Nel confrontarci con l’ultimo libro di Massimo Recalcati, “Le nuove melanconie. Destini del desiderio nel tempo ipermoderno” (Raffaello Cortina, 2019, € 19,00), non neghiamo di aver avvertito in principio alcune resistenze. L’autore è molto noto e la sua marcata esposizione mediatica può elicitare reazioni automatiche (di ammirazione o di diffidenza) che rischiano di invalidare un esame equilibrato dei contenuti trattati nell’opera. Inoltre, visti i risvolti sociali del tema in questione, non è stato facile mettere tra parentesi lo scarto che esiste tra le nostre rispettive posizioni politiche. Ecco perché abbiamo preso tra le mani il suo nuovo lavoro con un misto di eccitazione e titubanza. Va detto, a scanso di equivoci, che Recalcati, prima ancora di essere una star della cultura italiana, è un ottimo scrittore e uno studioso capace di comunicare in maniera coinvolgente, anche a un pubblico generalista, i concetti chiave della psicoanalisi (soprattutto di taglio lacaniano). Le antipatie che ha saputo suscitare in certi ambienti “critici” forse non sono del tutto innocenti e risentono di una polarizzazione istintiva che si genera ogni qual volta un intellettuale conquista in maniera indiscutibile le luci della ribalta. Il volume di cui stiamo per parlare è profondo e ispirato, un libro necessario che arricchisce la letteratura, non proprio fiorente, sugli intrecci tra psiche e storia, inconscio e politica. Qui offriamo modestamente le nostre prime impressioni, delle riflessioni a caldo su un testo che segnerà probabilmente il dibattito contemporaneo sulla sofferenza mentale ed esistenziale ai tempi del capitalismo finanziario e dei sovranismi populisti. Abbiamo scelto, comunque, di mettere in tensione il discorso dell’autore, evidenziandone lacune e potenzialità degne di ripresa e ulteriori sviluppi.
Il legame incestuoso con l’oggetto-Cosa e un lutto difficile da elaborare
Recalcati torna sul luogo del delitto e si interroga, dopo lavori importanti come “Clinica del vuoto. Anoressie, dipendenze e psicosi” (Franco Angeli, 2002) e “L’uomo senza inconscio. Figure della clinica psicoanalitica” (Raffaello Cortina, 2010), sui nuovi sintomi e sul disagio psichico che caratterizzano la storia occidentale contemporanea, dominata sul piano concreto e immaginario dal cosiddetto “discorso del capitalista” (Lacan). Il desiderio umano, per l’autore, impatta con una particolare configurazione socioeconomica che, nell’arco di mezzo secolo, ha liquidato la vecchia etica del lavoro e del risparmio scatenando una pulsionalità acefala funzionale all’affermazione ubiquitaria del consumismo. L’incipit del nuovo libro è assai impegnativo, e vale la pena di riportarlo per esteso: «Il secolo della grande paranoia è alle nostre spalle. I cimiteri generati dal delirio di massa delle ideologie totalitarie appartengono al dramma della nostra memoria storica. La nuova psicologia delle masse non si costituisce più sull’identificazione verticale e idealizzante con il leader, ma si sbriciola in un flusso frastagliato di monadi. L’atomizzazione in questi ultimi decenni ha prevalso sulla massificazione.» (p. IX). Nel corso del libro l’autore registra in maniera accurata l’alternanza continua, sul piano collettivo e individuale, tra due posizioni estreme fra loro interconnesse.
