Fra trulli, antiche masserie e dimore storiche della Valle d’Itria, da ieri fino al 24 agosto un Festival sarà dedicato al «sesto senso», muovendosi fra Cisternino, Locorotondo, Martina Franca e Ceglie Messapica.
Vi si parlaerà di «cose sane e sensate, belle e seducenti per riprendere i sensi», fra lezioni, conferenze itineranti, gite a lenta velocità, esposizioni tattili, esposizioni di biodiversità e quant’altro. Sarebbe ingenuo invocare ai nostri giorni l’estetica, l’esperienza, la pienezza dei sensi come baluardi contro la barbarie del mercato; anche se appare ugualmente improponibile il rifiuto ideologico di emozioni e sensazioni «inautentiche» poiché mercificate. Le rappresentazioni della consumer culture, in letteratura e nelle altre arti, di conseguenza mutano: alla critica e alla condanna unilaterale fanno séguito atteggiamenti più ambigui e perplessi, episodi che tendono alla parabola o all’allegoria. Vale la pena confrontare due esempi, uno anteriore l’altro posteriore alla svolta postmoderna.
In una scena della Vita agra, film tratto nel 1964 dall’omonimo romanzo di Luciano Bianciardi, vengono svelati i segreti della pubblicità, quella che allora, secondo un cliché un po’ paranoico, veniva bollata come «persuasione occulta». A un gruppo di aspiranti pubblicitari vengono fatti assaggiare prima dei «biscotti grassi», poi dei «biscotti magri»; nessuno ovviamente si accorge che si tratta dello stesso biscotto. «Questo perché — spiega l’esperto — voi avete sentito la presenza e l’assenza di burro con le orecchie, non con il palato (…). Questo è un principio fondamentale che dovrete applicare nel vostro lavoro futuro: i sapori il pubblico li deve sentire con le orecchie, con la vista, col tatto. Il palato non serve».
In una scena della Vita agra, film tratto nel 1964 dall’omonimo romanzo di Luciano Bianciardi, vengono svelati i segreti della pubblicità, quella che allora, secondo un cliché un po’ paranoico, veniva bollata come «persuasione occulta». A un gruppo di aspiranti pubblicitari vengono fatti assaggiare prima dei «biscotti grassi», poi dei «biscotti magri»; nessuno ovviamente si accorge che si tratta dello stesso biscotto. «Questo perché — spiega l’esperto — voi avete sentito la presenza e l’assenza di burro con le orecchie, non con il palato (…). Questo è un principio fondamentale che dovrete applicare nel vostro lavoro futuro: i sapori il pubblico li deve sentire con le orecchie, con la vista, col tatto. Il palato non serve».
LE ILLUSIONI DELLA PUBBLICITÀ
Lo schema è chiaro: in un mondo reso uniforme e «insapore» dall’industria, la pubblicità ricrea illusoriamente le sensazioni e l’esperienza di una volta. Probabilmente è una sopravvalutazione, forse di origine umanistica, del potere della parola, della persuasione e delle rappresentazioni; oggi semmai ci sarebbe più da temere la scienza e la tecnica, si pensi agli aromi e ai profumi di sintesi, alle ricerche sulle basi chimiche e neurologiche della sensazione. Ma quel che appare più anacronistico è la rappresentazione del consumismo come una disciplina repressiva, evidente nel tono autoritario e didascalico del pubblicitario (che ha i tratti del tecnocrate più che quelli odierni del «creativo»). La sua lezione è rivolta implicitamente allo spettatore — in una sorta di straniamento brechtiano —, il quale dovrebbe imparare di conseguenza a non cadere più nel tranello machiavellico ordito ai suoi danni.
