La lezione della crisi del 2008 è che le condizioni per una crescita planetaria e illimitata non ci sono più. E ciò cambia completamente lo scenario storico.Tra il 1985 e il 2008 il Pil mondiale è cresciuto a una velocità senza precedenti. Tuttavia questa fase ha prodotto almeno quattro effetti, che adesso premono chiedendo con urgenza nuove idee e soluzioni.
In primo luogo, la crescita mondiale si è accompagnata a una gigantesca redistribuzione della ricchezza che ha avvantaggiato una quota modesta degli abitanti dei paesi ricchi (meno del 20%) e una parte (consistente ma comunque minoritaria) della popolazione del resto del mondo. Il gruppo sociale che ha perso di più (in termini di sicurezza e prospettive) è stato il ceto medio dei paesi Ocse. In secondo luogo, la globalizzazione si è associata a un forte peggioramento degli equilibri della biosfera planetaria. Come ha ricordato anche l’ultimo rapporto Onu, il nostro modello di crescita è semplicemente insostenibile se esportato su scala globale. In terzo luogo, col tempo sono diventate sempre più forti le pressioni culturali associate allo sconvolgimento demografico e ai processi migratori prodotti dalla crescente integrazione economica. La convivenza tra civiltà, di cui aveva scritto Huntington, è questione quanto mai attuale.Da ultimo, la fine dell’espansione lascia spazio a una cronica instabilità finanziaria, causata anche dagli scompensi di cui è costellato il pianeta.
La reazione politica che si sta verificando in questi anni poggia dunque su buone ragioni: continuare a pensare come si è fatto a partire dalla metà degli anni 80 è sbagliato. Ma, detto questo, che cosa ci aspetta? In un esercizio proposto di recente, Branko Milanovic ha definito i termini del problema che abbiamo davanti. Al livello attuale del Pil, un quarto della popolazione mondiale vive con meno di 2,5 dollari al giorno. Il che è evidentemente inaccettabile. Per correggere la situazione, il Pil dovrebbe aumentare di 2,7 volte. Ma, oltre al tempo richiesto, tale crescita non è realistica per almeno due ragioni: le tensioni politiche che si produrrebbero nei paesi avanzati, dove non si è disposti a continuare sulla china declinante degli ultimi decenni; e l’ulteriore aggravamento della crisi ambientale, con le conseguenze associate.
Se, invece, vincessero le preoccupazioni ecologiche (o l’instabilità politico-finanziaria) e smettessimo di crescere (immaginando di entrare in una sorta di stato stazionario) saremmo costretti tra due alternative entrambe problematiche: gestire politicamente — e quindi anche militarmente — la disuguaglianza tra le diverse parti del mondo; oppure procedere con la progressiva redistribuzione di risorse dai paesi ricchi a quelli più poveri, con conseguenze incalcolabili su quel ceto medio che già oggi rifiuta la globalizzazione.
È chiaro perché, in questo contesto, la spinta a focalizzarsi sull’economia domestica e sul benessere dei propri cittadini appaia come una strada possibile. Dovrebbe però essere chiaro che si tratta di una pezza che col tempo metterà in luce tutte le sue contraddizioni. Da un lato, la pressione politica legata allo scontro interno/esterno è destinata ad aumentare. Ma come questa chiusura si coniugherà con l’esigenza della crescita economica non ci è dato sapere. Dall’altro lato, i costi del danno ambientale non potranno che crescere (essendo per definizione questioni globali e come tali fuori dalle agende nazionali).
Come se ne esce? Difficile dirlo. In un certo penso, lo «scopriremo solo vivendo», per citare Lucio Battisti. Ma una cosa almeno è chiara: con il 2008 torna all’ordine del giorno il problema delle compatibilità. Che cosa significa? Alla fine degli anni 70, abbiamo imparato che l’affermazione «il salario è una variabile indipendente» non reggeva. Allo stesso modo, oggi dobbiamo capire che anche l’affermazione «la finanza/economia è una variabile indipendente» non regge. Semplicemente perché al mondo di indipendente, cioè di assoluto, non c’è niente. Tutto è in relazione con tutto.
Eccoci così al nodo culturale di questi anni: il XXI secolo si è inaugurato raccogliendo l’eredità (ambivalente) della seconda metà del 900, quando un pensiero astratto (anche rispetto all’idea di individuo) è diventato prevalente tanto a destra quanto a sinistra. Oggi occorre tornare a pensare e a praticare la concreta relazionalità della vita di cui parlava un secolo fa Georg Simmel: ricostituendo comunità politiche limitate, basate su limiti (confini) dotate di identità e istituzioni e però allo stesso tempo capaci di non dimenticare ciò che lega a ciò che le circonda, ad altre organizzazioni politiche, al sistema tecnico mondiale, alla biosfera. Nelle quali ogni cittadino sia chiamato a dare il proprio contributo.
Se non impareremo (in fretta) la lezione, finiremo per oscillare tra due pericolose illusioni: pensare che scienza, tecnica e innovazione (che pure sono necessarie!) possano da sole risolvere il problema; oppure credere che sia possibile separarsi dal mondo che ci circonda, costruendo muri, odiando lo straniero, facendosi guerre commerciali (e Dio non voglia) militari. In mezzo sta la faticosa concretezza della politica, che comporta la nostra capacità culturale di superare l’ideologia dell’homo deus. Si dirà che è difficile. E infatti lo è. Ma chi lo ha detto la storia è una cosa facile?
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