due impostori.
Occorre smettere di scontrarsi con essi,
non hanno alcuna importanza:
nessuno fallisce per davvero
e nessuno ha così tanto successo.
[Jorge Luis Borges, Non c’è nessuno allo specchio].
Ho cercato di essere una brava persona, ho commesso molti errori, ho fatto molti tentativi,
ho cercato di darmi un senso e uno scopo usando le mie risorse, di fare del malessere un’arte.
[…] Sono stufo di fare sforzi senza ottenere risultati, stufo di critiche,
stufo di colloqui di lavoro come grafico inutili, stufo di sprecare sentimenti e desideri […], stufo di invidiare,
stufo di chiedermi cosa si prova a vincere, di dover giustificare la mia esistenza senza averla determinata,
stufo di dover rispondere alle aspettative di tutti senza aver mai visto soddisfatte le mie,
stufo di fare buon viso a pessima sorte, di fingere interesse, di illudermi, di essere preso in giro,
di essere messo da parte e di sentirmi dire che la sensibilità è una grande qualità.
Tutte balle […] Da questa realtà non si può pretendere niente. Non si può pretendere un lavoro,
non si può pretendere di essere amati, non si possono pretendere riconoscimenti,
non si può pretendere di pretendere la sicurezza, non si può pretendere un ambiente stabile. […]
È un incubo di problemi, privo di identità, privo di garanzie,
privo di punti di riferimento, e privo ormai anche di prospettive.
Non ci sono le condizioni per impormi, e io non ho i poteri o i mezzi per crearle. […]
Non posso passare la vita a combattere solo per sopravvivere,
per avere lo spazio che sarebbe dovuto, o quello che spetta di diritto,
cercando di cavare il meglio dal peggio che si sia mai visto per avere il minimo possibile.
Io non me ne faccio niente del minimo, volevo il massimo, ma il massimo non è a mia disposizione.
Di no come risposta non si vive, di no si muore.
[Michele (2017)].
Occorre smettere di scontrarsi con essi,
non hanno alcuna importanza:
nessuno fallisce per davvero
e nessuno ha così tanto successo.
[Jorge Luis Borges, Non c’è nessuno allo specchio].
Ho cercato di essere una brava persona, ho commesso molti errori, ho fatto molti tentativi,
ho cercato di darmi un senso e uno scopo usando le mie risorse, di fare del malessere un’arte.
[…] Sono stufo di fare sforzi senza ottenere risultati, stufo di critiche,
stufo di colloqui di lavoro come grafico inutili, stufo di sprecare sentimenti e desideri […], stufo di invidiare,
stufo di chiedermi cosa si prova a vincere, di dover giustificare la mia esistenza senza averla determinata,
stufo di dover rispondere alle aspettative di tutti senza aver mai visto soddisfatte le mie,
stufo di fare buon viso a pessima sorte, di fingere interesse, di illudermi, di essere preso in giro,
di essere messo da parte e di sentirmi dire che la sensibilità è una grande qualità.
Tutte balle […] Da questa realtà non si può pretendere niente. Non si può pretendere un lavoro,
non si può pretendere di essere amati, non si possono pretendere riconoscimenti,
non si può pretendere di pretendere la sicurezza, non si può pretendere un ambiente stabile. […]
È un incubo di problemi, privo di identità, privo di garanzie,
privo di punti di riferimento, e privo ormai anche di prospettive.
Non ci sono le condizioni per impormi, e io non ho i poteri o i mezzi per crearle. […]
Non posso passare la vita a combattere solo per sopravvivere,
per avere lo spazio che sarebbe dovuto, o quello che spetta di diritto,
cercando di cavare il meglio dal peggio che si sia mai visto per avere il minimo possibile.
Io non me ne faccio niente del minimo, volevo il massimo, ma il massimo non è a mia disposizione.
Di no come risposta non si vive, di no si muore.
[Michele (2017)].