Da una parte l’enfatizzazione neoliberale e neo-libertina di un godimento dissipativo e insaziabile: «La spinta compulsiva al consumo coincideva con il crollo delle contrapposizioni ideologiche e con la fine del primato della grande paranoia nella strutturazione dell’ordine politico e sociale dell’Occidente. In primo piano non era più l’identificazione idealizzante al capo, né la cementificazione di legami di massa solidi, ma la metamorfosi della mancanza in un vuoto smarrito, avido e impersonale che anela incessantemente al suo riempimento. È la metamorfosi sostenuta dal discorso del capitalista come Lacan lo ha decifrato, il cui dispositivo, anziché assicurare – come falsamente promette – la saturazione di quel vuoto, non fa, in realtà, che rigenerarlo continuamente. È la sua astuzia fondamentale.» (p. X). Dall’altra il ripiegamento identitario e neo-melanconico che segue al crollo della maniacalità perversa promossa dal turbocapitalismo: «Se osserviamo invece gli ultimi decenni legati alla grande crisi del sistema capitalistico nella sua evoluzione più recente e il suo impatto sulla vita collettiva, non possiamo non cogliere la profonda oscillazione di questo paradigma. L’assenza di argini e di confini propria della libertà del turboconsumatore ipermoderno si è via via tradotta in un sentimento diffuso di angoscia provocato dalla perdita di punti di riferimento simbolici stabili, ma soprattutto, ha fatto sorgere una nuova domanda di protezione e sicurezza. Siamo così passati dall’enfasi maniacalizzante relativa alla dissoluzione di argini e confini alla necessità del loro ristabilimento e del loro rafforzamento securitario» (Ivi). Questo transito – che non esclude di principio una certa reversibilità – viene sintetizzato in modo plastico da Recalcati, che evoca a titolo esemplare due figure assai note della politica italiana. Il consenso popolare, plasmato a monte dal discorso capitalistico, si esprime a valle nel passaggio di testimone (non privo di conflittualità) tra Silvio Berlusconi e Matteo Salvini. I proclami sovranisti e l’invocazione di nuovi muri e “porti chiusi” testimonierebbero, per Recalcati, una forma inedita di investimento pulsionale diretto non più verso l’altro – come esigerebbe il movimento creativo del desiderio – ma verso il confine/barriera in quanto tale. Da tutto ciò deriva una caparbia chiusura in se stessi, una specie di depressione armata che non tollera contaminazioni e incontri. L’identità si fa rigida e sprezzante, come risposta automatica agli effetti della globalizzazione economica e alla confusione dei confini istituita dagli scambi economici nel sistema-mondo. Tuttavia, come è chiaro a molti, questo antidoto è peggiore della malattia. Perversione e neo-melanconie si spartiscono così il campo del disagio contemporaneo e alimentano psicosi più o meno manifeste. Il libro, dopo un’introduzione ai nessi tra psiche e situazione culturale-politica odierna, si concentra maggiormente sulle dinamiche esplorate dalla psicoanalisi freudiana e lacaniana. Non mancano, a tal proposito, intuizioni interessanti.
Dobbiamo, per aiutare chi legge a penetrare nella coltre di un linguaggio che ha i suoi inevitabili tecnicismi, chiarire le coordinate minime del pensiero lacaniano, qui filtrato e reinterpretato originalmente da Recalcati. Soffermiamoci quindi, per come ne siamo capaci, sui capisaldi dell’impostazione condivisa dall’autore.
L’essere umano è abitato dal linguaggio e il fatto che sia un animale parlante lo definisce come animale atipico (e atopico), separato irrimediabilmente dalla possibilità di godere dell’immediatezza naturale degli istinti. Il linguaggio, aprendo una ferita nella vita di ciascuno di noi, schiude la dimensione del simbolico e rende possibile quella mancanza generativa che produce il desiderio. L’agognata fusione con la Cosa-Madre, dunque con quella pienezza naturale che è per definizione prelinguistica, è per noi destinata allo scacco.
Il linguaggio ci ha per sempre espulsi dall’Eden della coincidenza totale con il corpo-della-madre, infliggendo un taglio che ci immette nella storia e apre la vita singolare all’avventura tragica della scelta e dell’incontro. Il lavoro del lutto riguarderebbe, sotto questa luce, non solo e non tanto l’elaborazione delle perdite affettive che colpiscono tutti noi nell’arco dell’esistenza, ma la vulnerabilità strutturale che ci concerne in quanto umani.
