Nel saggio Elogio della profanazione, Agamben sostiene che la profanazione «disattiva i dispositivi di potere e restituisce all’uso comune gli spazi che esso aveva confiscato». Uno degli spazi confiscati dal potere – forse lo spazio più importante da un punto di vista politico – è proprio quello del potere stesso. Da qui l’impegno profuso da molt* pensatori e pensatrici per erodere la sacralità del potere, per non pensarlo più come un’essenza che può essere detenuta o conquistata, ma come un rapporto di forze distribuito e in continua rimodulazione, a cui tutti, volenti o nolenti, partecipiamo. Il potere, insomma, non è qualcosa di separato dalla vita né si esercita su di questa esclusivamente secondo un vettore che va dall’alto al basso. Al contrario, esso si forma e va a formare insiemi di relazioni dinamiche senza le quali la vita semplicemente non esisterebbe. Il potere e la vita sono immanenti, tanto che chi continua a separare la vita dal potere compie, più o meno consapevolmente, un’operazione di spoliazione della vita, un’operazione che la rende nuda, ancor più disponibile alla presa di un potere che, spogliato della sua complessità, non può che (s)opprimerla.
Foucault rappresenta senza dubbio uno degli snodi principali in cui la profanazione del potere ha iniziato a consumarsi. E questo appare più evidente che mai nel recente Il potere. Corso su Michel Foucault (1985-1986) /2, volume che raccoglie la trascrizione delle 11 lezioni tenute da Deleuze tra gennaio e aprile 1986, nell’ambito di un corso – la cui prima parte è uscita in Italia nel 2014 e la cui terza e ultima deve ancora essere pubblicata – dedicato a una minuziosa e delicata analisi della riflessione dell’amico appena scomparso.
Se è vero che Deleuze ha “condensato” il suo dialogo con Foucault in un libro precedente (Foucault, Cronopio 2002), altrettanto vero è che la pubblicazione integrale del corso su Foucault ci consente di entrare nel laboratorio di Deleuze e di toccare con mano le procedure, i punti di svolta, le intuizioni fulminanti, le resistenze e le titubanze che hanno dato forma, piega dopo piega, a un dialogo dalla portata insostituibile e dalla vitalità tutt’altro che superata. Ovviamente, non è possibile ripercorrere qui, passo dopo passo, l’ampiezza del respiro dell’attraversamento critico che Deleuze compie nel corpus foucaultiano intorno al potere, per cui ci si limiterà a sottolineare tre aspetti fondamentali.
Il primo: lo stringente lavoro di messa in discussione dei postulati del potere, comunemente accettati grazie alla insuperata capacità dello stesso di mascherarsi, dileguandosi in una presunta sacralità trascendentale, lavoro che può essere riassunto nella folgorante risposta che Deleuze dà alla domanda «che cos’è il potere»: «Il potere è [...] una pratica. In altri termini, per prenderlo seriamente, il potere si pratica». Dal che discende, more geometrico, che «il potere non è una proprietà ma una strategia», che «l’apparato di Stato [...] presuppone i rapporti di potere, non li spiega», che non è possibile parlare di «rapporti di produzione [...] senza intrecciarli con dei rapporti di potere», che il potere «non è un attributo che distingue il dominante dal dominato, è un rapporto che vincola il dominato al dominante», che «è repressivo in ultima istanza, quando non può agire in altro modo, altrimenti se la cava benissimo senza essere repressivo» e, infine, che la legge «lungi dall’impedire un comportamento, dice in quali condizioni quel comportamento è permesso», ossia che la legge altro non è che «la ripartizione degli illegalismi». Riassumendo, «il potere è ciò che fa vedere e parlare», «ma in se stessi i rapporti di potere sono muti e ciechi». O, per ibridare l’essere bicipite Foucault/Deleuze con la riflessione di Butler, è il mutacismo e la sordità della microfisica delle norme, che ci soggettivizzano “davanti alla legge”, a far sì che le istituzioni possano sancire nei termini di un dato di natura ciò che è dicibile, visibile, intellegibile, riconoscibile e materializzabile da ciò che non lo è.