Nel saggio intitolato “Non ricominciamo la guerra di Troia” – scritto negli anni tra i due conflitti mondiali, e con sullo sfondo il tragico clamore della guerra civile spagnola –, Simone Weil si faceva beffe del modo in cui il campo progressista pretendeva spiegare quel copioso tributo di vita che intere generazioni hanno ostinatamente continuato a offrire alla morte attraverso la loro partecipazione in massa alle guerre.
La scorciatoia materialista imboccata allora da una parte delle sinistre a quello scopo, ricorreva spesso, in modo esplicito o implicito, alla famosa massima pronunciata dallo scrittore Anatole France, secondo cui: “si crede di morire per la patria, e invece si muore per gli industriali”. A ragione, la filosofa francese riteneva questa una semplificazione finanche troppo ottimistica della realtà storica, perché, a ben vedere, sovente le classi subalterne affrontano la morte «neanche per qualcosa di sostanziale e tangibile come un industriale»[1]! Piuttosto, l’evidenza ci indica che sempre più spesso «agiamo, lottiamo, sacrifichiamo noi stessi e gli altri in virtù di astrazioni cristallizzate, isolate, impossibili da mettere in rapporto tra loro o con le cose concrete. La nostra epoca sedicente tecnica non fa che lottare contro i mulini a vento»[2].
Weil ha chiamato “entità” queste esiziali astrazioni che si affermano con prepotenza, in materia sociale e politica, a partire soprattutto dai primi decenni del XX secolo, e che possono indurre gli individui e i gruppi sociali persino al più estremo sacrificio in ara di lemmi e formule effettivamente inconsistenti. Più in particolare, per la pensatrice, sono «entità avide di sangue umano»[3] quelle «parole assassine», «ornate di maiuscole»[4] o «terminanti in -ismo»[5] che: mentre, da una parte, per loro natura, animano il più terribile tipo di guerra, quella che tende a essere illimitata – in ragione dell’«assenza di un obiettivo definito»[6] e di «una misura comune»[7] del contendere tra le parti –; dall’altra, si fanno anche responsabili «di vanificare le lotte più ardue» per la giusta emancipazione dei soggetti oppressi. Infatti, quelle entità compiono il qui pro quo attraverso cui queste lotte vengono risucchiate entro forme di «conflitto rovinoso», e fatte degenerare in espressioni sanguinose e assurde come la «guerra tra nazioni»[8].
Secondo la filosofa francese, «tutto il clima intellettuale della nostra epoca favorisce il fiorire e il dilagare»[9] di siffatte entità, soprattutto perché, a partire dai primi decenni del XX secolo, la società sembra aver perduto, pressoché in ogni ambito, la capacità di applicazione delle nozioni essenziali dell’intelletto: «quelle di limite, misura, grado, proporzione, relazione, rapporto, condizione, legame necessario, connessione tra mezzi e risultati»[10]. Ciò è grave non solo in quanto segno del fatto che la «civiltà attuale nasconde dietro un apparente splendore uno stato di vero e proprio decadimento intellettuale»[11], ma soprattutto in ragione dei massicci effetti addirittura mortiferi che tale condizione produce sui più deboli. Infatti, se solo «tutte le parole, tutte le formule che nel corso della storia umana hanno suscitato lo spirito di sacrificio e insieme crudeltà» venissero esaminate usando il criterio che le nozioni essenziali enumerate sopra forniscono, «si scoprirebbe che [quelle] sono tutte ugualmente vuote»[12]. Eppure la loro micidiale capacità omicida deve presupporre qualche forma di «rapporto con la vita reale. E in effetti uno ce l’hanno»: così come dietro l’insensata parola “nazione” vi sono «i diversi Stati, i loro uffici, le loro prigioni, i loro arsenali, le loro caserme e dogane[, che] sono reali», allo stesso modo, dietro tutte le altre «parole chiave prive di contenuto […] sono schierate delle vere e proprie organizzazioni. A ogni astrazione vuota corrisponde un gruppo umano»[13].
