Il segreto della «valanga rosa» ai Mondiali di Aspen? La competizione interna. Federica Brignone, Sofia Goggia e Marta Bassino volevano vincere. Più di tutto. Su tutte. Con una determinazione che ha fatto conquistare all’Italia l’intero podio. Una storia che si ripete. Restando nello sci (di fondo), furono rivali e vincenti Manuela Di Centa e Stefania Belmondo (di loro l’ex tecnico Benito Moriconi raccontò: «Soffrivano proprio quando l’altra vinceva e capivano che per batterla bisognava allenarsi»). Anche le schermitrici Valentina Vezzali e Elisa Di Francisca, non proprio solidali, vinsero insieme l’oro a squadre a Londra nel 2012. Quel giorno, la compagna Arianna Errigo ammise: «Se c’è una medaglia sola da contenderci, siamo tre furie l’una contro l’altra. Ma quando l’obiettivo è comune, diventiamo tre furie contro le altre».
L’elenco può andare avanti a oltranza: dallo spettacolo al cinema al giornalismo. Heather Parisi e Lorella Cuccarini ci hanno fatto un programma in prima serata, sulla loro storica rivalità, a beneficio degli ascolti tivù. E certo non erano amici i fratelli Gallagher (anche se poi la rottura è stata inevitabile nel 2009, con buona pace degli Oasis che avevano fondato nel 1991).
Competitivi e vincenti. «La radice etimologica è la stessa: non c’è competenza che non si manifesti nella forma di una competizione», spiega Fabio Togni, docente di Pedagogia dello sport a Brescia e autore diCompetenza personale e competizione sportiva. È lui a far notare come siamo abituati a dare alla competizione una connotazione negativa, per via di un certo modello storico-culturale che tende ad applicare con tutti il criterio di uguaglianza, livellando però le qualità specifiche. Insiste: «Aristotelicamente parlando, il bene individuale, se è bene, non può essere contrario al bene comune. Eppure a scuola resiste l’abitudine a dare alla competizione una valenza negativa». Forse è per questo che qualche mese fa al Giffoni Film festival l’allora ministra dell’Istruzione Stefania Giannini disse: «La scuola deve restituire la competizione, che non significa lotta tra pari per rubarsi il pane, ma sviluppare al meglio il proprio talento».
Ed è proprio al talento individuale che puntano aziende giovani come Google o Amazon, purché poi si traduca in un beneficio del team. Perché, poi, c’è anche una competizione negativa. Ed è quella che spinge a vincere a ogni costo, ponendo la vittoria come modello assoluto. Franco Fraccaroli, docente di Psicologia del lavoro e delle organizzazioni all’Università di Trento, ricorda la deriva drammatica che produsse la tensione individualistica a France Télécom tra il 2008 e il 2010, quando cinquantotto dipendenti si tolsero la vita. «Anche per la competizione ci vuole allenamento. Il che ci riporta al nostro modello educativo, non molto familiare con questi concetti. Pensiamo solo alla parola challenging, sfidante: nel contesto americano è fondamentale, per noi è quasi una minaccia».
Educare alla competizione è uno dei cardini all’Università Bocconi. Lo racconta la direttrice della Scuola superiore universitaria, Antonella Carù: «Facciamo un lavoro sull’individuo, che si traduce inevitabilmente in una sfida a superare gli altri. Ma a questo affianchiamo il lavoro sulla capacità di collaborare. L’ideale è un gruppo che raccoglie differenze culturali e di competenze, dove emerge la parte migliore di ciascuno».
Nessun commento:
Posta un commento