Secondo Platone la Filosofia serviva a meravigliarsi e lo stupore era spesso l’origine di ogni filosofia. Per Aristotele, di contro, la Filosofia doveva aiutare a comprendere e descrivere il mondo reale che ci circonda.
L’atteggiamento con cui il filosofo contemporaneo sud-coreano Byung-Chul Han ci propone le sue riflessioni è un’unione delle due idee classiche. Eclettico il percorso intellettuale di questo autore asiatico, che arriva alla filosofia partendo dallo studio dei metalli e si è formato in Germania, ispirandosi soprattutto a Heidegger e Foucault. Fra i suoi tanti pregi il dono della concisione e della compendiosità.
In appena 72 pagine suddivise per 11 micro-capitoli, in La società senza dolore. Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite (Einaudi 2020, pp. 96, €13) propone una vera e propria ermeneutica del dolore, o meglio un’ermeneutica dell’algofobia (la paura del dolore fisico, ma anche, per estensione, anche la paura di tutto ciò che è ostacolo, sfida, difficoltà, prova) di cui analizza l’insensatezza. Byung-Chul Han cita quanto basta pagine seminali della letteratura e della filosofia universale: Valéry, Freud, Santa Teresa d’Avila, Andersen, Benjamin, Jünger, Weizsäcker, Butor, Celan, Heidegger, Nietzsche, Pearce.
Scritto nell’annus horribilis 2020, in mezzo alla pandemia, Han denuncia la perdita di senso del dolore per la società d’oggi. Eppure il vivere la difficoltà, il dolore, è sempre stato anche prova, catarsi, conoscenza interiore, possibilità di racconto, di vincolo, di desiderio, di disciplina, di sensibilità umana e artistica, di contatto con la realtà. In poche pagine viene fuori una dialettica, una ontologia del dolore che pescano soprattutto in Ernst Jünger, Nietzsche e Heidegger ossia nell’irrazionalismo e nell’esistenzialismo ontologico e fenomenologico. Il riverbero più forte è senza dubbio quello dello Jünger di Sul dolore, quello che scrive “Il dolore è una di quelle chiavi che servono ad aprire non solo i segreti dell’animo ma il mondo stesso. Quando ci si avvicina a quei punti in cui l’uomo si mostra all’altezza del dolore, o superiore a esso, si accede alle sorgenti della sua forza e al mistero che si nasconde dietro il suo potere. Dimmi il tuo rapporto con il dolore e ti dirò chi sei!”.
Come sapranno bene tutti i lettori che hanno superato un lutto, o una grave e seria condizione di salute, o che la stanno superando, il filosofo espone tutto ciò che il vivere il dolore ci apporta e come questa esperienza ci trasforma, ci rende più sensibili e profondi e rispettosi delle difficoltà dell’Altro. Addirittura, il poter fare esperienza di dolore rende la nostra intelligenza di grado superiore rispetto a quella artificiale: “Intelligenza significa scegliere tra (Inter-legere). È la capacità di distinguere. Per cui non abbandona ciò che esiste già. Non è in grado di creare il completamente Altro. In ciò si differenzia dallo spirito. Il dolore approfondisce il pensiero. Non esiste un calcolo profondo. In cosa consiste la profondità del pensiero? Al contrario del calcolo il pensiero crea uno sguardo diversissimo sul mondo. Proprio un altro mondo. Solo la vita che vive, che è capace di provare dolore riesce a pensare. All’intelligenza artificiale manca proprio questa vita. […] L’intelligenza artificiale è solo uno strumento di calcolo. È forse capace di imparare, anche di deep learning, ma è incapace di fare esperienza. Solo il dolore trasforma l’intelligenza nello spirito. Non ci saranno mai algoritmi del dolore.” (50-51)
L’altro polo della riflessione di Han è l’attacco contro quella che lui chiama “società palliativa”, colpevole di aver eliminato il dolore come costrutto sociale e rituale collettivo e lo ha trasmutato in una fatalità medica e individuale, pretendendo “anestetici e analgesici” allegorici o reali: “L’anestesia scaccia l’estetica del dolore. Nella società palliativa disimpariamo totalmente come si fa a rendere il dolore raccontabile, anzi cantabile, renderlo linguaggio, a traghettarlo in una narrazione, a ricoprirlo di una bella apparenza, a farci beffe di lui. Oggi il dolore è del tutto isolato dalla fantasia estetica. Privato del linguaggio, diventa una questione di tecnica medica. Gli analgesici precedono il racconto, la fantasia, e li sopprimono. L’anestesia permanente e prescritta conduce a un ottundimento spirituale.” (45)
La parte che meno mi convince della riflessione di Han è il collegamento della società palliativa al mondo liberaldemocratico e al liberismo economico. Al contrario, a me pare che il rifiuto verso la sofferenza, la prova, la sfida, la difficoltà, il dolore di scoprirsi non fra i primi o fra i più talentuosi sia figlia di una filosofia marxista e anche populista che prevede la cancellazione di ogni livello di selezione, in favore di un appiattimento generale. Nasce così l’esigenza e la pretesa di evitare di mettere alla prova le persone e di lasciare che, inevitabilmente, qualcuno cada non essendo selezionato o premiato.
Nel terrore (ontologicamente e pedagogicamente errato) che poi, chi è stato respinto, non abbia mai alcuna possibilità di rialzarsi. Questo tipo di atteggiamento si riscontra presso quei genitori-elicottero che ritengono di fare l’interesse dei loro figli quando combattono contro la scuola, accusando l’intera classe docente – in sintesi – di volere il male dei loro figli, perché magari osano assegnare compiti per casa o non ammettono interrogazioni programmate, o vorrebbero usare tecniche pedagogiche ormai famose per molti ma non per tutti, a cominciare dalla classe capovolta.
Questi genitori, in genere del tutto digiuni di pedagogia e didattica ma anche deboli sul campo educativo, sono terrorizzati da ogni e qualunque prova scolastica che possa far uscire i loro rampolli dalla propria area di comfort. Non si rendeno conto del danno psicologico che creano in bambini e adolescenti ai quali la scuola, secondo loro, non deve preparare alla vita reale.
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