Dunque, se agli occhi acutissimi di Simone Weil, in essenza, i motivi sociali dei massacri di cui è consistita la mitica guerra di Troia non risultano affatto dissimili da quelli degli stermini industriali e di massa che, su scala intercontinentale, si erano già consumati o si preparavano durante la prima metà del XX secolo (e poi anche oltre); difronte alle carneficine che, assumendo vecchie e nuove forme, succedono e dilagano ai nostri giorni, a chi o cosa dobbiamo attribuire il ruolo giocato nell’antica Grecia da Elena? Qui assumeremo che le condizioni di validità dell’analisi di Weil – che fa leva sulla considerazione della potentissima capacità mortifera degli improvvidi mulini a vento che si affermano, e vengono usati, in ogni epoca, per macinare vecchi e nuovi modi e forme di sfruttamento e alienazione fino alla morte – perdurano fino ai nostri giorni. Di più, esse si presentano oggi in formule addirittura esacerbate, in ragione dei processi in atto di digitalizzazione sostenuta di tutti gli aspetti, tendenzialmente, dell’esistenza umana[14]. Inoltre, la loro importanza nell’attualità va rilevata non solo in relazione alle evidenze più lampanti che le richiamano: da una parte, l’allarmante ritorno di fiamma, al centro e ai margini delle società occidentali, di pratiche sociali, politiche e istituzionali di natura discriminatoria e violenta, e in taluni casi d’ispirazione apertamente nazi-fascista; dall’altra, gli inquietanti scenari di sviluppo, su un piano internazionale ben più largo, delle situazioni critiche di belligeranza che già a fatica rimangono confinate all’interno delle scale regionali o macro-regionali entro cui esse ancora si dànno. Piuttosto, gli elementi di importanza di quella analisi rilevano soprattutto in relazione ai modi già effettivi e diffusi in cui più nuove astrazioni cristallizzate e lemmi assassini suscitano lo «spirito di sacrificio e insieme crudeltà» a manifestarsi con ricorrenza sempre più sistematica lungo gli strati bassi e comuni delle società contemporanee, sino ad assumere le tragiche fattezze delle stragi su piccola scala, consistenti dei suicidi individuali e dei suicidi omicidi.
Ridefinendo, quindi, da questo specifico angolo visuale la nostra tesi qui, diremo che: nella fenomenologia contemporanea del suicidio, dal nostro punto di vista, vanno rintracciate alcune delle forme più peculiari ed emblematiche del modo in cui oggi le lotte politiche e materiali più ardue – parafrasando Weil –, lungi dallo scomparire, o dal rimanere semplicemente latenti e inespresse, piuttosto degenerino in inedite modalità rovinose e assurde di conflitto; altresì, che queste assumono la foggia storica adeguata alle nuove “entità” o “vuote astrazioni” [15] che, in modo più o meno diretto, le motivano e le alimentano, finendo con l’assumere prevalentemente la consistenza del crudele sacrificio di sé stessi e degli altri, consumato in ara alle specifiche forme e dinamiche attuali del potere, attraverso le diverse espressioni – latenti o manifeste, a bassa o alta intensità – dell’autolesionismo e del cinismo diffusi estesamente per tutto il corpo della società; infine, che le attuali fattezze, qualità e dimensioni del nuovo processo di incanalamento e distrazione di quelle energie individuali e sociali dalle polarità positive a quelle negative, sta già prosciugando in misura critica la fonte di cui si è nutrita, segnatamente, tutta la storia dei fenomeni politici collettivi per l’emancipazione, con effetti determinanti e duraturi rispetto alle sorti e agli esiti della dinamica della conflittualità sociale.
