Qualche settimana fa in Zambia un elefante ha attaccato il van di un gruppo di turisti impegnati in un jeep safari, e nel violento impatto una donna è rimasta uccisa. Potrebbe sembrare un mero fatto di cronaca dal finale tragico; invece è l’indice di un fenomeno le cui dimensioni non cessano di aumentare. È l’indice della convinzione diffusa che il Pianeta sia capace di reggere illimitatamente l’intrusione turistica anche nelle sue aree più delicate e fragili, e la prova del fatto che il visitatore ostinato non si lascia neppure sfiorare dal timore di provocare la natura oltre il sopportabile.
Sebbene dalle nostre parti non ci siano elefanti, i guasti prodotti dalle grandi masse di turisti sono ugualmente gravi. Si escogitano dappertutto mezzi per cercare di rimediarli. Da qualche settimana, per mettere piede a Venezia il turista deve pagare una tassa, che si aggiunge al sovrapprezzo per i non residenti sui biglietti dei vaporetti. A Kyoto le restrizioni sono più drastiche: nel quartiere di Gion, abitato per tradizione da geishe, dal mese scorso i turisti non possono più entrare e tantomeno far fotografie. Si tenta così di porre fine alla mala abitudine di disturbare le ragazze per farsi selfie con loro o palpare i preziosi tessuti dei loro abiti. Sul monte Fuji non si sale più liberamente: gli escursionisti sono a numero chiuso e devono pagare una tassa. Si conta così di evitare che si ammassino in quota, lascino scarti di ogni genere e si presentino con abbigliamento inadeguato. In Francia, Mont Saint-Michel, le falesie di Etretat, le gole dell’Ardèche e molti altri siti hanno ormai accessi limitati. Sull’isola di Bréhat (in Bretagna) possono metter piede non più di 4700 persone la settimana, e solo dalle 8.30 alle 14.30. In Europa e nel mondo non si contano i siti che hanno chiuso o limitato l’accesso ai turisti: dalle Cinque Terre alle isole Cicladi, da Barcellona all’Islanda, da Machu Picchu alle spiagge tailandesi…
Qualche cifra aiuta a focalizzare il fenomeno, che ha ormai il nome quasi tecnico di iperturismo (in inglese overtourism). L’Organizzazione mondiale del Turismo dell’Onu (Unwto) ha calcolato nel 2021 che il novantacinque per cento dei viaggiatori si affolla su meno del cinque per cento delle terre emerse. Su scala planetaria, gli incrementi sono da brivido: negli anni Cinquanta del Novecento i turisti nel mondo erano non più di qualche milione, agli inizi di questo secolo seicento milioni. I turisti cinesi, circa dieci milioni all’anno all’inizio del secolo, erano centocinquanta milioni nel 2018 e oggi sono ovviamente in crescita. Attualmente il turismo sposta un miliardo e quattrocentomila persone all’anno e si calcola che entro questo decennio si sfioreranno i due miliardi. Insomma, un abitante del Pianeta su quattro praticherà qualche forma di turismo.
Dato che l’iperturismo sposta masse immense, muove un’enorme economia (secondo alcuni, la più importante del mondo) ed esercita sul Pianeta un impatto durissimo, conviene spostarsi dal quantitativo al qualitativo: chiedersi cioè che cosa è cambiato nella mente degli umani, e come mai il turismo, nato come fonte di conoscenza (per i viaggiatori) e di lavoro (per gli operatori), sia diventato invece fonte di danno e di devastazione. Il fatto è che la modernità globalizzata, cioè il mondo in cui da più di trent’anni viviamo, ha profondamente trasformato la “mente del viaggiatore” (è il titolo di un bel libro di Eric J. Leed, edito anni fa dal Mulino), soprattutto quella del turista ostinato. Il tempo libero (dura conquista dei movimenti socialisti del secolo scorso), che fino a qualche generazione fa era tempo liberato, perché serviva a riposarsi dalle fatiche del lavoro e si spendeva tutt’al più andando a trovare zie e zii, nonne e nonni, ha cambiato radicalmente funzione, diventando tempo occupato fino all’ultimo istante: serve infatti soprattutto a viaggiare, sia pure per poco tempo, verso mete anche remotissime, geograficamente e culturalmente.