La perdita della Cosa, della vita compiuta, istintiva, naturale e non ancora macchiata dalla separazione che le infligge il linguaggio, può essere accettata o negata ma è un dato di fatto evolutivo. Perversi e neo-melanconici sarebbero uniti, a ben vedere, dal bisogno angosciante di negare questa irrimediabile perdita. I primi si cimentano con questa impresa impossibile calandosi nel ruolo dei padroni del godimento. La loro ambizione è quella di tappare il buco della mancanza, riducendolo a una semplice privazione colmabile mediante atti ripetuti di appropriazione e godimento (il consumismo si regge su questa assurda pretesa di vivere in un eterno presente che cancella la morte, il fallimento, la perdita). I secondi, in cerca di una sovranità regressiva che tenga insieme l’autoconservazione e la presenza incessante della Cosa (si pensi alle dipendenze patologiche e alla connessione permanente ai dispositivi digitali che accomuna tutti o quasi i giovani), si spengono lentamente e inorridiscono al solo pensiero che la vita possa perturbare, soprattutto nella forma dell’alterità, il loro equilibrio statico faticosamente conquistato.
Dietro a queste negazioni della vita c’è, per Recalcati, la pulsione di morte, scoperta scabrosa e rivoluzionaria della psicoanalisi. La vita umana, insegna Freud, serba in sé anche una sconvolgente tendenza a tornare all’inorganico, una brama di annullamento che passa per la difesa accanita dei confini, per la protezione paranoica dell’identità personale contro qualsiasi tentazione di entrare in un serio cammino di soggettivazione. Meglio morti, insomma, che esposti all’apertura della trascendenza.
Recalcati può allora scrivere lucidamente: «L’inclinazione apparentemente maniacale del discorso del capitalista ha rafforzato una inclinazione neo-melanconica nei giovani che tendono a lasciarsi assorbire dalla presenza sempre presente dell’oggetto, trasfigurando l’oggetto in un oggetto-Cosa. Non è più l’oggetto che appare sullo sfondo del lutto della Cosa, ma è l’oggetto-Cosa a negare melanconicamente quel lutto. Mentre l’impulso eccitante del discorso maniacale sospinge verso il ricambio incessante dell’oggetto in una successione di presenti frammentati privi di continuità storica, questa nuova e particolare adesività all’oggetto – per esempio, all’oggetto tecnologico – rivela la corrente sottotraccia di questa spinta euforica: l’incollamento neo-melanconico all’oggetto, l’impossibilità di sostenere la sua perdita, il rigetto del lutto della Cosa. Una connessione perpetua all’oggetto-Cosa che diventa una forma radicale di sconnessione. L’esempio clinico tra i più emblematici è quello del ritiro regressivo di molti adolescenti che disertano la vita sociale per restare incollati al mondo virtuale che li assicura della presenza sempre presente dei loro oggetti. Il mondo dell’oggetto-Cosa sostituisce il mondo dell’incontro con l’Altro e le sue inevitabile turbolenze» (p. 141).
Il nostro tempo non può essere compreso, sul piano psicosociale, senza cogliere il crollo generalizzato delle capacità simboliche, della sublimazione e della tolleranza delle frustrazioni. Il “tutto-e-subito” del consumo e della retorica pubblicitaria è penetrato in profondità nel soggetto ipermoderno, sedimentandosi nel suo fondale psichico.
La famosa evaporazione del padre nelle società complesse rende difficile separare il figlio dalla madre per dilatare lo spazio del desiderio, che è sempre uno slancio verso l’alterità reso possibile da una presa di distanza dall’utero avvolgente della Madre-Cosa-Natura.
Desiderare significa, infatti, avviare un processo di soggettivazione originale, che impegna il singolo liberando le sue energie prima intrappolate nella bolla amniotica della ripetizione dello Stesso (godimento/melanconia). Il contributo “politico” della psicoanalisi, a conti fatti, sarebbe proprio quello di rimettere in moto la scelta, la presa di responsabilità sul destino che l’Altro (la famiglia e la società nel suo complesso) dispone per noi sin dalla nascita, ma che può essere assunto e trasformato se la persona prende coraggio e accetta l’eredità ricevuta aprendosi a un futuro diverso dalla mera ripetizione del medesimo. La psicoanalisi, per Recalcati, differisce da altre forme di terapia psicologica in quanto promuove non un adattamento o una riparazione dei “difetti” che ci impediscono di aderire al codice normativo del mondo, bensì un autentico processo di soggettivazione che riguarda il nostro modo di porci rispetto al destino. L’essenza dell’analisi è “tragica”, inerisce alla libertà e al desiderio, non certo alla norma e a un’idea di salute appiattita sul concetto di “benessere individuale”.
