La gente con cui mangiavo la pizza a Roma o a Ventotene o a Trieste non è diventata più paurosa, né più povera o più ignorante. È solo orgogliosamente egoista. Al tempo dei comunisti e dei democristiani sarebbe stata una vergogna, ora è un diritto. Sono stati proprio gli altri a liberarci dall’altruismo. Essere altruisti richiede un passaggio mentale complicato che nessuno è più disposto a sostenere, essere egoisti invece viene naturale, è facile e non costa nulla. Per aiutare il prossimo occorre credere in un progetto comune, condividere un ideale. Ci era rimasta la nazionale, ma poi abbiamo visto com’è andata.
Chi sono gli altri? Come sono diventati così numerosi? Ma forse erano già tanti e io non l’avevo notato. Andavamo a farci la margherita nelle stesse pizzerie, giravamo per gli stessi centri commerciali, guardavamo le stesse partite, cantavamo le stesse canzoni. Come ho potuto non accorgermi che erano diversi? Tutti insieme eravamo la gente. Poi, d’un tratto gli altri sono cresciuti e, riversandosi nell’ampolla opposta della clessidra, mi hanno lasciato indietro, hanno trasformato me nel diverso, il fighetto minoritario, il granellino attaccato al vetro. Così ora la gente sta di là, anche se non si chiama più così, ora si chiama popolo. Come sono riusciti gli altri a diventare il popolo?
Chi sono gli altri? Come sono diventati così numerosi? Ma forse erano già tanti e io non l’avevo notato. Andavamo a farci la margherita nelle stesse pizzerie, giravamo per gli stessi centri commerciali, guardavamo le stesse partite, cantavamo le stesse canzoni. Come ho potuto non accorgermi che erano diversi? Tutti insieme eravamo la gente. Poi, d’un tratto gli altri sono cresciuti e, riversandosi nell’ampolla opposta della clessidra, mi hanno lasciato indietro, hanno trasformato me nel diverso, il fighetto minoritario, il granellino attaccato al vetro. Così ora la gente sta di là, anche se non si chiama più così, ora si chiama popolo. Come sono riusciti gli altri a diventare il popolo?
Sembravamo tutti d'accordo
Guardo dalla finestra i militanti di CasaPound arrivare alla festa raduno. Sono tantissimi, riempiono il quartiere. Ci sono anche magliette cattive e teste rasate da periferia disagiata, ma la maggioranza parcheggia buone macchine, compatte tedesche e familiari tirate a lucido da cui escono coppie dall’aria tranquilla, alcune con prole al seguito, forse ignare della gragnuola di decibel che sta per abbattersi sui timpani dei loro bambini, forse invece ansiose di trasmettere il verbo. Canteranno e salteranno per tutta la sera su pezzi urlati a squarciagola da gruppi vestiti da Thor e inneggianti il Valhalla, i cui front-man ringrazieranno con una voce fattasi di colpo rassicurante, quasi cortese, alla fine di ogni brano. Tra una canzone e l’altra, ritmato con la metrica ultras, partirà il coro Do-ve-so-no-gli-anti-fascisti! La prima volta ci resterò malissimo: ma come, non eravate anche voi antifascisti? Tu che sei uscito da quella macchina insieme a tua moglie come per andare a un ballo. Tu che, con quegli occhialini, mi ricordi tanto il mio medico. E tu, e tu, e tu. Quand’è che avete scoperto di credere nelle spranghe, nell’olio di ricino, nella formazione a testuggine? Fino a un minuto fa, tranne un’invisibile minoranza di teste calde, sembravamo tutti d’accordo. Anche l’onorevole Fini è venuto di qua. Eravamo talmente tutti dalla stessa parte che neppure ne parlavamo più. Chi ha tradito chi? Ma al secondo coro smetto di farmi domande. Ficco la testa sotto la sabbia, a mio modo — sono o non sono un fighetto minoritario? — ascolto in cuffie i Cantos di Ezra Pound letti da lui medesimo (youtube).
L'entusiasmo di pensarla tutti allo stesso modo
Prima erano loro i cospiratori, ora, a quanto pare, si sono presi la gente e il cospiratore sono io — da figlio studiato di operai a privilegiato coi libri in casa — è la constatazione a cui mi rassegno qualche sera più tardi, assistendo non più a un raduno organizzato bensì a una discussione spontanea sul retro di un ristorante. Mi trovo al tavolino di un bar insieme a due amici, non proprio di fronte al crocchio, ma abbastanza vicino da sentire l’accavallarsi concitato delle voci. Sono due giovani cuochi e una cameriera in pausa sigaretta, un loro amico fattorino seduto sullo scooter e un paio di uomini intorno ai cinquanta, sulla soglia dei loro negozietti di souvenir. Non siamo più a Roma, ma a Ventotene, l’isola del manifesto omonimo, ora meta dei privilegiati coi libri in casa, soprattutto in bassa stagione. La discussione del crocchio verte sugli sbarchi: i migranti e la linea dura del nuovo governo. Ma, come scopro presto, la concitazione non è causata dai diversi punti di vista, bensì dall’entusiasmo di pensarla tutti allo stesso modo. Si tolgono la parola l’un l’altro per darsi ragione. Non proverò qui a ripetere le battute del dialogo — non ho intenti parodistici —, posso dire che erano tutti a favore di Salvini. Li eccitava molto il nuovo ministro, come lui non sopportavano più i loschi affari delle Ong e l’invasione di tutti questi stranieri (non i turisti, ovviamente).