In definitiva, così come a catalizzare i copiosi tributi di vita in massa alla morte, tipici dell’epoca a cui si riferisce Simone Weil, erano le astrazioni vuote della nazione, della razza e della classe rivoluzionaria, le “entità assassine” che animano le carneficine a più piccola scala dei nostri giorni sembrano essere, innanzitutto, quelle che compongono l’architettura del neoliberismo e il suo vocabolario apparentemente progressista, inclusivo e democratico, dietro cui giocano un ruolo determinante le organizzazioni dei gruppi sociali dominanti gli assetti del capitalismo contemporaneo. Ancora, così come già a fronte dell’affermazione e del dispiegamento pressoché mondiale di quella che Karl Polanyi chiamava la «grossa utopia» catastrofica del liberalismo di matrice britannica del XIX secolo – che avrebbe teso ad «annullare la sostanza umana e naturale della società», «distrutto l’uomo fisicamente e […] trasformato il suo ambiente in un deserto» –, sono inevitabilmente insorte esasperate e violente «misure per difendersi» da parte dei gruppi sociali, ma che hanno messo «così in pericolo la società in un altro modo»[16]; similmente, il drammatico trionfo della ancor più ficcante e totale “utopia” neoliberista nella nostra epoca, sta già producendo, conformemente alla sua natura, e a livello pressoché globale, i suoi micidiali effetti letali, diretti e indiretti. Solo che: mentre La grande trasformazione polanyiana si è consumata in un’epoca caratterizzata (e forse finanche esaltata) dalla piena consapevolezza politica della elevata intensità storica dei complessivi processi sociali allora in atto, la nostra fase si svolge invece all’interno di un paradigma intellettuale diffuso quanto lo è il senso comune, e nei fatti deprimente, la cui cifra distintiva sembra essere piuttosto la fine della storia proclamata da Francis Fukuyama.
In effetti, secondo Fisher, la frase che meglio esprime la categoria mentale oggi imperante, che egli efficacemente ha denominato «realismo capitalista», è quella attribuita ora a Fredric Jameson, ora a Slavoj Žižek, secondo cui nel nostro tempo sarebbe «più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo». Difatti, tale formulazione estrinseca quella sensazione così tanto estesa ai nostri giorni secondo cui l’attuale sarebbe «non solo […] l’unico sistema politico ed economico oggi percorribile, ma che sia impossibile anche solo immaginarne un’alternativa coerente» a esso[17]. Perché il capitalismo reale «semplicemente occupa tutto l’orizzonte del pensabile» essendosi «sedimentato nel nostro inconscio»[18]. Ora, a partire dalle circostanze effettive su cui riflettiamo in questo studio, è evidente che quella frase si carichi per noi di significati ancora più pregnanti. Infatti, essa perde ogni tratto caratteristico dell’astratta iperbole provocatoria e diventa letteralmente vera, semplicemente spostando l’attenzione dal piano delle generiche percezioni che costringono l’orizzonte del senso comune contemporaneo, su quello dei gesti concretamente messi in atto dalle persone: allorquando, cioè, la fine del mondo – che quella frase giudica essere oggi più facilmente possibile rispetto alla fine del capitalismo – smette di essere soltanto la polemica allusione alla smargiassata dell’apologeta del neoliberismo, per diventare la figura retorica della sempre più larga vocazione dei soggetti alla effettiva distruzione del mondo per sé e per gli altri, attraverso le forme del suicidio e del suicidio omicida, piuttosto e invece che alla lotta solidale contro il capitalismo. Com’è stata possibile l’affermazione storica di un tale devastante paradosso?
Nell’introduzione all’edizione italiana di un loro importante testo, Pierre Dardot e Christian Laval si domandano come sia possibile che le politiche che hanno caratterizzato l’ultimo terzo di secolo di regime neoliberista «si siano sviluppate e approfondite senza aver incontrato resistenze sufficienti a metterle in crisi»[19]. La risoluzione che essi propongono a tale enigma si basa sulla constatazione del fatto che, a dispetto della vulgata critica troppo spesso in voga, in realtà il «neoliberismo non è semplice distruzione regolativa, istituzionale, giuridica, [ma] è almeno altrettanto produzione di un certo tipo di relazioni sociali, di forme di vita, di soggettività». Lungi dall’essere la mera riproposizione del liberalismo ottocentesco nella nostra epoca, quello è in vero La nuova ragione del mondo – come recita il titolo del loro libro.