Recalcati può dunque affermare: «È questa la meta ultima di ogni analisi: fare emergere l’inconscio come apertura, possibilità, interruzione dell’automaton della ripetizione. Ma la “differenza assoluta” si può estrarre solo quando il soggetto si è radicalmente confrontato con il significato primordiale, coi significanti traumatici e irriducibili che hanno impresso la loro traccia sulla sua vita. Non dalla liberazione dalla loro presa, ma dall’assunzione soggettiva di questa presa, dalla ripresa singolare della loro presa» (p. 143).
Solo chi riconosce e assume fino in fondo i condizionamenti che provengono dalla famiglia e dalle generazioni precedenti, con tutto ciò che comporta il fatto di essere inscritti fin dalla nascita nel desiderio dell’Altro e di ereditarne anche i debiti (ovvero ciò che di irrisolto viene trasmesso inconsapevolmente ai nuovi arrivati), può in un secondo momento tentare di tracciare la sua rotta, di soggettivare un destino che non sia un copione già scritto.
Proprio qui, sul tema della trasformazione e della creatività psichica, ci è parso che l’autore minimizzi la rilevanza del conflitto sociale e spogli l’Altro dei suoi elementi culturali e politici, per ripiegare – in modo neo-melanconico? – sul romanzo familiare e sulle dinamiche che lo caratterizzano. Anche quando ribadisce che «la dimensione dell’ingovernabile contraddice [sia] l’ideale superomistico di cui il nostro tempo sembra vantarsi [che] l’ideale ipermoderno di una vita compiuta, sufficiente a se stessa, computerizzata, autonoma, capace di governare con sicurezza il proprio destino» le sue considerazioni non si spingono oltre il cerchio della vita individuale, lasciando fuori dal cono di luce la questione decisiva di una possibile trasformazione collettiva e di un superamento graduale del capitalismo in quanto tale. Questa titubanza si esprime, a mio avviso, nel capitolo del libro dedicato a “Denaro, mania e avidità della pulsione orale”. Qui l’autore individua la natura religiosa del denaro-capitale (non mancano appropriati riferimenti a Marx e Benjamin) e ci offre la distinzione tra due volti della pulsione appropriativa capitalistica: da una parte abbiamo la “passione anale” dell’avaro, di colui che trattiene e accumula denaro, preferendo non spenderlo per scongiurare simbolicamente il pericolo della perdita e della morte; dall’altra conquista il centro della scena una “pulsione orale” divorante e senza freni. «Il passaggio dalla fissazione anale a quella orale contraddistingue il capitalismo ipermoderno. È questo il tratto bulimico della passione ipermoderna per il denaro: divorare tutto alla ricerca della soddisfazione rinnovando, in realtà, sempre la stessa insoddisfazione. Il carattere religioso del capitalismo, il suo spiritualismo sovrasensibile, prigioniero del fantasma della colpa e del debito infinito, lascia il posto allo scatenamento della pulsione che rigetta ogni forma di debito simbolico. Per questa ragione Lacan attribuisce al discorso del capitalista la forclusione della castrazione» (p. 105).
La brama del godimento ipermoderno, secondo Recalcati, romperebbe la cornice classica del capitalismo opponendosi alla parsimonia e all’etica dell’impegno, del risparmio e della laboriosità che l’hanno caratterizzata per lungo tempo.
Lo scatenamento pulsionale, così evidente nel consumismo e nelle dipendenze patologiche indotte dai mercati, scinderebbe sempre di più – come fa la finanza mondiale – il denaro dalla produzione, il piacere dal lavoro. Non accettare la castrazione simbolica e il debito verso coloro che ci mettono al mondo, significa impedire l’accesso all’età adulta e infantilizzare il soggetto lasciandolo in balia della Cosa-Madre. Se questo è vero sul piano psicoanalitico, ci sembra tuttavia che l’esame di Recalcati sul valore (il denaro) che raffigura l’idolo dei nostri tempi non colga la genesi originaria del capitalismo e ce lo restituisca come un sistema prima bilanciato e poi, per motivi misteriosi, attirato senza via di scampo nella spirale di una frenetica pulsione di morte.
