Giovani, iperconnessi, disoccupati. Ma soprattutto, stufi della religione. La “generazione Z” del mondo arabo condivide con i coetanei del resto del mondo le stesse preoccupazioni e abitudini: poco lavoro, costo della vita e soprattutto degli alloggi che costringe a rinviare sempre di più l’autonomia, social network onnipresenti e fonte pressoché unica di comunicazione e informazione.
Ma, rispetto ai giovani di Stati Uniti o Europa, questi ragazzi hanno un’insofferenza specifica, che riguarda il peso eccessivo delle istitutizioni religiose nei luoghi in cui vivono, ed esprimono quest’anno per la prima volta in modo netto il desiderio di limitare e riformare il ruolo delle istituzioni religiose, ritenute in gran parte responsabili dell’instabilità e dei conflitti dell’ultimo ventennio.
L’edizione 2019 dell’Arab Youth Survey - ricerca condotta dalla società di Dubai Asda’a BCW in 15 Paesi del Medio Oriente e Nord Africa (MENA), con 3300 interviste a giovani tra i 15 e i 24 anni - restituisce il quadro di una generazione di giovani musulmani che sta affrontando una svolta intellettuale profonda. “Questi diciottenni sono nati nel periodo delle stragi dell’11 settembre - nota su The National il professor Adam Ramey, della New York University di Abu Dabi, analizzando i dati - Hanno vissuto la guerra in Iraq, la guerra in Siria, le rivolte della primavera araba, ora il conflitto in Yemen. Praticamente giovani vite segnate dal conflitto. Molti di loro vogliono normalità, avere la pace, il lavoro, una buona istruzione, stabilità”. La proporzione dei giovani che ritiene troppo rilevante il ruolo della religione nella vita pubblica è passato dal 50 al 66% nel giro di un anno. La metà ritiene che “i valori religiosi del mondo arabo ne stanno bloccando lo sviluppo” e la connessione tra guerra e settarismo religioso in questo balzo è evidente, secondo gli analisti. “Non vuol dire che i giovani arabi non siano più religiosi - scrive Afshin Molavi, del John Hopkins University nel report del sondaggio - Ma chiaramente hanno perso fiducia nella governance delle istituzioni religiose e vorrebbero vedere meno religione nella governance delle loro nazioni”.
Cambiano le priorità: se la paura dell’Isis era in cima alle preoccupazioni due o tre anni fa, ora ai primi posti figurano il costo delle case (56%) e la disoccupazione (45%), mentre la grande maggioranza è insoddisfatta della qualità dell’istruzione (78%, con una buona metà che vorrebbe andare a studiare all’estero). L’unità del mondo arabo è vista come una priorità per lo sviluppo (35%), e la fine della guerra in Siria - a prescindere dalla presenza o meno di Assad - e del conflitto israelo-palestinese sono in cima ai desideri di questi ragazzi. Il sondaggio non è stato condotto in Siria (per motivi di sicurezza) e in Qatar (ancora isolato per la crisi diplomatica con i Paesi del Golfo). Molto indicativa è la percezione dei nuovi “nemici” della regione: l’avversione per gli Stati Uniti è raddoppiata dal 2016, anno di insediamento diDonald Trump alla Casa Bianca (dal 32% al 59%), mentre la Russia “forte alleato” guadagna terreno (dal 60% del 2016 al 64% oggi).
Il Paese dei desideri rimangono gli Emirati Arabi Uniti, dove il 44% dei giovani vorrebbe andare a vivere. Seguiti da Canada (che scalzano gli Usa), Turchia e Gran Bretagna. Il primato di Dubai rimane stabile negli ultimi 8 anni, e del resto l’emiro Mohammed bin Rashid Al Maktum (Big Mo per i suoi sostenitori) punta molto sull’aspetto “innovativo” del suo governo. Solo la settimana scorsa ha annunciato la creazione del ministero delle “Possibilità”, incaricato di verificare la proattività di tutto il governo, ultimo nato nella serie dei dicasteri futuristici: ministero della Gioventù, della Felicità, della Tolleranza, dell’Intelligenza artificiale. Quel che poi realmente accade nelle segrete stanze del sultanato è forse meno scintillante, come prova l’inquietante vicenda della figlia di Big Mo, Latifa, che ha più volte tentato la fuga ed è ora tenuta isolata dal mondo dalla sua stessa famiglia.