«Detto altrimenti, con il neoliberismo ciò che è in gioco è né più né meno la forma della nostra esistenza, cioè il modo in cui siamo portati a comportarci, a relazionarci agli altri e a noi stessi. Il neoliberismo definisce una precisa forma di vita nelle società occidentali e in tutte quelle società che hanno intrapreso il cammino della presunta modernità. Questa norma impone a ognuno di vivere in un universo di competizione generalizzata, prescrive alle popolazioni di scatenare le une contro le altre una guerra economica, organizza i rapporti sociali secondo un modello di mercato, arriva a trasformare perfino l’individuo, ormai esortato a concepire se stesso come un’impresa. Da pressoché un terzo di secolo, questa norma esistenziale presiede alle politiche pubbliche, governa le relazioni economiche mondiali, trasforma la società e rimodella la soggettività»[20].
Il nostro convincimento è che tale impostazione della questione è tanto vera ed esatta, quanto invece malfermo è l’assunto implicito nella domanda di partenza. In effetti, agli occhi di chi negli ultimi lustri ha atteso un ritorno della conflittualità sociale nelle modalità in cui questa si era manifestata nel Novecento, l’ascesa del neoliberismo e la propagazione globale dei suoi micidiali effetti è coincisa con un paradossale processo di relativo assopimento delle lotte, e/o di indebolimento della loro intensità ed efficacia.
Nondimeno, la tesi più generale che anima le pagine di questo saggio sostiene, invece, che il conflitto sociale che ha attraversato la fase di ascesa, affermazione ed espansione mondiale del neoliberismo sia stato in vero violentissimo ed esteso; ma che esso, proprio in ragione delle caratteristiche storiche di cui consiste la nuova irragionevole ragione del mondo, abbia assunto principalmente la forma del gesto suicidale profuso su scala globale; e quindi, che ciò abbia contribuito decisamente alla determinazione dei concreti rapporti di forza e potere che hanno caratterizzato la storia politica di questo periodo.
Infatti, proprio perché il neoliberismo è in grande misura norma esistenziale generalizzata e modo di produzione specifico della nostra soggettività; proprio perché i suoi effetti di potere consistono del nostro modo di comportarci quotidiano, e per questa via camminano per il mondo sulle nostre gambe; proprio perché, in definitiva, esso è la nostra precisa forma di vita e il nostro corrente senso comune incarnato, la modalità di resistenza adeguata a tali condizioni, e da esse indotta, non ha potuto risolversi che in forme di conflittualità fattesi propriamente esistenziali e autodistruttive che, all’estremo limite, arrivano a consistere del sacrificio di sé consumato attraverso il suicidio effettivo, ed eventualmente anche del suo complemento di crudeltà risultante nell’omicidio degli esseri umani più prossimi. Difatti, rotte le usitate figure del legame sociale e dei rapporti produttivi, e svuotati di senso ed efficacia i corrispondenti schemi della socializzazione politica e dell’azione rivendicativa, ciò che la pars destruens del processo di affermazione del neoliberismo ha lasciato nel paesaggio umano globale assume le fattezze di un deserto popolato da individui che: da una parte, sono indotti a percepire gli altri, e i legami con essi, come un peso ingiustificabile, come i proiettori e gli amplificatori dei propri insuccessi, e finanche come l’incarnazione della costante insidia derivante dalla pletora di concorrenti, controparti e nemici che funzionalmente correda la posizione pressoché di ciascuno oggi nel mondo; e che dall’altra, quindi, sono costretti a fronteggiare da soli, ciascuno per sé e quasi senza più pronti ripari, la fitta trama dei dispositivi di potere, ormai attrezzata su scala globale e virtualmente ubiqua. D’altronde, ciò che la pars construens di questa dinamica ha impiantato fisso davanti agli occhi dei soggetti è uno specchio convesso da cui si dipartono migliaia di linee di incidenza, che, mentre accompagna lo svolgimento incessante del tessuto ipertrofico delle relazioni mediali di cui consiste la socialità contemporanea, nello stesso tempo accorcia la prospettiva dello sguardo soggettivo, facendola ripiegare su sé stessa. Come il fenomeno oggi in voga degli autoscatti fotografici o selfie esemplifica in modo prepotente e plastico, fissando gli occhi al centro di questa immagine a specchio, ciascun individuo ottiene pressoché solo la figurazione ingrandita e deforme delle sue proprie qualità, dei suoi immediati interessi e delle sue movenze singolari. In effetti, tale particolare gesto fotografico sbalza prepotentemente questi elementi al centro della scena; e così facendo: mentre svela e fissa quanto più precisamente sia possibile i tratti psico-emotivi e somatici contingenti del soggetto auto-ritratto, ne riduce al contempo a scale inverosimili il rapporto con il mondo circostante. Infatti, in misura proporzionale al fatto che a questo modo il reale degrada allo stato di marginale cornice, e di sfondo occultato dietro le smorfie del volto; quest’ultimo, ora, diviene ri-tratto nel senso letterale dell’essere tirato fuori e catturato dal mondo a cui appartiene due volte: una prima facendo astrazione del tempo, bloccato dallo scatto; e una seconda facendo astrazione dello spazio concreto, estraniato dalla carambola autoriflessiva dello sguardo.