Scrive Recalcati: «In primo piano non è più il capitalista weberiano chiuso nel suo tinello, che, come ricordava di sé un famoso vecchio capitalista italiano, vive monacalmente, mangia carne in scatola e beve acqua del rubinetto non tanto e non solo per risparmiare, ma perché quella rinuncia al godimento è una postura di fondo del suo essere e condizione stessa – unita alla sua laboriosità – dell’accumulazione del capitale. [Nel] secondo volto del capitalismo emerge invece il godimento orale del denaro, lo sperpero e non l’accumulo, la dissipazione e non la conservazione, il dispendio e non l’accumulazione, la febbre della gola e non il carattere ascetico della ritenzione anale» (p. 104).
A dire il vero ci sembra che questa metamorfosi dello spirito capitalistico possa stupire solo chi muove la sua analisi da una preventiva rimozione (parola cara agli psicoanalisti) della storia concreta del capitale. La violenza e l’eccesso appartengono da sempre a questo modello socioeconomico e ai suoi rapporti di produzione.1 L’accumulazione originaria di cui parla Marx testimonia del nesso costitutivo tra accumulo e dispendio, razionalità strumentale e scatenamento di forze rapaci e perverse.
Del resto, il colonialismo non è stato forse una premessa necessaria per accendere il motore della modernità occidentale proiettando all’esterno del perimetro europeo le ombre di un potere che, in abbinata con i nascenti stati nazionali, si preparava lentamente a stravolgere il nostro stesso tessuto religioso, culturale ed economico? È dunque possibile affermare, vincendo le reticenze di Recalcati, che il codice genetico stesso del capitale aveva inscritto in sé un itinerario di realizzazione progressiva della logica di accumulazione/consumo su scala planetaria.2
Accumulazione e sperpero, come vediamo anche nell’odierna fase del sistema, sono concetti che si fingono opposti, ma sono profondamente complici. Non si darebbe capitalismo se non si potesse accrescere il capitale e se, in parallelo, non si intimasse ai popoli di “far girare” l’economia. La questione centrale, dopo il tracollo mondiale del 2008 e la cosiddetta crisi dei debiti sovrani, è piuttosto la seguente: il capitalismo non può rinunciare all’espansione, al culto della crescita infinita e all’immaginario tossico del consumo, ma oggi chiede a una massa crescente di cittadini (non solo europei) di stringere la cinghia, di pagare gli interessi, di non fare il passo più lungo della gamba. Siamo, sul piano comunicativo, di fronte a quello che Gregory Bateson ha reputato essere un “doppio legame” patogeno. In altre parole, si intima di essere parchi e di evitare debiti proprio mentre tutto l’immaginario propinato dai mass media glorifica la ricchezza, la spregiudicatezza e l’ostentazione.
La tendenza regressiva del sovranismo populista (che talora sparuti gruppi di ultrasinistra cercano di egemonizzare non rendendosi conto di andare al rimorchio delle destre e di essere destinati alla sconfitta) può essere letta in modo adeguato solo se viene intesa come prevedibile rovesciamento della maniacalità neoliberista, ma anche come risposta reazionaria che alcuni strati sociali producono per far fronte alle richieste paradossali del sistema stesso.
Se i poteri contemporanei della moneta fanno dell’uomo un essere indebitato per definizione, costringendo i ceti medi e popolari alla ricetta insensata e brutale delle politiche di austerity (si pensi al popolo greco e alla “cura” velenosa che la troika ha voluto imporgli, pur sapendo che quel debito non è in alcun modo ripagabile), non deve stupire che, in mancanza di un progetto politico di fuoriuscita sostenibile dal capitalismo, un numero crescente di persone voglia difendere i propri possedimenti dalle grinfie di esseri umani che vengono dalla miseria e non hanno nulla da perdere se non la propria vita biologica. Il successo della Lega in Italia, per fare un esempio di triste attualità, non sorge certo da un interesse per le paure comprensibili di chi ha perso diritti, lavoro e tutele in maniera apparentemente irreversibile, ma dalla capacità di saldare piccoli e grandi egoismi, impastando la farina della recessione economica con l’acqua sporca di pregiudizi e razzismi mai sopiti nel nostro tormentato paese.