L’uso delle droghe e i problemi di salute mentale sono per la prima volta segnalati dai ragazzi come pressanti e crescenti: il 57% indica che è facile trovare droghe nella regione, e il 31% dice di conoscere qualcuno con problemi di ansia o depressione, ma denuncia un clima di stigmatizzazione sociale che impedisce ai più giovani di far emergere le proprie inquietudini.
Ma in una delle regioni più giovani del pianeta (un terzo della popolazione dell’area MENA ha meno di 15 anni e un ulteriore quinto è tra i 15 e i 24 anni) è inevitabile che la tecnologia stia rapidamente modificando cultura e abitudini. Iperconnessi, aggiornati sulle novità tecnologiche - soprattutto nei Paesi arabi più ricchi - la generazione Z del mondo arabo è sempre più aperta alla socializzazione digitale.
L’e-commerce ha avuto un balzo nell’ultimo anno (dal 53 al 71% ne fa uso, soprattutto per abbigliamento, cibi preparati ed elettronica), ma sono i dati sull’uso dei social a risaltare. Dal 2015, i ragazzi che dicono di informarsi sui social (Facebook e Twitter) sono passati dal 25 all’80%, e sempre più ritengono queste fonti attendibili (60%, più 37% dal 2015). Anche la fiducia nei media tradizionali è comunque in crescita, seppur inferiore (55%, più 25%). Il canale privilegiato di comunicazione - sia come fonte di notizie che come condivisione - è senz’altro YouTube. Secondo la ricerca dell’Università dell’Oregon sullo stato dei social media in Medio Oriente, il canale video di Google è aumentato del 160% negli ultimi 3 anni nell’area MENA. Oltre 200 canali YouTube hanno più di un milione di iscritti, e ogni giorno oltre la metà dei giovani della regione guarda almeno una volta un video. Per incrementare il giro d’affari, Google ha aperto l’anno scorso uno spazio YouTube a Dubai dove i giovani creatori con rispettabili numeri di iscritti possono accedere gratuitamente a studi di montaggi, corsi di aggiornamento, conferenze. In Arabia Saudita, YouTube ha scalzato Facebook come primo social (23,62 milioni di utenti attivi contro i 21,65 del social di Mark Zuckerberg). Ma in compenso Facebook non conosce qui la crisi tra i giovani che sta sperimentando negli Usa o in Europa: il 61% dei ragazzi dichiara di usarlo più spesso dell’anno precedente. L’Egitto, il Paese più popoloso della regione, si afferma come il mercato principale di Facebook, con 24 milioni di utenti al giorno.
Ma anche in questo caso il contrasto tra la realtà dei ragazzi e quella dei loro Paesi è forte: il rapporto tra le grandi piattaforme social e i governi rimane conflittuale. In alcuni casi sono costretti all’autocensura, come accaduto con i video che provavano gli attacchi chimici a Douma, roccaforte della ribellione anti Assad in Siria, rimossi un anno fa da Youtube tra le proteste della comunità internazionale. O ancora possono essere usati dai governi per monitorare e censurare le attività dei cittadini: gli Emirati Arabi Uniti hanno operato una serie di espulsioni sulla base di post su Facebook ritenuti troppo critici del governo o contrari alle leggi, persino nel caso di una raccolta di beneficenza. E in Egitto una legge che equipara gli account social, i blog e i siti con oltre 5000 follower ai media ha permesso di estendere ai social l’applicazione della regolamentazione di sorveglianza prevista per i giornali e le tv.
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