(...) Come siamo potuti passare degli austeri maestri di Collodi e dal maestro Manzi a questo stato di prostrazione? Adolfo Scotto Di Luzio, docente di storia della pedagogia e delle istituzioni culturali all’università di Bergamo, considerato oggi uno dei massimi studiosi della scuola italiana, ha una tesi. E per dimostrarla parte da un passo del messaggio inviato dal ministro Marco Bussetti a un convegno sul ruolo dell’insegnante nella società liquida che si è svolto a Roma lo scorso ottobre. «In un sistema integrato con il mondo del lavoro, la scuola non deve essere un luogo fatto solo per studiare, ma anche per conoscere se stessi» diceva l’attuale titolare del Miur.
«Appunto» ribatte Scotto Di Luzio. «Nelle tre famose “I” della riforma Moratti, due lettere su tre stavano per impresa e informatica. Tutte le leggi e le direttive approvate negli ultimi anni vanno in direzione di una scuola di formazione, conforme alle esigenze del lavoro. Storia, filosofia, letteratura, persino la matematica, non contano più. Tutto quello che i docenti sanno, non vale nulla. La loro perdita di ruolo e di prestigio comincia con questa impostazione condivisa da ogni forza politica. Tutte le riforme che si sono susseguite negli anni portano a questo modello di scuola che potremmo definire confindustriale, e sono sempre state concepite in modo ossessivo contro gli insegnanti, considerati portatori di un sapere vecchio e inutile, non aggiornati, e additati come ultimi depositari di privilegi ingiustificati. La conseguenza è un’istruzione lasciata al mercato, alle risorse dei singoli. La famiglia abbiente del Meridione spedisce il figlio a Milano, mentre la famiglia milanese lo manda a Londra. Vince chi ha la possibilità di comprare una scuola migliore. La politica ha deciso di non affrontare la questione, riempiendosi la bocca solo di tecnologie in classe, lasciando fare al mercato. Fino agli anni Novanta l’insegnante sapeva bene quale era il suo compito. Oggi, a domanda, non sa cosa rispondere». La difesa corporativa non si addice a Scotto Di Luzio. «Gli insegnanti italiani hanno interiorizzato questa tendenza al ribasso». Nella sua carriera di docente delle scuole di specializzazione, racconta di trovarsi spesso di fronte ad aspiranti professori che studiano sui riassunti, su Google, come i loro studenti. «Non è colpa loro, ma la preparazione dei giovani docenti ormai è parte del problema. Come se ci fosse un rassegnato adeguamento alla propria perdita di identità».
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