La trappola del debito,3 a cui Recalcati non dedica la dovuta attenzione, scatta senza mettere in discussione l’ideologia ancora imperante del potenziamento continuo, dello sballo, dell’affermazione narcisistica e dell’innovazione tecnologica fine a se stessa.
Sul piano psicopolitico il vero problema che stiamo collettivamente attraversando non ci pare, dunque, quello di rifiutare in modo infantile il debito simbolico che, nella visione lacaniana e di Recalcati, va comunque assunto rispetto alle generazioni precedenti, bensì la nostra incapacità di mettere in discussione radicalmente la logica del debito per come è stato costruito a tavolino dalle élite neoliberali, smascherando il suo legame sotterraneo con i messaggi invadenti della pubblicità e del sistema spettacolare-integrato.
Se, come rileva l’autore de “Le nuove melanconie”, è vero che la retorica dei porti chiusi, dell’espulsione e della difesa paranoica dei confini, mantiene una relazione dialettica con la sregolatezza delle politiche deterritorializzanti del capitale, forse sarebbe opportuno spingere questa intuizione fino in fondo: finché ci sarà capitalismo ci saranno dismisura e caos sotto le mentite spoglie di un ordine assoluto che invoca a sua difesa dei fantomatici meccanismi di autoregolazione del mercato.
Se vogliamo radicalizzare a ragion veduta le considerazioni del noto psicoanalista italiano, potremmo affermare che, nell’ipermodernità, il lutto che molti non vogliono fare è quello relativo alle promesse del capitalismo, divenuto orizzonte unico per gran parte dell’umanità dopo la caduta (ormai trentennale) del muro di Berlino. I segni rovinosi della perversione maniacale e delle neo-melanconie, visti in un’ottica sociologica e filosofica, dicono di un’impotenza collettiva a immaginare altrimenti e ad avviare l’esodo in massa dal capitalismo.
Sono, entrambe, fissazioni patologiche che testimoniano il fallimento del totalitarismo di mercato e l’assenza concomitante di alternative credibili. Non a caso la gravità dell’emergenza climatica e ambientale sembra incarnare oggi, in mancanza di forze sociali organizzate, l’unica spinta a trasformare l’esistente prima che sia troppo tardi.
Ma questa trasformazione, se non vogliamo condividere a nostra insaputa l’accento maniacale dell’epoca in cui viviamo, non può essere pensata come istantanea e globale. Non possiamo avere fretta, nonostante i tempi per invertire la marcia siano stretti. Questo è il dilemma che dobbiamo accettare nel ventunesimo secolo: il sistema va cambiato radicalmente, il tempo scarseggia, ma non si può credere di imporre con la forza, in fretta e furia, quella conversione spirituale e culturale che deve accompagnare necessariamente una vasta riconversione ecologica della produzione e del consumo. Dobbiamo promuovere una nuova misura negli stili di vita che non neghi, tuttavia, ciò che di ingovernabile e singolare portano con sé gli esseri umani. L’ingovernabile, come scrive Recalcati nell’ultima parte di questo bel libro, può essere solo ospitato, ma mai dominato e silenziato. Dobbiamo, insomma, opporre al capitalismo non una idealizzazione astratta di convivenza, ma una serie di pratiche di vita e di produzione/consumo capaci di dare nuova voce a quella pulsionalità che caratterizza l’umano, la sua inquietudine e la sua nostalgia di infinito. Se vogliamo liberarci dal cattivo infinito quantitativo promosso dal capitale, è necessario penetrare il segreto del capitalismo stesso nel suo gioco perverso di frustrazione e desiderio mimetico, con lo scopo di liberare un desiderio finalmente creativo come quello che troviamo nella poesia, nell’arte e nella spiritualità non dogmatica. Qui ritroviamo un nesso importante tra politica e psicoanalisi, se abbiamo il coraggio di pensarle come due facce di un’unica medaglia, come forme cooperanti di una complessa “cura” del presente ormai irrimandabile.
