L’ANTOLOGIA Trent’anni fa, il dibattito filosofico italiano fu investito dalla svolta ermeneutica e “debolista”. “Verità e metodo” di Gadamer, uscito una prima volta nel 1972, ottenne risonanza con la ristampa dell’83 e Feltrinelli pubblicò in quell’anno l’antologia “Pensiero debole” a cura di Pier Aldo Rovatti e Gianni Vattimo, che fu anche il traduttore di Gadamer.
“Avevo iniziato la traduzione di Gadamer a Heidelberg. Gadamer non è un debolista. Secondo me il suo limite è proprio quello di continuare a credere nelle Scienze della natura. Quanto all’antologia sul “Pensiero debole”, noi partivamo da un’affermazione di Gadamer traducibile come: ‘L’essere, che può essere compreso, è il linguaggio’. Per me e Richard Rorty – ricorda Vattimo – da qui si doveva partire con un pensiero d’indebolimento che emancipasse le riflessioni da ogni modello dato. L’indebolimento da ogni pretesa oggettiva e da ogni valore non negoziabile era e resta la prospettiva necessaria. Noi accediamo ai fatti attraverso paradigmi, che vanno indeboliti”.
L’antologia fu tradotta in varie lingue e sollevò dibattito, inizialmente sulle pagine di “Alfabeta”. L’ermeneutica gadameriana pure andò gradatamente affermandosi nonostante alcune critiche internazionali (Albert, Betti e Hirsch) che ritenevano “Verità e metodo” privo di ogni istanza critica. Come sintetizzato nell’Introduzione a “Domandare con Gadamer”, di Carlo Gentili, Francesco Cattaneo e Stefano Marino (Mimesis, 2011, pp. 238, euro 20), il paradigma gadameriano, “incentrato sul comprendere come determinazione e disposizione fondamentale dell’essere dell’uomo nel mondo” andò sviluppando “ramificazioni nei diversi territori dell’arte e della storia, del linguaggio e della pratica etico-politica, finendo così col configurare una sorta di fenomenologia generale della cultura umanistica”.
30 ANNI DI ERMENEUTICA ITALIANA Con la crisi dello strutturalismo, e il tramonto della militanza legata all’esistenzialismo sartraino, l’ermeneutica si andò in effetti affermando in una molteplicità di discipline. Specie nel campo dell’arte a partire dalla tesi gadameriana secondo la quale l’opera d’arte è il luogo di “un incremento dell’essere”, tesi accolta in diverse riflessioni dell’estetica contemporanea (come in “L’estetica contemporanea. Il destino delle arti nella tarda modernità” a cura di Pietro Montani). Anche variamente declinate, come nella lettura della tragedia come ciò che “rende manifesta la struttura dell’opera d’arte come evento” (Carlo Gentili, Luca Garelli, “Il tragico”, Il Mulino, 2010).
Il pensiero debole ebbe anni di successo, meno filosofico e più politico-mediatico. “Eravamo tutti a sinistra forse per una questione generazionale: c’eravamo formati nella cultura einaudiana”, commenta Vattimo. “Con noi c’era anche Umberto Eco, che scrisse un saggio per l’antologia dietro nostra spinta. Ma il pensiero di Eco è tomista, non si può ritenere debole o antiparadigmatico”. A sinistra erano posizionati anche gli altri. Massimo Cacciari, “ma il suo è un pensiero quasi di destra e si è messo anche con il peggio, Rutelli”, afferma Vattimo; Emanuele Severino, “lui è un parmenideo e il suo pensiero non può essere di sinistra”; la Fenomenologia, “per me l’erede di Enzo Paci è Rovatti”; Carlo Sini, “non ho contrasti, ma i suoi sono solo discorsi accademici”…
Progressivamente gli “indebolimenti della realtà” hanno mostrato debolezze epistemologiche diventando, talvolta, un conformismo alla “anything goes” in stile Paul K. Feyerabend, caro solo ai media, che ha diminuito il senso di responsabilità e favorito un diffuso nichilismo cinico.
Una certa stanchezza era nell’aria quando il miglior allievo di Vattimo, Maurizio Ferraris, nel 2001 pubblicò “Il mondo esterno”, che Bompiani riedita in questi giorni con una nuova postfazione. A dieci anni di distanza, Ferraris fissa la data di quella svolta nell’incombenza della morte di Derrida, il pensatore che più di ogni altro aveva sostenuto che “nulla esiste al di fuori del testo”. “Eravamo al premio Adorno a Francoforte. A un certo punto Derrida estrasse dalla cartella la copia del ‘Mondo esterno’ che gli avevo mandato e mi chiese di fargli una dedica. Mi sembrò il mondo capovolto”.
IL NUOVO REALISMO Infatti si capovolgeva. Fu in Ferraris il segno di svolta dall’ermeneutica all’ontologia che si è temporaneamente affermato con il “Manifesto del Nuovo Realismo” nel2012. Adistanza di così tanti anni Vattimo ancora non si dà pace: “Ferraris sostiene che se non ci fossero i documenti non ci sarebbe interpretazione. Ma io non nego realtà o paradigmi; semplicemente non sono la verità e il fondamento”. Solo che oggi anche il Nuovo realismo sta finendo nel mirino di nuovi oppositori, come la linguista Donatella Di Cesare.
Nel 2010, acinquant’anni dall’uscita di “Verità e Metodo”, si fece un punto più rasserenato dell’ermenutica con un convegno svoltosi a Bologna (a cura di Cattaneo, Gentili, Marino). Il debolismo, invece, è continuato su “Aut Aut” (22 marzo 2013, fascicolo “La diagnosi in psichiatria”) e ripreso in “Della realtà. Fini della filosofia” di Vattimo (Garzanti 2012) proprio in contrasto con il Nuovo Realismo di Ferraris, nuovamente rigettando la possibilità di una “teoria” e ribadendo il principio nietzschiano: “Non ci sono fatti. Solo interpretazioni”.
Ma è chiaro che oggi le letture sociologiche della società (liquide, della decrescita, della globalizzazione e delle nuove forme di comunicazione di massa) e quelle etiche (fine vita, biologismo) stanno monopolizzando la riflessione. “Bauman, Augé e gli altri sono interessanti lettori della realtà, ma l’Ermeneutica resta il tentativo di una nuova koinè; loro non sono radicali”. E sbocciano, anche i critici dei critici. Un libro di Umberto Curi getta uno sguardo severo sul “Nuovo Realismo”.
PROSPETTIVE “Ci vuole un relativismo totale che estremizzi Rorty, esattamente contrario al razionalismo neokantiano di Habermas, che crede in una razionalità universale. La razionalità universale – conclude Vattimo – è un paradigma che ha intenzioni dominanti; fondare su di esso un’etica è pericoloso. Il pensiero debole, invece, sta con i deboli”. Morale: “Ci vorrebbe ancora la lotta di classe”.
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