Il secondo: lo sforzo di dire la verità del potere, isolandolo dagli altri due assi della riflessione foucaultiana (il sapere e la soggettivazione). Operazione al contempo necessaria e quasi impossibile – dal momento che sapere-potere-soggettivazione costituiscono in Foucault una sorta di trinità inscindibile –, che permette però a Deleuze di formalizzare il potere come diagramma: «l’esposizione [...] di un insieme di rapporti di forze», la «ripartizione del potere di produrre affezioni e di poter essere soggetto di affezione», e «il mescolamento di materia non-formata e di funzioni non-formalizzate». In sintesi, «il potere è la fisica dell’azione qualunque» che può attualizzarsi, ad esempio, nella disciplina («imporre un compito a una molteplicità poco numerosa in uno spazio-tempo chiuso») o nella biopolitica delle popolazioni («governare la vita in una molteplicità numerosa e in uno spazio aperto»). O, con una formula ancora più stringente, «quando potete elevare una categoria al coefficiente del “qualunque”, avete una categoria di potere», indipendentemente dal fatto che sia declinata nel “prelevare” del sovrano, nel “disciplinare” del pastore, nel “governare” del burocrate o nel “controllare” di funzionari sempre più impersonali e inafferrabili. Oltre a essere «instabile e fluido», il diagramma del potere ha un’altra caratteristica precipua: «viene dal fuori». In tal modo, può regolare una diversa stratificazione degli archivi del sapere («differenziazione») che, a sua volta, lo localizza e lo fissa («integrazione»), permettendo la formazione di quella che di volta in volta viene chiamata la «società attuale» – «congiunzione di quella che è ancora in via di sparizione e quella che sta nascendo». Per queste stesse ragioni, anche la resistenza è potere («i focolai di resistenza al potere sono focolai di potere»), in quanto è «il potenziale della forza [che] non si lascia esaurire da un rapporto di forze dato nel diagramma», motivo per cui la resistenza «in un certo senso viene prima rispetto a ciò cui resiste».
Il terzo: la svolta improvvisa che il corso subisce quando Deleuze fa interagire la riflessione foucaultiana sul potere degli anni ’70 con lo scavo archeologico sul sapere condotto nel 1966 ne Le parole e le cose. È in questa parte che si coglie appieno la difficoltà di analizzare separatamente il sapere e il potere. La scansione foucaultiana, che all’epoca de Le parole e le cose era ancora tutta dentro il sapere, assume infatti una densità ancora maggiore quando Deleuze la riassume in termini di forme (sapere) e di forze (potere): nel XVII secolo le «forze dell’uomo» si compongono con quelle dell’«elevazione all’infinito» per attualizzarsi nella «forma-Dio»; nel XIX secolo, con quelle della «finitudine» per attualizzarsi nella «forma-uomo» e oggi, dopo la morte di quest’ultima, con quelle del vivente animale e dell’inorganico per attualizzarsi nella «forma-superuomo». Ognuna di queste forme è prodotta da sommovimenti specifici che prendono il nome rispettivamente di «dispiegamento» («tutto ciò che si presenta si svilupperà, si dispiegherà all’infinito e in modo continuo»), «piegatura» («questa è la finitezza, è la piega, è ciò che si piega, che si ripiega, ciò che mi piega») e «superpiegamento» («un piegamento molto speciale [...] e che è esattamente la piega sulFuori»). E ognuna avrà le sue macchine (orologio, macchina a vapore, macchine cibernetiche e informatiche), le sue formazioni sociali (sovranità, disciplina, controllo), la sua scienza medica (clinica, anatomia patologica, biologia molecolare) ecc. Invece di elencare le diramazioni rizomatiche del discorso deleuziano, affascinanti e percorse da un’ariosità irriproducibile, vale forse più la pena di sottolineare che Deleuze non intende fare un’apologia della forma-superuomo («tutto ciò che possiamo augurarci per la forma-superuomo [...] è che almeno non sia peggiore delle due precedenti», perché «gli uomini esistenti non sono mai morti di morte violenta quanto sotto la forma-uomo») e che, pur nella difficoltà di descrivere qualcosa che è ancora in via di sviluppo, sembra nutrire pochi dubbi sul fatto che la forma-superuomo necessita di ibridarsi con l’animale, con un linguaggio agrammatico e balbuziente e con il silicio per liberare il vivente che la forma-uomo teneva imprigionato.
