In passato chi voleva sostenere che l’intelligenza si eredita, veniva deriso, come minimo. Ma gli scienziati quando pensano di essere sulla strada giusta vanno avanti a dispetto degli scettici; tanto che le critiche alle basi genetiche dell’intelligenza non hanno fatto altro che rafforzare nei genetisti la voglia di dimostrare che era proprio così. Non è stato facile. Anche se a pensarci bene, la nostra stessa vita è un test di intelligenza a cominciare dalla scuola — che poi vuol dire opportunità di impiego — e da tante altre cose, la scelta del partner, per esempio, quella delle amicizie, di chi eventualmente fidarsi, fino a come e dove curarsi se ci si ammala.
A partire dalla metà degli anni 90, ci si è concentrati su cinquanta geni (sembravano persino tanti per quei tempi) che i ricercatori consideravano buoni candidati ad essere i depositari delle nostre facoltà intellettuali. Fino a pochi anni fa, però, i risultati erano deludenti: che i geni avessero qualcosa a che fare con l’intelligenza era abbastanza chiaro, ma da soli spiegavano molto poco delle differenze fra le facoltà intellettuali di ciascuno; e come se non bastasse diversi laboratori arrivavano a conclusioni diverse. Un po’ anche perché i geni su cui si era concentrata l’attenzione dei ricercatori erano ben poca cosa rispetto a tutte le varianti del dna (almeno 10.000) che insieme contribuiscono a rendere certi individui particolarmente intelligenti.
Come uscirne? Non restava che studiare molte più persone (centinaia di migliaia o forse milioni) rispetto a quante non ne fossero state studiate fino al 2017. C’era una complicazione però: gli anni e il tipo di scuola, due variabili che influenzano le capacità intellettuali di un certo individuo e che a loro volta sembravano dipendere dai geni. Nel frattempo, altri studi condotti su gemelli identici in Australia, Olanda, Inghilterra e Stati Uniti, avevano già dimostrato che per il 40-60 per cento l’intelligenza si eredita. Un bel guaio per i genetisti che nel frattempo erano arrivati ad analizzare l’intero genoma di migliaia di persone senza riuscire a spiegare nemmeno lontanamente i risultati che si ottenevano sui gemelli (anche se chi proprio non vuol sentire parlare di basi genetiche dell’intelligenza, vi dirà che gli studi sui gemelli hanno molti limiti ed è vero, i gemelli sono spesso intelligenti allo stesso modo ma sono anche cresciuti nello stesso ambiente e di solito hanno frequentato le stesse scuole).
Serviva un’idea. Eccola, gli scienziati hanno analizzato il genoma di un milione di persone e poi hanno stabilito per ciascuno di loro un certo indice, «Gps» (Genome wide poligenic score), che metteva insieme migliaia di varianti del dna, in qualunque parte del genoma si trovassero, con la scolarità. Ma non avrebbero potuto usare il cosiddetto quoziente di intelligenza? Non certo in un milione di persone, sarebbe stato impossibile; così hanno aggirato l’ostacolo usando gli anni di scuola come il parametro che correla meglio con i test di intelligenza e che si può ottenere molto facilmente. Questo ha consentito di ricavare per ciascun individuo il «dna dell’intelligenza» in un certo senso, «Iq Gps» che non cambia col passare del tempo e non è influenzato da circostanze esterne, l’ansia da prestazione per esempio (cosa che invece succede regolarmente quando qualcuno si sottopone a un test di intelligenza). Alla fine i risultati di questo gigantesco sforzo dimostrano che intelligenti effettivamente si nasce ma solo un po’.
Proprio in questi giorni Robert Plomin e Sophie von Stumm — neuroscienziato ed economista rispettivamente del King’s College e della London School of Economics and Political Science di Londra — in una bellissima pubblicazione su Nature Reviews Genetics hanno fatto vedere che per quanto i geni dell’intelligenza si possano ereditare (almeno in parte), la loro funzione però è legata in modo molto forte ai condizionamenti dell’ambiente, quello familiare soprattutto ma anche alle persone che frequenti e all’organizzazione della società in cui ti è toccato di vivere. Tutto bene allora? Forse sì, anche se si apriranno orizzonti finora inesplorati di cui non dobbiamo aver paura ma per cui dobbiamo essere preparati. Presto «Iq Gps» di ciascuno di noi — la genetica dell’intelligenza in un certo senso — si potrà misurare e farlo non costerà nemmeno tanto, cento euro e fra qualche anno anche meno.
E poi cosa ne faremo? Servirà ai genitori per sapere in anticipo come sarà il futuro dei loro figli? O per giudicare delle performance scolastiche? E come si porranno gli insegnanti di fronte a questo dato se ne saranno messi al corrente? Si arriverà a parlare di «educazione di precisione» come adesso si parla (un po’ a sproposito secondo me) di «medicina di precisione»? E i datori di lavoro? Se dovessero cercare solo gente con «Iq Gps» sopra certi valori, che ne sarà degli altri? E ancora, perché nella stessa famiglia c’è qualcuno che è più intelligente di altri? «Iq Gps» ci aiuterà a capirlo? Forse, ma non dimentichiamo che la genetica conferisce gradi di probabilità ma non dà certezze. Chi avrà «Iq Gps» basso potrà comunque raggiungere i traguardi di chi ne ha di più. Certo gli costerà fatica, anche molta qualche volta.
Per fortuna, in un certo senso, se no le implicazioni morali sarebbero enormi, stigma e discriminazione per esempio (è già successo negli Stati Uniti agli inizi del ‘900 con gli immigrati che venivano dall’Europa senza nemmeno che ci fosse «Iq Gps»). E allora? La prima cosa è non pretendere dalla scienza quello che la scienza non può dare, spetta piuttosto alla società civile il compito di usare al meglio le informazioni che verranno dallo studio del dna, per i geni dell’intelligenza, come per molto d’altro, quelli che predispongono a certe malattie per esempio o ad abusare di alcol e droghe. E infine, chi potrà avere accesso ai dati che saranno di volta in volta disponibili per ciascuno di noi in tante occasioni diverse? Non saranno certo gli scienziati a deciderlo ma qualcuno lo dovrà fare e anche molto presto.
29 aprile 2018 (modifica il 29 aprile 2018 | 23:17)
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