Troviamo un’argomentazione apparentemente analoga in Underworld (1997) di DeLillo, dove a un certo punto compare un pubblicitario newyorkese. Chuckie Wainwright nel 1961, proprio all’inizio della «rivoluzione creativa», riflette su un nuovo modo di pubblicizzare il succo d’arancia, non più mediante promesse salutiste e termini pseudoscientifici, bensì con un diretto appello sensuale: sapeva come pubblicizzare il succo d’arancia. Era ora di chiudere con la Florida e le stupide vitamine. Bisognava puntare sull’appetibilità del prodotto, sulla botta visiva, perché questa è una bevanda bellissima e affascinante, e i globi oculari delle donne raggiungono alti livelli di eccitazione quando vedono vivaci lattine arancione nel freezer, luccicanti di brina ghiacciata. Bisogna mostrare la polpa. Far vedere il succo che schizza nel bicchiere. Mostrare la schiuma sul labbro superiore un po’, sporgente di una casalinga, un vago accenno a un pompino prima di colazione. Naturalmente nel concentrato non c’è nessuna polpa. E c’è solo una microtraccia di polpa nel succo in lattina. Nel lo si può suggerire, si possono fare allusioni, si può promettere al consumatore l’esperienza di frammenti citrini dl polpa vera — un bicchiere di succo, un calice traboccante di una sostanza piena di particelle, una specie di miracoloso smog arancione. Lo metti in evidenza. Lo fotografi amorevolmente e microscopicamente. Se la lattina o il cartone possono essere un orgasmo visivo, può esserlo anche il prodotto all’interno.
Attraverso la rappresentazione visiva, l’iperrealismo fotografico, dovrebbero passare ogni sorta di richiami fisici, sensuali e sessuali. La pubblicità americana della prima metà del Novecento era stata singolarmente astratta, più che le cose aveva venduto la loro funzione, il loro uso, i benefici che potevano assicurare: non la lampadina ma l’illuminazione, non l’automobile ma la libertà di movimento, non il succo d’arancia ma la colazione salutare. In un totale rovesciamento adesso promette la cosa in sé, nella sua qualità sensibile, fino a rasentare una sorta di pornografia delle merci. Wainwright è però ben lontano dalle certezze del persuasore nostrano. Si meraviglia ad esempio delle mode che emergono inopinatamente nella società, di fenomeni di massa caotici e imperscrutabili. Consumatore egli stesso e un po’ cialtrone, con il suo entusiasmo cerca prima di tutto di convincere se stesso, così come imbonisce, a suon di stereotipi sessisti, barzellette sconce, pseudo-scienza pavloviana e promesse esagerate, un cliente di Omaha.
Troviamo un’argomentazione apparentemente analoga in Underworld (1997) di DeLillo, dove a un certo punto compare un pubblicitario newyorkese. Chuckie Wainwright nel 1961, proprio all’inizio della «rivoluzione creativa», riflette su un nuovo modo di pubblicizzare il succo d’arancia, non più mediante promesse salutiste e termini pseudoscientifici, bensì con un diretto appello sensuale: sapeva come pubblicizzare il succo d’arancia. Era ora di chiudere con la Florida e le stupide vitamine. Bisognava puntare sull’appetibilità del prodotto, sulla botta visiva, perché questa è una bevanda bellissima e affascinante, e i globi oculari delle donne raggiungono alti livelli di eccitazione quando vedono vivaci lattine arancione nel freezer, luccicanti di brina ghiacciata. Bisogna mostrare la polpa. Far vedere il succo che schizza nel bicchiere. Mostrare la schiuma sul labbro superiore un po’, sporgente di una casalinga, un vago accenno a un pompino prima di colazione. Naturalmente nel concentrato non c’è nessuna polpa. E c’è solo una microtraccia di polpa nel succo in lattina. Nel lo si può suggerire, si possono fare allusioni, si può promettere al consumatore l’esperienza di frammenti citrini dl polpa vera — un bicchiere di succo, un calice traboccante di una sostanza piena di particelle, una specie di miracoloso smog arancione. Lo metti in evidenza. Lo fotografi amorevolmente e microscopicamente. Se la lattina o il cartone possono essere un orgasmo visivo, può esserlo anche il prodotto all’interno.