Come detto, Deleuze lascia almeno parzialmente indefiniti i contorni della forma-superuomo, per cui potrebbe rivelarsi utile cercare altrove le modalità in cui questa si è incarnata, si sta incarnando o potrebbe incarnarsi. Una prima proposta è rintracciabile nel Manifesto cyborg di Donna Haraway – libro del 1991, pubblicato in Italia nel 1995 e finalmente tornato nelle librerie da poche settimane. L’intento dell’autrice è indicato fin dalle prime righe, la necessità di raccontare un’altra storia che sia «fedele al femminismo, al socialismo e al materialismo», facendo ricorso a un’«empietà» (profanazione?) che non riduca le «contraddizioni» «a un tutto più vasto» e che ribadisca il «bisogno di una comunità» che tenga insieme «cose magari vere e necessarie ma incompatibili» «abbastanza a lungo da disarmare lo stato» e da «ricodificare la comunicazione e l’informazione per sovvertire i sistemi di comando e controllo». Per Haraway, la forma che risponde a questa esigenza è appunto il cyborg, definito come «un organismo cibernetico, un ibrido tra macchina e organismo» (animale e silicio?), privo di «una storia delle origini» (il Fuori?), capace di «accoppiamenti assai fecondi» sganciati dall’«eterosessismo», perché «il “sesso” dei cyborg ci ricorda un po’ l’amabile barocco replicativo delle felci e degli invertebrati», e la cui tecnologia è un linguaggio (agrammatico e balbuziente?) che si batte contro «la comunicazione perfetta, contro il codice unico che traduce perfettamente ogni significato». Il cyborg «trasgredisce il confine tra uomo e animale», «tra organismo (animale e umano) e macchina» e «tra fisico e non fisico», confini attorno ai quali le «donne, la gente di colore, la natura, i lavoratori, gli animali» sono costruiti come «altro, col compito di rispecchiare il sé». In breve: «siamo tutti cyborg» e «il cyborg è la nostra ontologia, ci dà la nostra politica», «il piacere di confondere i confini», consegnandoci alla «nostra responsabilità nella loro costruzione».
Pur nella distanza che Haraway pone tra il suo pensiero e quello di Foucault, è difficile non riconoscere in queste affermazioni l’eco e l’originale ripresa delle riflessioni deleuziane intorno ai diagrammi di potere e alla forma-superuomo. Assonanze che aumentano quando Haraway sottolinea che i cyborg non sono innocenti in quanto «figli illegittimi del militarismo e del capitalismo patriarcale». Ma aggiunge: «I figli illegittimi sono spesso infedeli alle loro origini: i padri, in fondo, non sono essenziali». Il che corrisponde a ribadire che il potere circola e che una politica radicale all’altezza dei tempi non può far finta di cancellarlo – riessenzializzando, a assiologia invertita, le dicotomie su cui la nostra formazione sociale si fonda –, ma deve invece impegnarsi a farsene carico, costruendo saperi situati capaci di modificare, dopo averne decostruito le pretese di razionalità universalistica, i rapporti di forza che percorrono l’impresa tecno-scientifica, la più evidente espressione attuale del potere. Come dice Haraway, «da un certo punto di vista, un mondo cyborg comporta l’imposizione finale di una griglia di controllo sul pianeta, l’astrazione finale incarnata in una Guerra stellare apocalittica di “difesa”, l’appropriazione finale del corpo delle donne in un’orgia di guerra maschilista». Ma, «da un altro punto di vista, un mondo cyborg potrebbe comportare il vivere realtà sociali e corporee in cui le persone non temano la parentela con macchine e animali insieme, né identità sempre parziali e punti di vista contraddittori».
