C’era una volta la teoria dell’autostima, secondo cui la scarsa considerazione di sé sarebbe la causa di tutti i problemi del mondo. Sei ansioso o depresso? Probabilmente da bambino non ti hanno insegnato a credere in te. Sei un tossicodipendente o un violento? È perché non ti ami abbastanza. Vuoi avere successo nella vita? Convinciti di essere una spanna al di sopra di tutti. Oggi di questa visione, scientificamente parlando, restano solo macerie. Ma piccole narcisiste e piccoli palloni gonfiati continuano a crescere. Tanto che, secondo alcuni studiosi, autoindulgenza e autocelebrazione potrebbero rivelarsi fra i talloni d’Achille dell’America e dell’Occidente.
Ammettere di non essere belli come una stella del cinema o geniali come Einstein è facile, spiega Jonathan Gottschall (studioso di letteratura ed evoluzione al Washington and Jefferson College) in un libro dedicato alla capacità dell’uomo di raccontare storie a se stesso e agli altri (The storytelling animal, HMH, 2012). Il difficile è riconoscersi in quella metà di persone che è, per definizione, sotto la media.
Secondo Thomas Gilovich, psicologo della Cornell University, la quasi totalità degli studenti americani crede di essere superiore alla maggior parte dei coetanei. Il 60% si colloca nella parte più alta della curva, tra i migliori dieci su cento. Un quarto dei ragazzi si sente in cima all’Everest, là dove avrebbe diritto di accomodarsi solo una persona su cento. Gli adulti non sono da meno. Pare che il 90% delle persone si consideri più bravo della media al volante, mentre nell’accademia la sindrome di Narciso diventa un’epidemia. Il 94% dei professori universitari americani guarda dall’alto in basso la propria categoria. Sono gli stessi che criticano i bamboccioni, colpevoli di pretendere buoni voti e opportunità di carriera senza darsi abbastanza da fare, non solo in Italia.
È probabile che, a questo punto, i lettori che in vacanza ci sono andati e un lavoro ce l’hanno ancora stiano annuendo, pensando ai colleghi e ai capi pieni di sé che hanno trovato al rientro. Ma l’illusione di essere meglio della media (gli psicologi lo chiamano «effetto Lake Wobegon») non riguarda soltanto il prossimo nostro: se solo non ci illudessimo di avere una capacità di autovalutazione migliore di quella altrui, sarebbe più facile accorgerci che neppure noi siamo immuni. È naturale che ogni bambino creda di essere il più veloce del mondo.
È naturale che mentre guardiamo la nostra immagine riflessa, cerchiamo automaticamente l’angolatura migliore (vi siete mai chiesti perché allo specchio sembriamo più belli che in foto?). I depressi, in quest’ottica, sono coloro che hanno perso queste illusioni vitali, mentre una mente sana è quella che abbellisce la realtà con qualche bugia. Ma se siamo così ben equipaggiati di natura, ha senso potenziare ulteriormente la capacità di autoinganno? L’attuale situazione economica, deprimente com’è, autorizza ad aggrapparsi alle illusioni o impone di guardare dritto in faccia le cose?
Dagli anni 70 ad oggi, mentre i manuali sull’autostima impazzavano, gli esperimenti si rivelavano via via più deludenti. Donald Forsyth, ad esempio, ha incoraggiato alcuni dei suoi studenti con messaggi settimanali volti ad accrescere la fiducia in se stessi, e si è accorto che proprio loro peggioravano per rendimento alla prova finale. Nel frattempo un’incongruenza era venuta alla luce: perché gli studenti americani di matematica nutrivano un’autostima stellare rispetto a giapponesi o coreani, ma ottenevano risultati inferiori?
Lo psicologo Roy Baumeister è stato fra i primi sostenitori dell’autostima, ma ha cambiato idea e ora propone la ricetta contraria: quella dell’autocontrollo. Insieme al giornalista scientifico del «New York Times» John Tierney ha pubblicato un libro intitolato Volere è potere (Vallardi 2012). È vero che chi ha molta fiducia in sé si sentemeglio ed è più propenso ad agire. Ma nel complesso, secondo Baumeister e Tierney, i benefici di un’elevata autostima sono tutti a vantaggio dell’io, mentre i costi della presunzione sono a carico degli altri. Meglio affidarsi al Super Io freudiano, che funziona ancora se inteso come metafora, o all’ottocentesco mito della forza di volontà, che in parte è data e in parte si può allenare.
Gli americani di origine asiatica sono solo il 4% della popolazione in Usa, eppure costituiscono un quarto del corpo studentesco di università prestigiose, hanno più probabilità di laurearsi rispetto agli altri gruppi etnici e in seguito i loro stipendi superano del 25% la media americana. Hanno un’intelligenza superiore? No, ma la sfruttano meglio. Secondo i calcoli di James Flynn, di solito per diventare economista o scienziato un americano bianco deve avere un quoziente intellettivo minimo di 110, ma ai sinoamericani è sufficiente un 103. La differenza sta nell’impegno, che si impara attraverso metodi educativi più rigidi rispetto a quelli che ci piace usare. La storia in fondo è sempre quella del celebre esperimento di Walter Mischel. I bambini coinvolti venivano lasciati da soli davanti a un dilemma: mangiare una caramella subito oppure resistere per riceverne due dopo? A distanza di molti anni, chi aveva optato per la gratificazione ritardata aveva una vita lavorativa e sociale migliore.
Come dire: vostro figlio chiede una macchina usata in regalo dopo l’esame di maturità? Se potete permettervelo, fareste bene a rilanciare: un’auto nuova a patto che superi il test di ingresso all’università. Poi, ma solo poi, ditegli anche quanto è bravo.
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