La struttura di questa meccanica ottica diventa così, al contempo, ambito di scaturigine, espressione e strumento di una soggettività continuamente auto-consapevole, diligentemente tutrice di sé stessa e quindi capace dell’incessante sforzo di perfezionamento delle proprie prestazioni nella società trasformata in un mercato animato dai fattori di una competizione senza tregua, tanto da divenire guerra economica generalizzata. Per questa via, il neoliberismo funziona soprattutto come un poderoso meccanismo di auto-legittimazione diffusa delle dinamiche capitalistiche, che agisce attraverso il continuo sminuzzamento della teoria dei meriti, delle colpe e degli effetti delle disfatte e dei successi, e sortendo quindi la radicale depoliticizzazione di tutte le relazioni sociali e dei loro casi complessi. Insistendo direttamente sull’impulso vitale dei singoli, e stabilendo il centro di invocazione e veridizione della loro giusta collocazione sociale nelle dinamiche “aperte” del mercato delle opzioni, delle opportunità e delle prestazioni, la meccanica neoliberale costringe le vicissitudini del vissuto di ciascun soggetto entro l’orizzonte angusto delle responsabilità esclusivamente personali. In queste condizioni, ogni ricerca volta alla ricostruzione della catena dei meriti e delle colpe degli accadimenti finisce per interrompersi nel fondo e al centro dello specchio della coscienza neoliberale, ove essa, in luogo di un nemico altro ed esterno su cui scagliarsi, si ritrova e imbatte nel volto stesso di chi la intenta. Questi diventerà, quindi, il beneficiario della promozione o il bersaglio contro cui muovere il conflitto, il soggetto e l’oggetto al contempo della ricompensa o della sanzione. È così che alla celebrazione clamorosa che il nostro tempo riserva agli start-uppers di ogni sorta, protagonisti dei pochi e transitori casi di intraprendenze di successo, incensati in quanto fattisi da sé attraverso l’innovazione e la competizione, corrisponda il contraltare silenzioso e disperato dei sempre più tanti che quotidianamente da sé si sfanno nel tormento della depressione, del fallimento esistenziale e del gesto propriamente suicidale.
