La scoperta nasce nell'ambito del progetto Tongues of the Semang, dedicato alla mappatura delle lingue parlate dai Semang, le popolazioni pigmee che abitano nella penisola malese. Cacciatori raccoglitori appartenenti a diversi sottogruppi etnici, che spesso convivono nelle stesse aree pur mantenendo cultura, tradizioni e lingue differenti. Analizzando i risultati di queste ricerche svolte sul campo tra il 2005 e il 2011, i linguisti svedesi Joanne Yager e Niclas Burenhult si sono accorti di colpo di trovarsi di fronte a una situazione piuttosto speciale: un nucleo di circa 280 persone che abitano in un insediamento lungo il fiume Rual (nello stato malese di Kelantan) e parlano una lingua completamente differente da quella dei loro vicini, e anche da quelle parlata da altre comunità del loro stesso gruppo etnico (o presunte tali) insediate in altre zone della regione. In sostanza, una lingua tutta loro, mai scoperta in precedenza da antropologi e linguisti.
"Stavamo studiando l'insediamento e d'un tratto ci siamo resi conto che una larga parte degli abitanti parlava una lingua completamente diversa", ricorda Yager. "Usavano parole, fonemi e strutture grammaticali che non esistono nella lingua Jahai parlata dal resto del villaggio, e che suggeriscono piuttosto un legame con lingue proveniente da zone estremamente distanti della penisola". È così dunque che i due ricercatori hanno fatto la scoperta del Jedek, una lingua sconosciuta rimasta per decenni letteralmente sotto il naso degli esperti.
"Quell'area dell'Asia è la zona con la maggiore variabilità linguistica del pianeta, anche se si concentra in particolare nella vicina Papua Nuova Guinea", spiega Federico Masini, professore di Lingue e letteratura della Cina e dell'Asia sud-orientale della Sapienza di Roma. "E in zone in cui convivono tante lingue è certamente difficile tracciare il confine tra l'una e l'altra, e può capitare di fare errori o di trovarsi a cambiare idea. In ogni caso la scoperta di una nuova lingua rimane un evento raro e certamente pieno di fascino, che ci permette di osservare in modo nuovo la cultura e il pensiero di una comunità di persone".
E in effetti, all'interno delle strutture linguistiche e del vocabolario Jedek i due ricercatori svedesi hanno scoperto le radici di uno stile di vita completamente differente dal nostro. La cultura di questa popolazione Semang - spiegano - non conosce differenze di genere, non promuove la violenza né la competizione, non prevede l'esistenza di leggi, né di professioni o specializzazioni. Tutti gli abitanti del villaggio devono possedere le capacità necessarie per sopravvivere in una società di cacciatori raccoglitori, e devono essere pronti a collaborare e condividere risorse e proprietà. Abitudini che si riflettono a pieno nella loro lingua.
In Jedek infatti non esistono parole con cui definire una professione o un lavoro, né per riferirsi a tribunali, giurie o altre istituzioni dedicate a far rispettare le leggi. L'idioma non possiede verbi che facciano riferimento al concetto di proprietà, come "prestare", "rubare", "vendere" o "comprare", ma ha invece un ricchissimo vocabolario per esprimere e declinare lo scambio e la condivisione. Si tratta per questo di un'autentica finestra da cui è possibile osservare un modo di essere "umani" completamente diverso dal nostro. Tanto più importante da studiare - sottolineano i due linguisti svedesi - in un periodo, come quello attuale, in cui guerre e cambiamenti politici e culturali rischiano di far scomparire quasi metà delle lingue del mondo (quelle con un bacino di parlanti limitato con il Jedek) entro i prossimi 100 anni.
"Le lingue nascono e muoiono con le comunità che le parlano, ne riflettono il pensiero, le abitudini e le necessità", commenta Masini. "Per questo motivo parlare di conservare le lingue non ha senso, e bisognerebbe piuttosto pensare a proteggere le comunità di persone che le tengono vive. Il fatto che la lingua Jedek non possieda parole e concetti relativi alla violenza, o alla proprietà, è qualcosa che si vede in molte comunità che potremmo definire arretrate. È il pensiero che fa la lingua, ed è per questo che studiare le lingue ci aiuta a vedere meglio noi stessi e la nostra civiltà".
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