I social network, e le nuove tecnologie mediatiche in genere, si sono limitati a dare voce a una massa di ignoranti di cui prima non conoscevamo neppure l’esistenza, come ebbe a sostenere Umberto Eco, oppure hanno avuto (anche) un ruolo attivo nel creare il villaggio globale dei barbari in cui siamo sempre più immersi?
Molto probabilmente c’è una buona parte di verità in entrambe le ipotesi, ma prendere per buona la prima rischia di sminuire eccessivamente la verità fondamentale della seconda.
I mezzi di comunicazione di cui facciamo uso, come ebbe a insegnarci Marshall McLuhan quando ancora non erano comparse le tecnologie digitali, non sono dei semplici “oggetti” nelle nostre mani, di cui possiamo fare un uso libero e consapevole a fronte della nostra esclusiva volontà.
Il mezzo che usiamo, ogni mezzo che utilizziamo produce in noi degli effetti di ritorno (feedback) che modificano il nostro corpo, le nostre capacità cognitive e sensoriali e le modalità con cui interagiamo con gli altri.
Tanto più potente è questo mezzo, tanto più rilevanti sono gli effetti che esso produce in noi che ne facciamo uso.
I mezzi con cui abbiamo a che fare oggi, le tecnologie digitali dei pc, smartphone, tablet etc., sono i più potenti con cui il genere umano si è trovato mai a interagire.
Questo per due ragioni sostanziali.
La prima è che essi “coinvolgono” totalmente la nostra persona e personalità: i nostri occhi puntati sui loro schermi, le nostre menti che funzionano per il loro tramite, la nostra sfera emotiva e relazionali che si accende e si spegne con questi apparecchi e grazie all’intermediazione degli stessi.
Insomma, sempre più pensiamo, conosciamo persone e fatti, interagiamo con gli altri e perfino ci emozioniamo o arrabbiamo attraverso questi apparecchi.
La seconda ragione della loro potenza inaudita risiede nella carica di “pervasività” di cui sono capaci: ossia sempre più persone, per sempre più ore, in sempre maggiori occasioni ritengono di utilizzare questi mezzi per realizzare le tante cose della vita.
Dalle più frivole e ininfluenti a quelle considerate importanti e capaci di incidere sulla realtà personale come su quella sociale.
Ma il punto è che questi sempre più invadenti e necessari mezzi con cui facciamo esperienza della nostra vita, sono macchine fredde, impersonali, che funzionano come dei meccanismi numerici e impersonali e chiamano anche noi che ne facciamo uso a funzionare alla stessa maniera.
Macchine fredde programmate per essere al servizio esclusivo di quella “scienza triste” che è l’economia, poiché tutto ciò che le riguarda, e gli stessi obiettivi del loro funzionare, puntano verso un solo traguardo: produrre profitto.
Come monadi comunicanti soltanto attraverso degli schermi e dei click su una tastiera, noi che ne facciamo un uso sempre più pervasivo e costante finiamo con l’introiettare i “valori” che ruotano a questo imponente meccanismo tecno-finanziario: l’individualismo spinto ai limiti dell’isolamento; le relazioni fredde e distanti portate fino all’incapacità di dialogo ed empatia; la concorrenza esasperata al punto da divenire aggressività costante, cattiveria contro tutto ciò che non rientra nel nostro orticello geografico o esistenziale; la fiducia che trascende nella fede in ogni contenuto che queste macchine veicolano, in ogni informazione che intercettiamo per il loro tramite, fino a convincerci di sapere ciò che in realtà ignoriamo e di doverlo comunicare al “mondo” perché questo ci chiedono gli stessi social: condividi, comunica, connettiti.
Anche e soprattutto se di fatto non conosci.
Il prezzo umano e culturale di tutto questo è altissimo.
E naturalmente si estende alla sfera politica e sociale, dove il trionfo della “ragione cinica” e della “sragione mediatica” stanno diffondendo a macchia d’olio quel villaggio globalizzato di rabbia, ignoranza, aggressività non ragionata, narcisismo incapace di dialogo e sagra delle accuse e delle bufale che perlopiù è la Rete.
Rete che, avendo colonizzato ogni aspetto del vivere umano e sociale, ha imposto queste sue caratteristiche anche alla realtà politica, ormai divenuta una dimensione in cui, fra incompetenti e demagoghi, proliferano e trionfano figure e figuri che, lungo tutto l’arco costituzionale, mancano di una visione del Paese, di una struttura programmatica e di una cultura politica atte a farci superare questo crocevia terribilmente delicato e complesso della Storia umana.
Proprio mentre l’opinione pubblica, mediamente, vede una degenerazione del proprio ruolo, impegnata com’è a condividere stupidaggini sui social, a vomitare rabbia contro questo o quello, a disquisire sulle troppe bufale che abbondano su Internet, a dare il peggio di sé contro esseri umani in difficoltà (per esempio gli immigrati) o che muoiono (si veda il caso di Marchionne).
E’ il prezzo altissimo di una società e di un tempo che, con la complicità delle nuove tecnologie, hanno sacrificato la conoscenza sull’altare del materialismo più gretto, dell’egoismo miope, della futilità e della superficialità.
Tutte caratteristiche atte ad innalzare la teologia del profitto e abbassare la condizione umana.
In una parola, si è detronizzato tutto ciò che è conoscenza per abbandonarsi alla dimensione sciagurata del “noto”, dimenticando la lezione del grande Hegel, che già nell’Ottocento avvertiva: “Il noto in generale, proprio perché noto, non è conosciuto. Quando nel conoscere si presuppone alcunché come noto, e lo si tollera come tale, si finisce con l’illudere volgarmente sé e gli altri; allora il sapere, senza neppure avvertire come ciò avvenga, non fa un passo avanti nonostante il grande e incomposto discorrere che esso fa” (“Fenomenologia dello spirito”, La Nuova Italia, Firenze 1984, v. 1, p. 25).
Fare i conti con questo enorme problema è il compito più gravoso e importante che attende la nostra realtà culturale e politica.
Ma abbiamo i numeri e la forza per farlo, ora che il nostro villaggio globalizzato si è votato al regno della barbarie?
Barbari, in greco antico, erano gli stranieri.
Mai come nel tempo contemporaneo rischiamo di diventare stranieri a noi stessi.
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