È sorprendente, in tal senso, come Recalcati riesca, nel parlare psicoanaliticamente del sintomo, a descrivere in maniera accurata la logica segreta del capitalismo: «Diversamente dalla natura evanescente di tutte le formazioni dell’inconscio – il sogno, l’atto mancato, il motto di spirito, il lapsus –, il sintomo ha la caratteristica della permanenza solida, tende a durare. Non c’è, infatti, sintomo senza ripetizione. È questa una cifra essenziale che rivela l’appartenenza del sintomo al registro del reale. La sua ingovernabilità coincide con la sua inerzia ripetitiva; il sintomo non passa, non si traduce in altro, resiste a ogni trasformazione. […] Di qui la sua monotonia; il godimento del sintomo non genera apertura ma chiusura; è un godimento dello Stesso; è godimento dello Stesso godimento. Per questa ragione l’ultimo Freud associa il sintomo all’orizzonte dell’al di là del principio di piacere e della pulsione di morte. La ripetizione del sintomo tende a comportare una chiusura della contingenza illimitata del mondo; la ripetizione del sintomo esclude il nuovo perché riduce il nuovo allo Stesso.» (p. 152). Il fatto che ci colpisce è che Recalcati sembri riferire questi tratti decisivi del sintomo patologico alle sole vicende biografiche degli analizzanti o, per estensione, al ripiegamento identitario che denota, negli ultimi anni, la vita dei paesi sedotti dal carisma dei nuovi populismi. Sul versante politico, la sua si rivela una critica dirottata principalmente sui sovranismi che stanno minacciando ed espugnando il vecchio centro del capitalismo mondiale (Europa e Stati Uniti d’America). Ma non è possibile che, contemporaneamente, la ripetizione fatale dello Stesso sia proprio il nucleo “metafisico” del dinamismo del capitale, il suo fantasma inconscio che infesta le nostre notti e i nostri giorni? Le chiusure razziste e securitarie a cui assistiamo con grande preoccupazione, vogliamo interpretarle come l’altra faccia simmetrica e complementare di un sistema che si fonda di principio sull’iterazione degli atti di consumo e dell’accumulazione di denaro. D’altronde il regno della quantità è anche e sempre quello dell’identico, dell’uniformazione forzata, della sussunzione delle differenze dentro la cornice “monoteista” dell’Uno del potere.4
In conclusione, nel consigliare la lettura di questo libro sicuramente prezioso e stimolante, non ci abbandona la sensazione che Recalcati si sia fermato un passo prima della soglia che siamo tutti chiamati ad attraversare: la malattia che dobbiamo curare, e che nelle stanze d’analisi irrompe obliquamente mescolando alle storie di attaccamento dei singoli l’immaginario collettivo e la reale entità dei rapporti di dominio, va rintracciata nell’inconscia e residua adesione al capitalismo e al suo comando, che impedisce, ancora a troppi di noi, di pensarne la morte e di elaborarne il lutto. Se la pulsione securitaria prende campo, come sta avvenendo di recente sotto i nostri occhi, ciò accade perché, come suggerisce Recalcati in un bel paragrafo sull’ingovernabile del trauma, nulla è più traumatico dell’irruzione dell’intruso nelle nostre vite. Un’irruzione che la barriera del simbolico non riesce a filtrare e a rendere pensabile (e “sognabile” direbbe Wilfred Bion).
Allora, in definitiva, siamo di fronte – come abbiamo già notato altrove –5 a una dinamica essenzialmente traumatica che esige nuove forme di cura che coinvolgano la politica, l’ecologia, l’educazione e le professioni di aiuto che si dedicano ai processi di individuazione e soggettivazione nell’era del calcolo economico.
Il trauma del capitalismo e della guerra di tutti contro tutti, con i loro effetti incrociati (diseguaglianze sociali, cambiamenti climatici, esplosione dei flussi migratori), va riconosciuto come tale per intraprendere un cammino inedito di emancipazione dal pensiero unico e dalla paura di fare storia.
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