BOLOGNA - Silvia Caramazza aveva un blog. Un diario su cui appuntava sensazioni, emozioni e soprattutto paure. Le sue ultime parole le ha affidate a questo diario. A rileggerle ora mettono i brividi. Perché suonano non solo angoscianti, ma addirittura profetiche. E ci raccontano meglio di qualsiasi testimonianza quale potesse essere il suo reale stato d’animo pochi giorni prima di essere massacrata e nascosta in un freezer. L’ultimo post porta la data del 3 giugno, il giorno prima del viaggio a Pavia da un’amica. Un lungo sfogo in cui racconta dei controlli cui era sottoposta, del rapporto conflittuale con il suo presunto assassino, dell’isolamento che viveva in casa e delle violenze fisiche e psicologiche che era costretta a subire. Parole tremende, rimaste in rete in quello che era diventato il suo mondo parallelo che le consentiva di dire ciò che sentiva senza essere spiata e giudicata. Sfuggendo al controllo ossessivo dell’uomo che la perseguitava, ma che voleva essere chiamato «amore»: un comportamento che ha tutti, ma proprio tutti, i contorni dello stalking. Aveva una personalità complessa, Silvia. In questi giorni è stata descritta come una donna fragile, isolata, in cura per problemi psichici e dipendente dai farmaci. Le pagine del suo diario però raccontano altro e descrivono una persona piena di emozioni, intelligente, colta, mai banale, capace di raccontare con parole e poesie i suoi sentimenti più profondi.
3 giugno 2013: violenza — C’è una linea sottile tra il sospetto e la violenza, psicologica intendo. Va da se che rompere telefoni cellulari o computer faccia parte di una violenza psicologica ben definita anche penalmente. Ma anche tenere sotto pressione una persona facendole credere di essere controllata non è un’azione che può passare così, senza colpo ferire. Dire a una persona «ti controllo il telefono e le mail tramite un investigatore» è una pressione che a lungo andare logora e sfibra chiunque. Non sentirsi sicuri al telefono, sapere che un ex potrebbe in un futuro incerto scrivere una mail mette in allerta, anche se non si ha nulla da nascondere. Trovare telecamere in casa messe «per controllare se qualcuno entra» potrebbe anche essere lecito, ma se sono in casa mia e nessuno mi ha mai avvertito della loro esistenza la trovo un’intrusione altrettanto fastidiosa rispetto alle precedenti. Andare a cena fuori e sentirsi dire «ti ho fatta seguire per sapere se quel maniaco del tuo amico ti seguiva» mi pare un arzigogolio inutile, mi hai fatta seguire? Ma siam pazzi. Ma c’è un altro grado di violenza. Quella velatamente fisica. Se dico che non ho voglia di rapporti e mi tocchi non una, ma più volte ripetutamente, oltre a darmi un fastidiosissimo senso di repulsione, penso rientri tra le molestie sessuali. Poi mi dici che vuoi essere chiamato amore...
3 giugno 2013: Dio — Se solo Dio volesse/ ma anche un dio va bene/ il fato supponiamo, un accadimento/ qualunque cosa possa muovere una virgola/ e metterla al posto di quel punto/ sarei vivamente felice./ Perché non doveva esserci un punto ma un verbo all'infinito/ come per le cose che non devono finire/ altrimenti ci si ritrova, come ieri, come domani/ con le persone sbagliate al momento giusto./ Se questo mio ''qualcosa'' esiste,/ che per qualche ora/ mi renda felice./ Questo chiedo. Non di più. 19 aprile 2013: amore — amore, amore, amore, che parola abusata!/ bisognerebbe trovare un sinonimo, per ogni tipo d’amore/ quello geloso lo chiamerei salsabilla piccante/ quello lagnoso, «mi vuoi? mi vuoi?» asfissia permanente./ L’amore lontano sarebbe eterno sogno/ L’amore appiccicoso tatto abusivo/ Se è questo che mi sai dare, non amarmi perfavore/ puoi salsabillarmi quanto vuoi con asfissia permanente/ ma nulla vale a resuscitare/ un impegno a vita costante/ giorni costruiti a due più due/ figli, parole, cucina e pulizie/ viaggi e ritorni, luoghi comuni/ parlar di tutto e niente per tacer il silenzio/ lutti e coraggio, lasciar sbagliare e perdonare./ Continua a salsabillare,/ io resto qui a sbadigliare/ aspettando un fragore lontano/ una piccola eco che mi chiami/ e finalmente tornare a sognare.
10 febbraio 2013: timori — Rigirandosi le dita cincischiava, quasi a non volerlo ammettere. Non ho il coraggio di riprendere in mano la mia vita. Questo doveva dire, per farlo avrebbe dovuto passare attraverso abbandoni, nuove routine, rischi. Tutto questo la spaventava moltissimo, tanto da ricacciare in gola ogni minima reazione alla sua vita attuale.
7 febbraio 2013: stanchezza — Al risveglio la solita desolazione di piatti sporchi, fazzoletti dimenticati tra le pieghe del divano. Le ombre dell’attrazione che fu son scomparse dietro la polvere che solleviamo ad ogni passo, come un resuscitar di morti. Alla fine, avanti alla grandiosità degli intenti del principio, questa stanchezza che ci si porta addosso come un abito di taglia sbagliata che si incolla alle carni pizzicando e stringendo.
27 novembre 2011: ansia — L’ansia è forfora che esce dal naso/ Dalla bocca/ Si deposita cambiando colore alle cose/ Dei mostri di questi giorni/ Ci son sculture/ Che con un colpo di vento van giù/ L’ansia è questo mio stare/ Sospesa/ Tra l’essere e il sarò/ Nel divenire un mondo/ Dove le note a margine son lame acuminate/ Di minacce di forfora/ Parole di forfora/ Che con una buona spazzola/ Vanno via/ Quel che resta son piccoli fatti, mancanze, concretezze/ Che nell’insieme non contano per nulla/ Nel mio mondo sono assolutamente tutto/ Tutto quanto possa essere dolore o amore/ Da me per te.
19 maggio 2011: ammazzare — Non si può ammazzare il prossimo. È vietato. E lo sapeva molto bene, infatti non aveva ammazzato nessuno. Soffiava vento forte tra i suoi capelli sfilacciati, lei si aggirava come sempre allampanata, famelica, con gli occhi rapaci sopra ogni cosa riuscisse a scorgere. «giorno el». Lei continuava imperterrita, come una sorda, verso il mercato. Distrattamente prese due mele, una manciata di fagioli, senza proferire parola a nessuno, nessuno la notava. Non si può ammazzare il prossimo pensava, tornando a casa. Ello nel suo torpore dormicchiava, lei si cambiò in fretta per tornare a guardarlo. Gli soffiò sulle labbra e lui nel sonno istintivamente scacciò mosche immaginarie. Indisturbata giracchiò per la stanza, si mise alla finestra, osservando il vento, i tetti e quel cielo sovrastante, azzurro come ghiaccio pronto a spaccarsi in mille schegge sopra la testa di ognuno. Nuvole che scorrono, gente che passa, tutto è ancora vivo al mondo. Non si può ammazzare il prossimo. Ma fargli molto male si.
Nessun commento:
Posta un commento