In definitiva, il fenomeno di profusione globale del suicidio rappresenta la forma residua, radicalissima e violenta, del conflitto sociale nell’epoca neoliberista. Ipotizziamo che questa particolare dimensione del fenomeno del suicidio si manifesti con maggiore forza proprio laddove l’architettura del potere si è talmente infittita e perfezionata – sviluppandosi secondo ritmi e modi assai più veloci ed efficaci rispetto a quelli delle nuove e adeguate istanze di resistenza positiva che stanno contemporaneamente emergendo e attrezzandosi – da precludere ai soggetti intrappolativi qualunque prospettiva di riscatto mediata dal conflitto e dall’esodo, eccetto quella residuale, sempre disponibile, della violenza autoinflitta fino all’abbandono della vita. In particolare, sulla base della ricerca, delle elaborazioni e dell’analisi dei dati effettuate – che abbiamo ricavato e sviluppato innanzitutto a partire da una sistematica rassegna degli articoli di stampa sul tema –, tale ipotesi sembra trovare specifico riscontro nei casi della digitalizzazione della esistenza delle più giovani generazioni; della finanziarizzazione della vita individuale e collettiva di intere comunità, soprattutto contadine; del confinamento nelle banlieue e nelle carceri delle classi pericolose “assemblate” dalle politiche di controllo delle popolazioni metropolitane eccedenti; dell’esercizio dello strapotere militare attraverso l’uso dei bombardieri e dei droni omicidi – telecomandati da hangar situati a migliaia di chilometri di distanza dalle zone bersaglio delle azioni[21] –, contro gli abitanti dei fuochi nevralgici della contesa geopolitica.
In tutti questi ambiti di manifestazione, il suicidio appare come la forma residua negativa del conflitto sociale, non soltanto nel senso certo che esso si dà con più forza soprattutto in condizioni soggettive di assenza di occasioni positive di lotta per l’emancipazione; ma altresì perché quello di queste è strumento di inibizione, depotenziamento e mortificazione strutturale. In definitiva, il suicidio, nella misura in cui è fenomeno consistente anche delle pratiche governamentali da cui oggi è attraversato, si configura pure come la specifica forma residua di negazione del conflitto sociale. È sotto questo aspetto che il sistema onnintegrante, che è il capitalismo neoliberista, lo ingaggia, mettendolo a valore e all’opera: innanzitutto, il suicidio è il più estremo dispositivo di depoliticizzazione delle questioni sociali, rappresentando la valvola di sfogo più sicura per le tensioni psichiche ed emotive più comuni che altrimenti potrebbero coagularsi, politicizzarsi ed esplodere in pratiche sociali di lotta. Inoltre, esso funge da istanza di frammentazione, ripiegamento individuale e mortificazione, una vita per volta, dell’energia sovversiva più ardimentosa. Ancora, esso è monito sconcertante per i “superstiti”, che atterrisce e conforta, ammonisce e induce alla rassegnazione, nella misura in cui, da una parte, proietta l’ombra dello stigma della follia su ogni loro moto di esasperazione e di insofferenza, e dall’altra sottopone ciascuno a una minaccia di morte. A ragione, Weil considera questa «in ultima analisi la sanzione suprema di ogni organo di autorità» – e ciò, evidentemente, deve valere anche rispetto a quella che ciascuno esercita su sé medesimo –, che è tanto efficace perché è in grado di far «diventare più arrendevole della materia inerte»[22] chi la subisca anche solo sotto forma di evocazione. Infine, il suicidio viene anche assunto come lo spunto per spalancare e strutturare un nuovo ambito discorsivo a partire dal quale più generali e importanti effetti di potere sono prodotti.
