Un anniversario che forse non vorremmo ricordare, questo, o forse che speravamo di ricordare al passato e invece, dopo un anno di chiusure e aperture alterne, il virus è ancora tra di noi. Niente da festeggiare, quindi, ma le ricorrenze possono essere un’occasione per fare i conti e trarre qualche conclusione. Cosa ci ha insegnato (se qualcosa ci ha insegnato) questa esperienza?
Prima di tutto che quello della crescita continua e irrefrenabile altro non era che un mito creato dai seguaci folli dello sviluppo a oltranza. La pandemia ha messo in luce l’estrema fragilità di questo nostro sistema globale: poche settimane di arresto e tutto si è paralizzato, ci siamo accorti che non avevamo riserve. Perché per averle occorre pensare al futuro e avere il senso del limite, cosa che nessuno sembra più in grado di fare e di avere. I montanari di un tempo trascorrevano mesi d’inverno isolati, ma avevano delle scorte, noi no.
Incapaci di pensare al futuro, perché impegnati in una eterna competizione, che vive e si nutre solo di presente e di corsa cieca, di assoluta fiducia nella capacità di controllare la natura. Poi accade che tutto si fermi, che la quotidianità venga sospesa e che non abbiamo nessuno strumento, perché non era prevista. E quella natura (anche il virus è un prodotto della natura) che credevamo di avere soggiogato rivela la nostra cecità
Molte di quelle popolazioni che spesso chiamiamo “primitive” pensavano al futuro molto più di quanto facciamo ora noi. I cacciatori-raccoglitori non raccoglievano mai tutti i frutti o le bacche di una pianta, ma nel lasciavano un po’ perché la pianta potesse riprodursi; in moltissime regioni dell’Africa possiamo vedere i boschetti sacri, aree di foresta che venivano preservate dal taglio del legname, per non impoverire troppo il patrimonio boschivo; lo stesso concetto di totem serviva a limitare la caccia di certi animali. Nel deserto del Sahara mi è capitato più volte di osservare come i tuareg prendessero pezzi di legno dai pochi alberi reperibili, senza mai intaccare troppo la pianta, perché sopravvivesse. Semplicemente pensavano al domani, per rispetto verso la natura e per garantirsi la sopravvivenza, visto che le due cose sono strettamente legate.
La sospensione ha posto fine anche a quella socialità a cui non avevamo forse dato mai troppa importanza, troppo spesso impegnati a comunicare digitalmente, preferendo al “faccia a faccia” lo “schermo a schermo”. La distanza (fisica, non sociale) ci ha reso più soli e più estranei. Sono scomparsi i sorrisi dai nostri volti, nascosti da una fascetta azzurrina. Abbiamo provato a ricostruire un’immagine di comunità, inventando piccoli rituali sui balconi, ma la stanchezza ha preso il sopravvento.
La Rete è entrata pesantemente nelle nostre vite, aiutandoci a fare andare avanti la macchina collettiva, ma spingendoci anche in una dimensione sempre più solitaria e filtrata dal medium. E sempre più controllata. Una trasformazione si è innescata nel mondo del lavoro e non si tornerà indietro. Il nuovo modello metterà sempre più in luce le diseguaglianze sociali ed economiche tra chi avrà accesso e chi no.
Il virus ci ha colpiti come specie, ma non lo abbiamo capito. Condizionati dai nostri identitarismi prima abbiamo puntato il dito contro i cinesi, poi gli untori siamo divenuti noi italiani, fino a che tutti sono caduti vittime del contagio. Allora c’è stato un momento di apparente solidarietà, ma non è durato molto: subito è partita la corsa a chi si accaparra più vaccini, di chi tenta di arrivare prima degli altri e non tanto per motivi umanitari, quanto economici e geopolitici. Anche a livello sociale non è scattata quella solidarietà che sarebbe stato giusto attendersi tra le persone.
La sospensione imposta da questa pandemia, lo stallo a cui ci ha costretti tutti, impone una riflessione profonda. Siamo stretti in una morsa terribile, e qualsiasi via di uscita impone comunque qualche rinuncia. Non è il tanto amato win win degli economisti finanziari, questo è un gioco a somma zero, dove il limite è dato dalle risorse del pianeta. Il Sars Cov 2 sembra averci lanciato un segnale: non ci sono confini, né barriere che tengano, siete tutti ugualmente vulnerabili di fronte a questa piccola espressione della natura.
A volere guardare da un’altra prospettiva, l’ammonimento potrebbe indurci a ripensare al fatto che apparteniamo a una stessa umanità (cosa di cui ci dimentichiamo troppo spesso, condizionati come siamo da etnocentrismi, sovranismi e pensieri di Stato vari) e che abbiamo un destino comune. Un fatto, questo, che l’accecamento generale ci ha troppo spesso impedito di vedere. Siamo passeggeri – spesso litigiosi – di uno stesso treno, che improvvisamente si è arrestato e a questo punto dobbiamo scegliere cosa fare, quale viaggio intraprendere. È ora di prenderci la responsabilità del futuro.
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