lunedì 28 gennaio 2019

LA FEBBRE DEL SABATO SERA E LA FINE DEGLI ANNI SETTANTA. M. PANARARI, 1977, con Tony Manero la grande fuga dagli Anni di piombo, LA STAMPA, 18 agosto 2017

Dicembre 1977, mese 1 dei dorati anni Ottanta. In America, of course , perché l’Italia stava ancora angosciosamente vivendo l’interminabile stagione della violenza politica (in quell’anno veniva ferito a morte dalle Br anche Carlo Casalegno), con il colpo di coda di creatività rappresentato dalla «fantasia (e comunicazione) al potere» di alcuni settori del Movimento. Ma dai tempi bui degli Anni di piombo e di radicalismi senza speranza c’era, anche nel nostro cortile di casa, una gran voglia di fuoriuscire, perché pure qui The times they are a-changin’ , e la metamorfosi si sarebbe rivelata assai più repentina del previsto. Solo che la colonna sonora non sarebbe stata fornita dall’allora engagé Bob Dylan, ma dai redivivi Bee Gees, con la loro Stayin’ Alive , pietra miliare del musical La febbre del sabato sera , approdato nelle sale cinematografiche americane il 16 dicembre ’77 (e sbarcato in Italia l’anno successivo).




Lo profetizzava già il «medio-man» (e «apolitico») per eccellenza, Mike Bongiorno, il quale, nel presentare l’edizione del ’79 del Festival di Sanremo, proclamava: «Stiamo tornando, me ne sono accorto negli ultimi sei mesi, a quei valori e a quegli affetti che avevamo dimenticato. Anche i ragazzi della contestazione stanno gradatamente cambiando. Vogliono ballare e divertirsi come John Travolta, sono stanchi di tirare sassi. Stiamo forse ritrovando l’unione e l’equilibrio. Ci vorrà un po’ di tempo: ma gli Anni Ottanta saranno diversi dagli Anni Settanta».
Voglia di individualismo
Insomma, qui usciva (nel ’79) Boccalone. Storia vera piena di bugie di Enrico Palandri, che esprimeva, mediante un esperimento di «collettivizzazione» dell’io narrante, la dimensione di macchine desideranti nel privato (e, quindi, di singoli) degli appartenenti a una generazione considerata immersa nel totus politicus, mentre, al di là dell’Atlantico, la voglia di individualismo (filamento del Dna nazionale statunitense) si muoveva al ritmo della disco dance. Nella nazione che l’aveva messa in costituzione, e dove il big business fiuta affari ovunque, la ricerca personale della felicità avrebbe così trovato, attraverso la Saturday Night Fever e quelle nuove cattedrali pagane che erano le discoteche, una risposta su scala «industriale» e per grandi numeri.
Come ha scritto in Il paese leggero (Laterza, 2012) il sociologo della cultura Fausto Colombo, «i segnali di quello che verrà poi chiamato “riflusso” prendevano anche in Italia le forme di un film e di una nuova vague». Di lì a poco, la «febbre del sabato sera» sarebbe salita moltissimo anche in Italia, con gli emuli di Tony Manero che si preparavano a rubare la scena agli indiani metropolitani (ai quali sarebbe stata poi scippata dall’autentica figura simbolo del decennio, lo yuppie). Il ballo si tramutava in una componente identitaria delle nuove generazioni dell’epoca, i disc-jockey acquisivano un ruolo di leadership riconosciuto e si costituiva una formazione sociale inedita, il «popolo della notte».
Non più trasgressione, ma divertimento che si fa di massa, con la sinistra, compresa quella extraparlamentare e giovanile, che si confermava in ritardo nella comprensione del fenomeno, e Lotta Continua che lanciava anatemi contro la disco-music. La strada dell’edonismo reaganiano sarebbe stata spianata proprio dai «proletari» in gilet, camicia nera aperta e pantaloni a zampa di elefante, in cerca di riscatto e rivincita sociale sulle piste, ma i frutti li avrebbero raccolti i nuovi ufficiali di complemento (chiaramente wasp) dell’economia in via di finanziarizzazione e transizione verso il neoliberismo (che le discoteche trendissime ce le avevano a Down Town, e non certo nei quartieri abitati dai figli degli immigrati).
E, infatti, la pellicola di John Badham si ispirava a un’inchiesta giornalistica che metteva a confronto le modalità di divertirsi delle classi povere metropolitane con la vita mondana dei ceti agiati e i loro club, come il celeberrimo Studio 54 di Manhattan, a cui nella fiction si contrapponeva idealmente la disco 2001 Odissey in cui si esibiva Manero. Che lavorava in un colorificio, ed era un bravo ragazzo, figlio della working class italoamericana di Brooklyn, animato dalla smania glamdi dimenticare, «per una notte e via», gli spaghetti al sugo e le polpette del desco familiare.
Re per una notte
A ben guardare, anche a lui, in qualche modo, il lavoro «faceva schifo», e si inseriva nel contesto di un cambio di paradigma nel quale i giovani rivendicavano il vitalismo sfrenato del «Vogliamo tutto», anche se in maniera alquanto differente da quella teorizzata dall’Autonomia e da Toni Negri. Era di fatto una preveggente manifestazione, in stile American way of life, del germe della disintermediazione, che rigettava la ripetitività della società fordista richiamandosi all’individualismo, una categoria anch’essa tipicamente a stelle e strisce. Chiunque si rivelasse capace di essere un fantasmagorico ballerino come Manero poteva, novello Cenerentolo, tramutarsi in «re per una notte». L’anticipazione del quarto d’ora di celebrità e dell’affermarsi della cultura del narcisismo mixati insieme.

Il film sbancò ai botteghini, e l’album contenente la colonna sonora ha venduto svariate decine di milioni di copie. Così, dall’utopia (e da certe distopie) degli Anni Sessanta e Settanta dritto alla disillusione degli Ottanta, i giorni del ballo calarono sull’Italia (li ha raccontati Paolo Morando nel suo Dancing Days, Laterza), e in tutto l’Occidente, come un meteorite sfavillante - genere i globi volteggianti dai soffitti delle disco - o una nietzscheana stella danzante. E, nel caso della pellicola, non erano lucciole per lanterne, perché la regia prendeva di petto una serie di tematiche sociali che andavano dal disagio esistenziale alle gang giovanili, dal razzismo alla droga - tanto che, nel 2010, la Biblioteca del Congresso l’ha inserito nel proprio National Film Registry per il significato storico e culturale. Che fu innanzitutto quello di avere fotografato alla perfezione lo spirito del tempo di un radicale passaggio d’epoca.

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