"L'uomo si separa dal vicino in quanto nutre sentimenti di odio e di repulsione. Così ignora una cosa: nello stesso istante ha già tagliato via se stesso dalla Città universale del genere umano"
lunedì 25 marzo 2019
SPIRITUALISMO FILOSOFIA RELATIVISMO ANTROPOCENTRISMO. E. BENCIVENGA, Recensione a M. Buber, Il problema dell'uomo, IL SOLE 24 ORE, 17 marzo 2019
«Il fatto fondamentale
dell’esistenza umana è l’uomo con l’uomo. Ciò che caratterizza in modo
peculiare il mondo degli uomini è innanzi tutto il fatto che qui, tra essere ed
essere, intercorre qualcosa che non ha l’eguale nella natura.» Queste due frasi
compaiono verso la fine del Problema
dell’uomo di Martin Buber,
originariamente un corso tenuto dall’autore a Gerusalemme nel 1938, pubblicato
in ebraico nel
Quel che approvo è la sua filosofia
dell’incontro e del dialogo: un incontro privo di struttura e contenuto fra due
esseri che si aprono l’uno all’altro, senza qualificarsi o oggettivarsi,
impegnandosi reciprocamente in modo totale e correndo il rischio di un rifiuto.
L’idea di questo incontro è al centro del capolavoro di Buber, Io e tu, ed è formulata con eloquenza
nel Problema dell’uomo, poco dopo le frasi citate sopra: «In una reale conversazione
(in cui ciascuno parli direttamente a un altro e ne susciti l’imprevedibile
replica), in una reale lezione, in un reale abbraccio, che non sia una
convenzione abituale, in un duello reale, e non fatto per gioco – in tutto
questo, l’essenziale si compie non nell’uno e nell’altro dei due partecipanti,
né in un mondo neutro che li comprende tutti e due insieme ad ogni altra cosa,
ma, nel senso più preciso, tra i due, in una dimensione che è accessibile
soltanto a loro due».
Nel Problema dell’uomo, però, c’è
anche dell’altro; anzi, questo libro non avrebbe ragion d’essere se dovesse
solo ripetere le lezioni del precedente. C’è un percorso storico che, come si
addice al contesto universitario in cui ha avuto origine, traccia lo sviluppo
di un problema da Agostino a Pascal a Kant e, in epoca contemporanea, a
Nietzsche, Heidegger e Scheler. Il problema dell’uomo, appunto, che però non è
tanto quello dell’esperienza o della forma di vita umane quanto, soprattutto,
quello dell’unicità dell’uomo, dell’assoluta novità da lui rappresentata nella
natura, che lo porta a distaccarsene in modo radicale: «non c’è nulla d’umano
che appartenga interamente alla natura e si possa capire solo partendo da essa.
Persino la fame dell’uomo non è la fame d’un animale».
In L’uomo e/è la scimmia, incluso
in La filosofia come strumento di liberazione,affermo che, sebbene Darwin abbia stabilito una continuità
empirica fra il non-umano e l’umano (abbia stabilito che, di fatto, l’umano
proviene dal non-umano), la sua teoria convive di solito con la fede in una
netta discontinuità concettuale fra i due piani: quel che vuol dire essere
umano mostra una netta differenza da quel che vuol dire essere non-umano; nel
corso dell’evoluzione dall’uno all’altro si è operata una netta cesura. E
osservo desolato che anche autori fra i più rivoluzionari e progressisti (cito
Marx, Sartre e Lacan) hanno aderito a questa fede. Quindi mi dò da fare per
dimostrare che l’umanità (il concetto di essere umano) non è che una forma
altamente strutturata, sofisticata e funzionale di scimmiottamento. Il che non
esclude che sia possibile e anzi opportuno studiare la natura specifica degli
esseri umani, come delle giraffe, dei ragni e delle sequoie; ma vuol dire che
in tutti questi casi studieremo variazioni sullo spartito di un’identica
natura, senza montarci la testa pensando che prima o poi quello spartito termini
e ne esordisca un altro, nuovo di sana pianta, che compete (guarda caso!) solo
ai membri della nostra specie.
Ho parlato di fede, ed è una
parola significativa. Chi sposa la tesi di un baratro incolmabile fra l’umano e
il non-umano adotta quel che nel mio testo chiamo «creazionismo
trascendentale»: crede cioé che, indipendentemente da come si sono succeduti i
fatti empirici dello sviluppo organico, a un certo punto di questo sviluppo si
sia realizzato un miracolo e ne sia emerso un essere inconfrontabile con tutto
quel che precedeva. È naturale che una posizione filosofica del genere sia più
facile da accettare per chi, anche a livello empirico (e in contrasto con Marx
o Sartre), è un credente: ha fede in qualcuno degli dèi che gli esseri umani si
sono inventati per sancire la propria radicale superiorità. Buber appartiene a
questa categoria di pensatori: il suo Tu per eccellenza è Dio e il carattere
speciale dell’umanità è tutt’uno in lui con il rapporto fra uomo e Dio. «Si era
formata in me l’idea di una realizzazione di Dio mediante l’uomo; nell’uomo
vedevo l’essere attraverso la cui esistenza l’Assoluto, che riposa nella sua
verità, può acquisire il carattere della realtà concreta».
E qui, con decisione, lo devo
lasciare, per muovermi invece verso un essere (non solo umano, ma uniformemente
naturale) che sia tutto incontro e dialogo.
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