Operazione indubitabilmente rischiosa quella proposta da Haraway, tanto che lei stessa sembra così eccessivamente tecnoentusiasta da perdere di vista che gli oncotopi (Testimone-modesta@femaleman-incontra-Oncotopo) e gli “animali da compagnia” (Compagni di specie) sono prima di tutto esseri sofferenti, sfruttati e messi a morte. Nondimeno operazione eminentemente politica, poiché Haraway non parla di «redenzione» o di «rinascita», ma del potere di «rigenerazione», come fa l’arto ferito della salamandra che si rigenera, magari «mostruoso, doppio», ma «potente». E, quindi, della possibilità di fermare «gli strumenti che marchiano il mondo» e di agire il «potere di sopravvivere» dentro la catastrofe socio-ecologica in cui siamo immersi – Staying with the Trouble (come recita il titolo del suo ultimo libro, la cui traduzione italiana è prevista per fine agosto). «Siamo tutti feriti», certo, e proprio per questo dobbiamo decidere se accettare i racconti di «superiorità morale» e il conseguente ruolo di «vittime», che «hanno già fatto abbastanza danni», o se ridisegnare una comunità mostruosa «di confini trasgrediti, di potenti fusioni e di rischiose possibilità», aprendo la strada a una politica di corpi «material-semiotici» sovversivi. Da qui l’importanza assegnata al «discorso dell’immunologia» – aspetto altrettanto rilevante nella “riflessione sferologica” di Sloterdijk – che se da un lato ha giocato un ruolo essenziale nello stabilire i «confini di ciò che conta come sé e come altro», dall’altro ci ha messo sotto gli occhi «un mondo pieno di “differenza, strapieno di non-sé». Ecco, allora, che l’animale politico per eccellenza non è più il lupo o il licantropo della tradizione occidentale, ma il «coyote, o trickster», delle narrative dei nativi del Sud-Ovest americano, l’«umorista furbo» che ci spinge a conversare (e non a scoprire) le «molte forme, e meravigliose» degli attori del mondo che eccedono di gran lunga l’umano.
Un’altra possibile incarnazione della forma-superuomo è la figura dei terrestri, da tempo teorizzata da Bruno Latour e al centro del suo ultimo lavoro: Tracciare la rotta. L’autore, una volta preso atto dell’«assenza di un mondo comune», del fatto che «siamo entrati in un Nuovo Regime Climatico», dell’«esplosione sempre più vertiginosa delle disuguaglianze» e della «crisi migratoria generalizzata», sostiene l’urgenza politica di «toccare terra da qualche parte». A partire da queste premesse, distingue una «mondializzazione-univoca» (quella che normalmente passa sotto il nome di globalizzazione neoliberista) da una «mondializzazione-plurale» (l’aumento dei punti di vista contro i provincialismi gretti e chiusi) a cui corrispondono specularmente un «locale-univoco» (risultato della paura che si trincera in tradizioni identitarie) e un «locale-plurale» (quello riassunto dall’esortazione a «resistere coraggiosamente rifiutando di barattare la propria provincia con un’altra – Wall Street, Pechino o Bruxelles»). Se la modernità è stata caratterizzata dall’azione di due «attrattori» il «Locale-da-modernizzare» e la «Mondalizzazione-plurale», uniti da una sorta di freccia del tempo che andava dal primo alla seconda, dividendo gli “illuminati” dai “primitivi”, il Nuovo Regime Climatico ha sbaragliato le carte, introducendo due nuovi attrattori: il «Fuori-Suolo» e il «Terrestre» (termine che «ha il vantaggio di non precisare il genere né la specie...»). Il primo di questi attrattori, impersonificato dalla figura di Donald Trump e dalla fuga delle élite in un mondo fuori dal mondo, è ancora tutto dentro la sfera dell’umano e sostiene la devastante impresa di mettere assieme mondalizzazione-univoca e locale-univoco, costruendo muri e gated communities. Il secondo, invece, prova a rispondere seriamente alla crisi ecologica planetaria, coniugando la mondalizzazione-plurale con il locale-plurale, riconoscendo l’importanza di collettivi in cui entrano anche attori geopolitici extraumani – primo tra tutti Gaia che ha cominciato a rispondere colpo su colpo agli attacchi che le vengono portati –, esposti, al pari di “noi”, alla «wicked