Un'atmosfera pesante, fosca, soffocante è calata sul paese, così che la gente è giù di corda e scontenta su tutto, ma, per contro, è disposta a incassare qualunque cosa senza protestare e perfino senza stupirsene. Situazione tipica dei periodi di tirannide. Il malcontento generale, considerato sempre dagli osservatori superficiali, come un indice della fragilità del potere, in realtà testimonia l’esatto contrario. Un malcontento sordo e diffuso è compatibile con una sottomissione pressoché illimitata per decine e decine di anni…». Vi sembrano parole attuali? Le ha scritte la filosofa francese Simone Weil al fratello André, forse a fine aprile 1940 (da L’arte della matematica, Simone e André Weil, Adelphi, 2018). Lei aveva 31 anni e gliene restano da vivere soltanto tre. Era nata il 3 febbraio 1909: sono 110 anni.
Un’eccentrica radicale
Se fosse stata un uomo la studieremmo a scuola. Invece, nonostante la lungimiranza e la lucidità del suo pensiero politico e la correttezza intellettuale di quelle che invece furono considerate provocazioni, è ancora considerata un’eccentrica radicale che si è lasciata morire per solidarietà con le sofferenze inflitte dal nazi-fascismo. In realtà morì di tubercolosi, anche se sfiancata dalle privazioni che si era imposta. Il punto è che non sopportava che si stesse soltanto a guardare ciò che accadeva in Europa. O che si parlasse di classi lavoratrici, standosene al caldo, nel proprio studio, tra i libri. Partì per combattere nella Guerra di Spagna (benché la sua avventura fu così disastrosa da risultare comica). Distribuì il suo stipendio ai lavoratori in sciopero quando fu, dal 1931 al 1938, professoressa di filosofia. Lavorò come operaia. Visse con niente per capire che cosa vuol dire e tenne testa a personaggi come Trotsky. Fu perseguitata come antifascista e come ebrea e dovette andare in esilio.
Il rifiuto del battesimo
Lucido ed estremamente articolato fu anche il suo pensiero religioso: rifiutò il battesimo (lei era ebrea) pur essendo vicina al pensiero cristiano. Era «disposta a morire per la Chiesa, se mai ne avesse bisogno, piuttosto che entrarvi». E Paolo VI, che l’amava molto, si lamentò sempre di non poterla fare santa poiché, appunto, non si era fatta battezzare. La verità è che sfuggiva a ogni stereotipo, a ogni sistema precostituito, scavava senza requie i paradossi della ragione. Coltissima, parlava e scriveva sanscrito e greco. Era curiosa, imprevedibile, coraggiosa, ironica: propose anche a De Gaulle di creare un gruppo di infermiere di prima linea, con lei in testa. Il generale e poi presidente francese la liquidò come una follia.
Fu Camus a salvare i suoi scritti
I suoi scritti furono raccolti e pubblicati postumi da Albert Camus. Ora, proprio in occasione dei 110 anni dalla sua nascita, va in libreria Pagine scelte, una raccolta di scritti di Simone Weil, con un saggio introduttivo di Giancarlo Gaeta, edita da Marietti 1820. Ricorda Gaeta nell’introduzione che secondo Simone Weil era fondamentale «chiarire le nozioni, screditare le parole vuote, definire l’uso delle altre attraverso analisi precise», dare espressione a un nuovo linguaggio politico che rispecchiasse i concreti bisogni fisici e morali degli individui in una società organizzata a misura dell’uomo. Marietti 1820 ha già pubblicato della Weil: I catari e la civiltà mediterranea (1996), Piccola cara… Lettere alle allieve (1998), Primi scritti filosofici (1999), La colonizzazione e il destino dell’Europa (2009), Diario di fabbrica (2015).
Contro la violenza
Per i tipi di Adelphi è uscito anche Lettera a un religioso che pone problemi attualissimi di teologia e dottrina della Chiesa. E soprattutto rivendica la continuità tra la cultura pagana, in particolare greca, e il cristianesimo. Molte delle sue osservazioni sul suo tempo appaiono attuali in modo sconcertante: sia per l’importanza attribuita al lavoro. Sia per il rifiuto della violenza. Per esempio, in un passaggio di una lettera allo scrittore Georges Bernabos (ultra nazionalista e ultra cattolico, passato poi a posizioni moderate), scriveva, ripensando alla Guerra di Spagna: «Ho avuto la sensazione che quando le autorità temporali e spirituali hanno messo una categoria di esseri umani fuori da quelli la cui vita ha un prezzo, non c’è niente di più naturale per l’uomo che uccidere. Quando si sa che è possibile uccidere senza rischio di castigo o di biasimo, si uccide o almeno si circondano di sorrisi incoraggianti coloro che uccidono. Se per caso si prova un po’ di disgusto, lo si fa tacere, e presto lo si soffoca per paura di sembrare privi di virilità. Si tratta di un allenamento, di un’ebbrezza cui è impossibile resistere senza una forza d’animo che devo credere eccezionale poiché qui non l’ho incontrata da nessuna parte. Ho incontrato invece dei Francesi pacati, che fino ad allora non disprezzavo, che non avrebbero avuto l’idea di andare li persona a uccidere, ma che stavano immersi in quell’atmosfera intrisa di sangue con un visibile piacere».
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