Come stanno le cose con la condizione operaia? Settant’anni fa Simone Weil la vedeva così: “Molto male è venuto dalle fabbriche, e nelle fabbriche bisogna correggerlo. È difficile, forse non è impossibile. Bisognerebbe anzitutto che gli specialisti, gli ingegneri e gli altri fossero sufficientemente preoccupati non solo di costruire oggetti, ma di non distruggere uomini. Non di renderli docili, e neppure felici, ma solo di non costringere nessuno di loro ad avvilirsi”.
Oggi le cose sono molto diverse: i processi produttivi sono cambiati, e molti aspetti del male venuto con l’introduzione del lavoro di fabbrica, cioè dell’abbrutimento che Simone Weil descrive con sgomento nelle sue lettere, sono stati per fortuna superati. Ma le cose sono diverse anche perché noi la condizione operaia non la vediamo proprio, nelle fabbriche non entriamo più. Sono piuttosto gli operai ad uscirne: vuoi perché cala drammaticamente l’occupazione, togliendo a un’intera generazione il fondamento della cittadinanza repubblicana, vuoi perché sono costretti, per esempio, a salire sul silo dell’impianto Alcoa di Portovesme, per richiamare l’attenzione di un’opinione pubblica distratta, troppo distratta, colpevolmente distratta; vuoi, infine, perché al lavoro di milioni di immigrati non riconosciamo alcun diritto di esprimersi politicamente.
Vaste zone di invisibilità circondano infatti la regione più fortunata (e più ristretta) sulla quale si accendono le luci dei media. Per spostare qualche riflettore occorrono spesso gesti eclatanti. Gesti particolari, eccezionali, attraverso i quali si mette in gioco nulla meno della totalità della propria esistenza. Si sospende la propria vita sulla ringhiera di una torre, a decine di metri di altezza, o ci si dà addirittura fuoco, per bruciare la propria disperazione. Chi conosce la logica e le sue determinazioni non può non notare il terribile corto circuito che così si produce: nello spazio pubblico si fa sempre più fatica a rispettare la funzione della rappresentanza, di modo che la parte viene spinta con brutalità a identificarsi da sola con il tutto, a coincidere immediatamente con l’universale, senza la mediazione del generale, senza il riconoscimento e la valorizzazione di una comune appartenenza.
Ma questi ragionamenti dialettici non si capiscono più. Diciamo allora così: nessuno entra più nello spazio pubblico in virtù di una storia collettiva, ma solo in forza di una storia individuale. La prima richiede una risposta politica, la seconda riceve per lo più una risposta morale. Umana comprensione, accompagnata da un brivido estetico di terrore o di pietà, ma poco altro.
E invece dell’altro ci vuole: un modo per cucire le esistenze insieme ci vuole, è l’opera della politica. In questi giorni la Weil è tornata in libreria. Non però perché qualcuno abbia pensato di ristampare le sue vibranti lettere sulla condizione operaia, ma perché tornava utile al dibattito pubblico un breve testo da lei scritto in forma di “manifesto per la soppressione di tutti i partiti politici”. Le lettere portano con sé l’inconveniente scomodo di costringere a vedere quel che non vogliamo più vedere, a domandarci se non si possano grazie al lavoro formare uomini, oltre che costruire oggetti, e insomma a mantenere in vita le aspirazioni di tutti ad una vita dignitosa, senza avvilimenti. Il manifesto, invece, non richiede nemmeno di essere letto, tanto il suo titolo incontra lo spirito del tempo, e il favore dell’opinione pubblica. Ma anche questo è degno di nota: l’incontro tra populismi di destra e massimalismi di sinistra nel disprezzo per la soluzione storica che il ’900 ha fornito al tema della condizione operaia.
La posizione della Weil era infatti massimalista: indifferente al problema del governo, indifferente, anzi ostile alle forme di organizzazione della politica parlamentare. Eppure l’esperienza storica ha dimostrato che proprio nelle organizzazioni sindacali e di partito, e grazie alla loro partecipazione alla lotta politica e alla competizione elettorale, la condizione operaia è migliorata, finché è stata tenuta in vista. Il riformismo novecentesco ha costruito un patto: in cambio di una piena accettazione del modo di produzione capitalistico e dell’economia di mercato, welfare e democrazia. Ora che gli indici di povertà e diseguaglianza ci dicono che siamo tornati agli inizi del Novecento, è da chiedersi se non sia il caso di stringere nuovamente un patto del genere, e di rafforzare tutti gli strumenti che consentono di darne attuazione. Le elezioni, in fondo, si fanno per quello.
E invece si considera che quel patto non possa più essere mantenuto (e sembra perciò che le elezioni si tengono solo perché ancora non se ne può fare a meno). Mesi fa Draghi ha dichiarato che il welfare state è morto, pace all’anima sua, e qualche giorno fa Mario Monti ha affermato che lo statuto dei lavoratori limita l’occupazione. Ma cosa si vuol dire? Tutto è cambiato, il mondo del lavoro è oggi un’altra cosa: lo sappiamo. Ma per questo va sconfessata l’idea stessa che occorre trovare i modi per portare il lavoro operaio e in genere i lavori subordinati fuori da una condizione di inferiorità non solo economica ma anche sociale e civile, in un percorso di diritti, sicurezza, minori diseguaglianze? Se fosse così, ben altro dovremmo attenderci, purtroppo, dalla stretta di questa crisi. Populismi e massimalismi avrebbero ragione di tornare: già ne vediamo le avvisaglie. Ed è su questo che bisognerebbe portare la sfida, il confronto, la battaglie delle idee. E, non ultima, la battaglia politica.
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