universality» («la mancanza universale di terra») e radicati nel suolo, ossia in quella «Zona Critica» di «pochi chilometri di spessore tra l’atmosfera e le rocce madri» che, per usare un’espressione agambeniana, costituisce la «vita per cui viviamo». Per Latour, la crisi ecologica e le sue conseguenze sociali ci pongono di fronte alla domanda: «Siamo Moderni o Terrestri?». Vogliamo continuare a vedere il mondo da fuori come un insieme di «oggetti galileiani» o da dentro come una «concatenazione di agenti lovelockiani» che supera la distinzione natura/cultura? Riprendendo la terminologia deleuziana, potremmo dire che siamo dentro un campo di potere dove forze contrapposte, piegate e ripiegate sul Fuori della crisi climatica, combattono per dar vita a formazioni sociali diametralmente opposte, ammesso che Gaia non ponga fine a questa lotta prima che la forma-superuomo assuma le fattezze machiste del Moderno o quelle rigenerative del Terrestre, che «dipende dalla terra e dal suolo, ma è anche mondiale, nel senso che non si inquadra in nessuna frontiera, che va la di là di ogni identità».
Purtroppo, però, a dispetto delle dichiarazioni di Latour, come quella appena riportata, la sua proposta rimane ancora moderna e di fatto incapace di profanare il potere. Innanzitutto perché il fantomatico pronome personale “noi” è ancora troppo umano: sì, i terrestri sono collettivi più-che-che-umani, ma la prospettiva di analisi non si smarca da una visione scientifico-razionale che lascia l’Umano al centro del mondo («ciò che il Nuovo Regime Climatico rimette in discussione non è la centralità dell’umano, sono la sua composizione, la sua presenza, la sua configurazione, in una parola il suo destino»). Latour sembra dire: solo un umano più umano può ancora salvarci, le soluzioni alla crisi non possono che provenire da una revisione del modo occidentale di guardare il mondo – e gli altri popoli e le altre specie poco o nulla hanno da insegnarci (che poi, in fondo, è la critica che da anni viene mossa all’autore da Viveiros de Castro). In secondo luogo, perché il suo posizionamento è in qualche modo postpolitico: in più punti Latour ribadisce che la polarità destra/sinistra è superata, fino ad affermare che essa rappresenta semplicemente un «emiciclo mentale», risultato dell’«abitudine» da parte degli eletti a «disporsi così» a cominciare dal 1789 «per votare su una qualche questione di veto da parte del re». Riconoscere tale posizionamento latouriano non corrisponde a sostenere che la distinzione destra/sinistra non vada ripensata o che la sinistra non debba rinnovarsi (come invece ha fatto la destra coniugando l’accelerazione/sequestro dei profitti ai più biechi particolarismi), riconoscendo le esigenze e le rivendicazioni di “classi” oppresse tradizionalmente escluse dal suo orizzonte tutto incentrato intorno all’operaio maschio, adulto e bianco. Significa, al contrario, sottolineare come la postpolitica, con il suo presunto superamento delle ideologie novecentesche (ma il superamento delle ideologie non è esso stesso un’ideologia?), sia una delle cause dell’attuale crisi socio-ambientale e non la sua soluzione. Tutto questo conduce Latour a una proposta “terapeutica” che ha del grottesco: «Atterrare implica necessariamente atterrare da qualche parte. [...] Ebbene, io, è in Europa che voglio toccare terra!». Secondo Latour, infatti, essendo la «prima responsabile» del disastro, è l’Europa che «deve impegnarsi per prima» a trovare una via d’uscita; come dice Angela Merkel, citata entusiasticamente dall’autore, «noi europei dobbiamo prendere in mano il nostro destino». Dimenticandosi che l’Unione Europea (che nelle pagine finali sembra essere sinonimo di Europa) è la principale delle gated communitiesretta dalle élite finanziarie extra-terrestri, contro cui si è scagliato poche pagine prima, Latour toglie ulteriormente respiro alle agency altre e, conseguentemente, sembra compiere un’operazione di risacralizzazione del potere. Dove sono finiti il suo pur discutibile «parlamento delle cose» e l’impresa di «provincializzare l’Europa» di Chakrabarty?
