Coppa del Mondo di Aspen. E naturalmente questo riempie tutti di orgoglio. È l’orgoglio di un mondo che negli ultimi anni ha scelto, più o meno consapevolmente, il modello culturale dello sport come esempio per la nostra società. Le imprese sportive sono emblematiche, trasmettono valori: quelli del sacrificio, della costanza, della competizione, della vittoria. Elvira Serra, qualche giorno fa, ricordava che la radice di competenza è la stessa di competizione. Spingendo il ragionamento fino a dire che non c’è «competenza che non si manifesti nella forma di una competizione». E facendo notare che l’accezione negativa della parola «competizione» è un pregiudizio di cui dovremmo liberarci. Ma forse non è del tutto vero.
Un anno fa Carlo Ginzburg ha pubblicato un saggio molto importante per l’editore Adelphi. Si intitola: «Paura, reverenza e terrore». Ginzburg ci ha ormai abituati a una lettura del mondo sorprendente e molto intelligente. E in questo saggio tra le altre cose dice che «per capire il presente dobbiamo imparare a guardarlo di sbieco». Non si tratta soltanto di riconoscersi in un modo di guardare la realtà. È molto di più. Ha a che fare con le competenze e con le conoscenze. Sono due cose molto diverse. Il nostro mondo, sempre più pragmatico, è ossessionato dalle competenze. Tutto quello che dobbiamo capire del mondo sta nelle competenze che riusciamo ad avere. Le università ormai troppo spesso lavorano soltanto sulle competenze. E rischiano di perdersi per strada le conoscenze. Per cui la competenza è competere. Ed è guardare il mondo frontalmente.
Tutta la mitologia della vittoria, della competizione, che ormai abbiamo messo nello sport, e che un tempo era nella guerra, si basa sulla sfida, sulle capacità che ti portano a raggiungere un risultato, meglio ancora un traguardo. Come se il sapere fosse nient’altro che un mezzo e non il fine. Salvatore Settis, in un’intervista di qualche tempo fa lo ricordava e se ne preoccupava. Stiamo perdendo il valore della conoscenza a favore della competenza. Ed è per questo che ci affascina la competitività, la gara, il risultato. Ma le competenze sono pragmatiche, sono saperi passeggeri perché sono dentro il tempo che viviamo e dipendono da quello che accade. La competenza senza conoscenza non è applicabile. E la competitività è decisamente interessante se si deve correre più veloce degli altri nei 100 metri, o vincere una partita di calcio. Decisamente meno se si deve scegliere a quali conoscenze rifarsi per leggere le cose del mondo.
Guardare il mondo frontalmente aiuta la mitologia dei vincenti, di coloro che guardano dritto davanti a loro e superano ogni difficoltà, e spesso esaspera l’individualismo. Ma tutti i modelli vincenti, che si parli di cultura, che si parli di imprenditoria, funzionano attraverso innovazione e collaborazione e come dice Ginzburg, si muovono di sbieco, guardano il mondo in una maniera diversa, là dove non sanno guardare gli altri. Nel gioco degli scacchi il pezzo più affascinante è il cavallo, che non muove in modo lineare, ma salta, e procede in modo sghembo. In alcuni atenei c’è ormai la moda, forse l’ossessione di educare alla competizione. Da molti anni dirigo un master alla Luiss, e vivo da dentro i processi della mia università per temi cruciali come questo. Credo di poter dire che da noi in Luiss il punto è quello di educare alla conoscenza senza perdere di vista le competenze, chiedendo molto agli allievi ma anche mettendoli nella condizione di orientarsi in un mondo dove le grammatiche cambiano di continuo.
Le competenze invecchiano rapidamente e vanno aggiornate, come fosse un software, ma è il sistema operativo delle conoscenze quello che serve a leggere il futuro, quello che ti consente di realizzare i progetti. E di vincere le partite. Anche di competere, certo, quando è necessario, ma senza farne una leggenda che non aiuta affatto i nostri ragazzi che si preparano al futuro. Perché il mondo è un po' piu complesso di una gara sugli sci.
Nessun commento:
Posta un commento