Com’è che siamo diventati così?
Parlavano di pacchia, di pacchia finita, usavano le sue stesse parole. Mo’ basta, dicevano in continuazione, adattando i proclami del ministro alla parlata napoletana. Erano piuttosto informati, mediamente istruiti, uno dei due negozianti si è infervorato sull’opportunità di un regime dittatoriale, ha usato proprio questa espressione, un «regime dittatoriale» per difendere la nostra «sovranità». Al che tutti hanno annuito, ovvero hanno iniziato a parlarsi uno sull’altro, e il negoziante ha aggiunto che la speranza di una simile svolta gli veniva anche dalla simpatia con cui finalmente ci guardavano gli Stati Uniti e la Russia. Salvini tiene o’ sostegno di Trump e Putin, i cuochi erano entusiasti di una simile certezza. Erano locali, abitanti di un’isola senza venditori ambulanti né africani questuanti, un posto dove tutti vivono discretamente del proprio lavoro. Passavano ogni giorno davanti al carcere di Santo Stefano, davanti alla biblioteca intitolata a Mario Maovaz, davanti al cimitero dov’era seppellito Altiero Spinelli. A scuola avranno ascoltato mille volte la storia del manifesto, degli amici di Spinelli, Eugenio Colorni e Ernesto Rossi, della militante tedesca Ursula Hirschmann, che odiava a tal punto i nazisti da parlare col fratello solo in francese. Ma queste sono le solite bolse reprimende di quelli che spaccano il capello in quattro e poi vanno farsi lo spaghetto allo scoglio in camicia di lino. Eccoli lì, ci vedevano seduti al tavolino del bar, noi tre e altri quattro gatti i cui argomenti sarebbero stati scacciati con un semplice gesto della mano, come si fa con una mosca. I cicisbei, i professorini, i fighetti minoritari. Com’è che siamo diventati così? Eravamo in tanti, ora sono finiti tutti dalla loro parte. Il crocchio parlava a voce alta, non ci provocava, ma voleva comunque che sentissimo. La nostra presenza non agiva più sui freni inibitori di nessuno. Avevano dimenticato le lezioni sull’Europa. E prima ancora avevano dimenticato le dichiarazioni di Salvini sui napoletani. Un tempo magari avevano votato Pd, più di recente 5stelle, mo’ erano sei convinti leghisti di Ventotene.
Non è colpa della paura
Si dà la colpa alla paura, ma io non credo che c’entri la paura. In Ungheria, in Turchia, in Austria, forse anche in Francia, e ora anche qui in Italia sono la maggioranza, che motivo hanno di avere paura? Secondo me non c’entra neanche la povertà, non in maniera decisiva, né la cosiddetta arretratezza socio-culturale: sia i ragazzi alla festa di Roma che questi di Ventotene mi sono parsi tutt’altro che arretrati. E allora cosa? Ci ho pensato a lungo, poi è successo che ho vinto un premio. Nella mia città, Trieste. «Come personalità che più si è distinta nell’anno, in una visione transfrontaliera e multirazziale, tipica dell’opera di Fulvio Tomizza» recitava a un certo punto la motivazione. Forte di ciò, e dell’amore per lo scrittore a cui il premio è dedicato, nel discorsetto non ho potuto evitare di ricordare che oggi i profughi istriani come Tomizza, o come mia madre, all’epoca richiedenti asilo pur essendo già in gran parte italiani, sarebbero finiti nei centri di semidetenzione invocati dal sindaco di Trieste e dal neogovernatore del Friuli Venezia Giulia nelle interviste di quei giorni. Al termine della cerimonia una signora con tre cognomi mi ha fatto sapere a mezza bocca che la gente non ne poteva più di tutti questi che ciondolano per strada con telefonini da cinquecento euro. Ecco di nuovo la gente, la gente che ero stato e non ero più. Ora apparteneva a loro. La maggioranza silenziosa era passata di là e non stava più in silenzio. A cena l’assessora ha tenuto a dirmi che suo nonno aveva fatto la marcia su Roma e che lei era fiera di sentirsi fascista e leghista. Al che — sì, lo ammetto — temo che la situazione mi sia un po’ sfuggita di mano, e me ne scuso. Però ho capito una cosa. La gente con cui mangiavo la pizza a Roma o a Ventotene o a Trieste non è diventata più paurosa, né più povera o più ignorante. È solo orgogliosamente egoista. Al tempo dei comunisti e dei democristiani sarebbe stata una vergogna, ora è un diritto. Sono stati proprio gli altri a liberarci dall’altruismo. Essere altruisti richiede un passaggio mentale complicato che nessuno è più disposto a sostenere, essere egoisti invece viene naturale, è facile e non costa nulla. Per aiutare il prossimo occorre credere in un progetto comune, condividere un ideale. Ci era rimasta la nazionale, ma poi abbiamo visto com’è andata.
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