Utile antidoto all’atterraggio eurocentrico di Latour è la lettura de La Giungla di Calais, resoconto fresco di stampa di una ricerca collettiva, coordinata da Michel Agier. Come si evince dal titolo, il volume si concentra sull’«evento Calais» – la laboriosa, sofferta e oscena costruzione del più famoso campo-bidonville e la sua fulminea, violenta e oscena distruzione –, evento «simbolico e politico» che funge da metonimia per la condizione «dei diciassette milioni [...] di persone che vivono, oggi, in un qualche tipo di campo o accampamento». Al di là della descrizione a tratti edulcorata – aspetto correttamente criticato da Beneduce nella sua postfazione –, ciò che queste pagine restituiscono con grande potenza è il fatto che i/le migranti – terrestri sradicati dal suolo – non sono solo esposti passivamente alla storia della colonia e della postcolonia, alle politiche securitarie occidentali, alle guerre e alle carestie, all’apertura o alla chiusura di questa o quell’altra delle rotte migratorie, alle operazioni di polizia ecc., ma sono agenti attivi capaci, nonostante tutto e dentro i limiti loro imposti con la forza dello stato di eccezione permanente, di sopravvivere e di resistere, di praticare il potere, dentro il trouble in cui sono stati rinchiusi, rinegoziando confini, architetture urbane, modi di vita, regole e reti di solidarietà e ospitalità. I/le migranti, insomma, sono vite precarie e non nuda vita, vite precarie in grado di costruire focolai di resistenza, esprimendo il potenziale di una forza che non si lascia esaurire dal rapporto di forze dell’attuale configurazione dei rapporti di forza.
Se i campi-bidonville, data lo loro extraterritorialità materiale, sociale e giuridica, rappresentano «un’ipertrofia della frontiera», se sono simultaneamente una piega del fuori sul dentro e del dentro sul fuori (i/le migranti sono chiusi all’esterno dell’interno, e viceversa), se chi vi abita è introiettato nella forma dell’esclusione ed espulso nella forma dell’appropriazione, la questione migratoria è interpretabile deleuzianamente come l’irruzione delle forze del Fuori, in grado di sancire ancora una volta la morte della forma-uomo. Come ricorda Young – che, assieme a Spivak, è stato tra coloro che hanno denunciato con maggiore implacabilità l’etnocentrismo che alligna perfino tra le pagine dei filosofi occidentali più “progressisti”, Foucault e Deleuze compresi – la morte della forma-uomo si è infatti consumata anche, e forse soprattutto, nel secondo dopoguerra con la “comparsa” delle lotte e del pensiero postcoloniali che, in un vero e proprio corpo a corpo, hanno ibridato e si sono fatti ibridare dal “canone bianco”. Esattamente come oggi sta facendo chi intende rivendicare la propria mobilità contro le logiche che lo/la inchiodano a un’identità etnica naturalizzata. I/le migranti costrett* a sopravvivere, come i loro antenati schiavi, da homines sacri in quello spazio superpiegato «tra-le-due-morti» (Lacan), dopo aver esperito la «morte civile» (Patterson), stanno mettendo in scacco una delle più potenti mitologie della “nostra” tradizione: l’idea, che va dalla lotta di tutti contro tutti di Hobbes alla dialettica servo-padrone di Hegel, secondo cui la schiavitù è sempre preferibile alla morte, preferenza che è posta a fondamento delle organizzazioni sociali concepite dalla filosofia politica occidentale moderna. È forse per questo che i/le migranti sono forclus* con tanta forza. È forse per questo che, paradossalmente e tragicamente, i/le migranti incarnano una delle più potenti materializzazioni della forma-superuomo e della potenza che profana il potere.
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