A quest’ultimo proposito, è interessante stabilire qui un parallelo rispetto ai termini con cui Michel Foucault definisce la consistenza e l’operatività procedurale della «politica del corpo». In un’intervista rilasciata nel 1976, e pubblicata nel testo Microfisica del potere, egli la descrive come un mosaico molto ingarbugliato. In certi periodi, appaiono degli agenti che svolgono una funzione di connessione… Prendiamo l’esempio della filantropia all’inizio del XIX secolo: della gente che si mette ad occuparsi della vita degli altri, della loro salute, dell’alimentazione, dell’alloggio… Più tardi da questa funzione confusa son venuti fuori dei personaggi, delle istituzioni, dei saperi… un’igiene pubblica, degl’ispettori, delle assistenti sociali, degli psicologi. Ed oggi, si assiste ad una proliferazione di categorie di lavoratori sociali… Naturalmente, la medicina ha svolto il ruolo fondamentale di denominatore comune… Il suo discorso passava dall’uno all’altro. È in nome della medicina che s’andava a vedere com’erano installate le case, ma è anche in suo nome che si classificava un pazzo, un criminale, un malato… Ma c’è – nei fatti – un mosaico molto vario di tutti questi “lavoratori sociali” a partire da una matrice confusa come la filantropia… Quel che è interessante [… è] vedere in termini di strategia come i pezzi si sono messi insieme[23]
Sviluppandosi lungo questa stessa falsa riga, al suo punto estremo e terminale, il fenomeno suicidale sembra rappresentare una delle nuove e più rilevanti frontiere attraverso cui la politica del corpo, e l’architettura del potere tout court, si ridefinisce ai nostri giorni. Esso costituisce, infatti, ambiti e occasioni di attivazione di discorsi e pratiche di premura da parte di una serie di attori istituzionali e non, che in nome delle strategie di prevenzione e della cura dei soggetti, vieppiù giustificano l’intromissione di meccanismi di estrazione di informazioni e di procedure di intervento, veicolano la formazione di saperi specifici e di figure professionali funzionali al più complessivo governo della realtà sociale. Di ciò rappresentano chiari esempi – che meriterebbero spazi di approfondimento che questo testo non può offrire – la serie di programmi che ricade sotto il più ampio ombrello delle iniziative promosse dall’OMS o, più specificatamente nel nostro contesto continentale, dall’Unione Europea; o ancora il caso, altrimenti bizzarro, delle campagne di prevenzione contro il jihadismo portate avanti in Francia dopo la serie di attentati suicidi/omicidi del 2015, anche attraverso l’istituzione in tutta fretta dei cosiddetti centri di deradicalizzazione, molto presto dichiarati falliti[24].
D’altronde, spostando il ragionamento su un piano di comparazione storica, va notato come il suicidio assuma oggi la stessa valenza che la pubblica gogna assolveva nell’epoca del potere che lo stesso Foucault ha denominato “classica”. Seguendo il filo logico sotteso alla retorica dominante, ci troviamo difronte a un paradosso effettivo, altamente emblematico: come allora, è ancora il sovrano a organizzare e inscenare questo dispendioso spettacolo esemplare di dominazione sui corpi che è il suicidio, al cospetto del pubblico – verso cui primariamente ogni pena, in vero, è diretta. Salvo constatare che la figura del sovrano oggi consiste appunto dell’individualità, principio motore di ogni esercizio di potere, e categoria epistemica della soggettività che – come già rilevato – costituisce la vera matrice storica del neologismo tutto moderno che è la parola “suicidio”.
Al disopra del denso livello profondo sopradescritto, quindi, quello aperto attorno a questo gesto diventa complessivamente uno dei campi discorsivi strategici in cui si stanno giocando i processi di significazione e legittimazione dei principi fondamentali del neoliberismo conservatore – che sui corpi dei suicidi, degli uccisi e dei terrorizzati, già si vede marciare di gran carriera. Da una parte, la celebrazione dell’individualismo più radicale, libero finanche di giocare con i più sofisticati strumenti industriali di morte, purché profitto sia: accumulando nelle soffitte di casa interi arsenali militari, o adendo i segmenti più elevati del mercato della cura ove acquistare la merce salvifica del suicidio assistito legalizzato. Dall’altra, l’approntamento di fittissimi e invisibili reticoli di tutela di queste individualità poderose e fragili, che la statistica rivela essere esiziali per sé e per gli altri, da conficcare fin negli strati più reconditi della psicologia e della genetica dei soggetti. Ciò avviene promuovendo una precisa direzione di sviluppo degli strumenti digitali di cattura sistematica e di analisi stocastica delle più minuziose informazioni personali; di elaborazione di interfacce per la diagnosi e la gestione standardizzata e automatica degli stati emotivi e psicologici dei soggetti in crisi[25]; nonché investendo sulla elaborazione di modelli e algoritmi di predizione delle condotte e di disposizioni eccezionali di anticipazione dei loro effetti – che, significativamente, negli ultimi anni sono diventati realtà affermate, e in via di rapida espansione, nei campi della finanza, del commercio elettronico e dell’intelligence militare-poliziesca[26].
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