In questo panorama, ha un ruolo cruciale la nascita dei voli low cost, uno dei pilastri dell’iperturismo, che non solo hanno portato in viaggio immense platee di persone che non avevano mai messo piede fuori di casa, ma hanno anche rimodellato la loro mente. Infatti, l’idea di vacanza si intreccia ormai, fino a coincidere, con quella di viaggio, anche estremo e di pura dissipazione: un’immersione per vedere le varie barriere coralline del Pianeta, una gita invernale a Dubai, dove si può prendere il sole quando da noi fa freddo, o una settimana bianca in Giappone quando si sono esaurite tutte le piste europee (cito esempi di cui ho avuto personalmente il racconto) sono considerate cose normali. C’è anche il turismo indotto da Netflix, che si nuove verso una meta di cui non si sa nulla, ma che si è solo vista in un film. Un caso recentissimo, segnalato dai media, è quello di Atrani, il più piccolo dei borghi della Costiera Amalfitana, che è stato di colpo sommerso da visitatori di mezzo mondo, attratti da quel che hanno visto nella serie Ripley di Netflix (del resto bellissima).
Le conseguenze di questa grande trasformazione non sono da poco, tanto sulle persone quanto sul Pianeta. Dal primo punto di vista, la vacanza ha cambiato scopo: un tempo serviva a riposare e ritrovare le forze; oggi serve a fare esperienze, nuove e forti, anche a rischio di tornare a casa sfiniti. Inoltre, è dissolto il significato di scoperta e di conoscenza che il viaggio ha dai tempi più remoti: con un volo low cost il turista intrusivo scavalca in poche ore meridiani e paralleli, millenni di storia e di tradizioni, differenze salvaguardate nei secoli, senza avere il minimo sospetto dell’enorme lavoro umano e naturale che c’è di mezzo. In più, l’iperturismo non ha più nulla di conoscitivo e di esplorativo. Il mondo è banalizzato da Google maps e da Google streeet, dai siti di viaggio, da Trip Advisor. Lo sguardo diretto sulla realtà è sostituito dai selfie. Siamo, secondo un’acuta espressione di Umberto Eco, alla “carnevalizzazione” del mondo.
Quanto al Pianeta, gli spostamenti di masse ostinate comportano il degrado e finanche la devastazione di diversi ambiti cruciali. Anzitutto, dell’ambiente. L’iperturismo produce rifiuti (se ne trovano a tonnellate anche sull’Himalaya), inquina le acque (contaminate dalle plastiche e finanche dalle creme solari) e l’aria (a causa dei mezzi di trasporto utilizzati, soprattutto aerei e navi). Le emissioni di gas a effetto serra prodotte dal turismo sono l’otto per cento a livello mondiale. In alcuni paesi, le quote sono ancora maggiori: secondo l’Ademe (l’Agenzia francese per la transizione ecologica) in Francia l’undici per cento delle emissioni proviene dal turismo intensivo.
Meno evidente, ma ugualmente grave, è il degrado che l’iperturismo porta sulla vita e la cultura delle comunità, soprattutto di quelle altre, nelle quali irrompe intrusivamente, realizzando di fatto una nuova forma di colonizzazione e la trasformazione della realtà in fake. È ben noto che il diffondersi del sistema AirB&B sta svuotando i centri delle grandi città dai residenti e trasformando in dormitori i quartieri più pregiati così come interi borghi storici. È degradata anche l’autenticità delle culture, soprattutto delle aree più esotiche e povere, che vengono acconciate e manipolate per adattarle alle attese dei turisti. Ho parlato prima del tragico jeep safari in Zambia, dove l’elefante non s’era preoccupato di adattarsi agli umani. Altrove, invece, l’adattamento forzoso funziona. Pur essendo tra i paesi più poveri del mondo, la Namibia attira da tempo un intenso turismo occidentale. In Tanzania, da diversi anni il governo espelle la comunità masai dalla riserva di Ngorongoro (Patrimonio dell’Umanità Unesco), suo insediamento originario, praticando una deportazione di tipo staliniano. Lo scopo? Destinare i loro millecinquecento ettari a safari e caccia grossa. Gli umani dimostrano così di essere (come ha suggerito Michel Serres in diversi suoi libri) non un abitante della Terra, ma il suo più ingordo “parassita”, che viola senza posa il “contratto naturale” che con essa ha contratto nascendo. Per avere un’idea della drammaticità di questi fenomeni di degrado, basta verificare che coincidono quasi tutti con quelli esaminati dall’enciclica Laudato si’ del 2015 (in cui peraltro il turismo non è menzionato come causa scatenante).
Al posto della conoscenza dell’altro si installano l’indifferenza alla diversità, l’intrusione coloniale, la mancanza di rispetto. Col titolo di un libro che ho dedicato a questi temi (edito da Solferino) ho suggerito una formula sintetica per descrivere quel che accade: Divertimento con rovine. L’iperturismo cerca il divertimento ovunque e a qualunque costo, ma lascia dietro di sé un panorama di rovine, passando così nella “zona critica” (ben descritta da Marco Pacini nel suo libro così intitolato, uscito da Meltemi) oltre la quale può esserci il baratro.
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