Attraverso la rappresentazione visiva, l’iperrealismo fotografico, dovrebbero passare ogni sorta di richiami fisici, sensuali e sessuali. La pubblicità americana della prima metà del Novecento era stata singolarmente astratta, più che le cose aveva venduto la loro funzione, il loro uso, i benefici che potevano assicurare: non la lampadina ma l’illuminazione, non l’automobile ma la libertà di movimento, non il succo d’arancia ma la colazione salutare. In un totale rovesciamento adesso promette la cosa in sé, nella sua qualità sensibile, fino a rasentare una sorta di pornografia delle merci. Wainwright è però ben lontano dalle certezze del persuasore nostrano. Si meraviglia ad esempio delle mode che emergono inopinatamente nella società, di fenomeni di massa caotici e imperscrutabili. Consumatore egli stesso e un po’ cialtrone, con il suo entusiasmo cerca prima di tutto di convincere se stesso, così come imbonisce, a suon di stereotipi sessisti, barzellette sconce, pseudo-scienza pavloviana e promesse esagerate, un cliente di Omaha.
UN MONDANO SOPRANNATURALE
Eppure, il finale di Underworld a suo modo sembra dargli ragione, allorché negli anni Novanta un cartellone del Minute Maid probabilmente ispirato dalle sue intuizioni diviene l’oggetto di un singolare culto. Una folla crescente vi si raduna davanti tutte le sere attirata dalla voce che sul manifesto appaia in certi momenti il volto di Esmeralda, una bambina di strada da poco trucidata nel Bronx. Anche la scettica Suor Edgar, travolta suo malgrado dall’entusiasmo della folla, finisce per gridare al miracolo, prima che l’evento sprofondi di nuovo fra le centinaia di leggende metropolitane. Ai suoi occhi il cartellone diviene un esempio moderno di arte sacra: «Che dispendio di fatica e tecnica, di raffinatezza — l’equivalente, pensa Edgar, dell’architettura delle chiese medievali».
Sono dunque i pubblicitari a produrre il nuovo sacro? Attraverso la rima narrativa fra due episodi collocati ad anni e centinaia di pagine di distanza, il romanzo mina la concretezza sensuale della pubblicità — non c’è polpa nel succo — accostandola alla Presenza assente per eccellenza, quella del soprannaturale. Dal sensibile si passa al sovrasensibile: come non ricordare la definizione di Marx del «feticcio» della merce, quella «cosa» tutt’altro che «triviale», «piena di sottigliezza metafisica e capricci teologici», «sensibilmente sovrasensibile»? Ecco, anche quando aspira alla concretezza dei sensi, la merce resta una «cosa» enigma–tica, non solo cosa ma segno, rappresentazione, evocazione, feticcio di una nuova religione. Ma rispetto alla battagliera ingenuità di qualche decennio fa, l’odierna credulità postmodema, come pure una secolarizzazione che tarda a realizzarsi, ci insegnano che si tratta di una fede difficile da estirpare.
Sono dunque i pubblicitari a produrre il nuovo sacro? Attraverso la rima narrativa fra due episodi collocati ad anni e centinaia di pagine di distanza, il romanzo mina la concretezza sensuale della pubblicità — non c’è polpa nel succo — accostandola alla Presenza assente per eccellenza, quella del soprannaturale. Dal sensibile si passa al sovrasensibile: come non ricordare la definizione di Marx del «feticcio» della merce, quella «cosa» tutt’altro che «triviale», «piena di sottigliezza metafisica e capricci teologici», «sensibilmente sovrasensibile»? Ecco, anche quando aspira alla concretezza dei sensi, la merce resta una «cosa» enigma–tica, non solo cosa ma segno, rappresentazione, evocazione, feticcio di una nuova religione. Ma rispetto alla battagliera ingenuità di qualche decennio fa, l’odierna credulità postmodema, come pure una secolarizzazione che tarda a realizzarsi, ci insegnano che si tratta di una fede difficile da estirpare.
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