È in libreria il volume di Giancarlo Bosetti, La verità degli altri. La scoperta del pluralismo in dieci storie. Bollati Boringhieri, 2019, pp. 200, 19 €. Anticipiamo qui le prime pagine dell’introduzione.
Momenti d’oro del pluralismo
Già, la verità degli altri, la Verità degli Altri, l’assoluto degli altri, il Dio degli altri. Un bel problema.
Fin dall’inizio dei tempi di homo sapiens ci figuriamo di nascere figli unici delle entità celesti. E di stare al centro dell’universo. Dove nasciamo è il perno su cui tutto ruota, l’Axis Mundi, o l’«albero del cosmo», con le radici negli inferi e la sua cima in cielo, un albero che veniva rappresentato nella tribù da un palo, a cui lo sciamano appoggiava la scala per salirci sopra. Nei casi più semplici, l’«albero del cosmo» era il palo che reggeva la tenda dove si dormiva, con un buco non solo per farne uscire il fumo, ma per comunicare con le alte sfere dell’al di là. Disturbante, irritante è che quando la tribù allarga il raggio dei suoi movimenti verso altre radure, altri boschi, altre vallate, scopre improvvisamente un’altra tribù che celebra riti con un altro palo, altre danze, altri canti. Altri totem e altri tabù. Uno shock, che incrina certezze e provoca confronti e pensieri.
Dunque, se è quello vero il suo, di palo, sarà vero anche il mio? O no?
I filosofi che inventano, molto tempo dopo, parole per queste situazioni dicono per esempio: ecco l’inizio del viaggio mentale dal «monismo ingenuo» al «dualismo critico». Un bel progresso. È la scoperta che non siamo figli unici, ma parte di una fratellanza vasta e variegata, una scoperta che non finisce mai: sempre altri pali e riti e lingue e colori e facce. Una dannazione? O una benedizione? Il mito della torre di Babele, un altro «albero del cosmo» alla sua maniera, è anche un enigma biblico, ancora da sciogliere. Dio ha voluto «confondere» gli ardimentosi costruttori condannandoli a parlare lingue diverse, perché urtato dalla loro ambizione a raggiungerlo in cielo? O non era per caso annoiato dalla monotonia della loro uniforme parlata?
Vissuta dalla parte di una tribù, la scoperta della verità degli altri è una ferita, è come un tradimento. La ferita poi si rimargina, quando le cose vanno bene, e quel che sembrava un tradimento diventa un beneficio: battaglie sì, e scorre sangue, ma poi arriva dalla convivenza anche altro sapere, altre risorse, invenzioni e combinazioni. Ma ci vuole del tempo. Un nome adatto per questa guarigione è «tolleranza»; un altro nome escogitato dai filosofi, dopo quello di «dualismo» (cioè, non ci siamo solo noi, c’è dell’altro), è «pluralismo» (cioè, siamo tanti e diversi).
Ma andiamo con ordine, una cosa alla volta, per spiegare meglio questo libro dove voglio raccontare delle storie e delle idee di un gruppo scelto di eroi del pluralismo e della tolleranza, storie diverse, eterogenee, ma con qualche filo che le lega insieme. Forse.
Quella tendenza naturale a considerarsi il centro del cosmo ha un nome appropriato: «etnocentrismo». Ma pensate che ci sono voluti millenni per inventare la parola, che è entrata nelle enciclopedie soltanto nel secolo scorso ad opera di tale William Graham Sumner, dopo che ebbe pubblicato un libro di sociologia, intitolato Folkways (usi e costumi), nel 1906. Questi era un professore di Yale, molto conservatore, per niente radical-chic, ma con una forte inclinazione a individuare la tendenza di ogni gruppo sociale a considerarsi il centro di tutto e a classificare gli altri usando sé stessi come metro di misura. Questa devozione – diceva – verso l’in-group (il «noi» al centro, famiglia, tribù, popolo) comporta «un senso di superiorità verso ogni out-group» (loro, gli altri, i cerchi concentrici esterni sempre più larghi), spinge alla difesa degli interessi del primo contro i secondi – scrisse – e «merita tecnicamente il nome di etnocentrismo».
Erano gli anni della prima fioritura dell’antropologia culturale, quella di Franz Boas (e dei suoi seguaci: i Boasians). Lui fa parte del manipolo eccellente di cui qui si racconta, attraverso due sue allieve di successo, Margaret (Mead) e Ruth (Benedict), che lo chiamavano Papà Franz e divennero anche più famose di lui, aprendo la via, specie la prima, alla liberazione sessuale (un ottimo derivato del pluralismo). Lui, Boas, era uno che pensava – e ci era arrivato studiando sul campo i nativi americani – che bisogna riconoscere una cosa imbarazzante, e cioè che il valore che attribuiamo alla nostra cultura dipende dal fatto che ne facciamo parte e che questa cultura ci ha nutrito al suo interno fin dalla nascita. Dovremmo quindi abituarci all’idea che anche altre culture, diverse per i loro valori, per l’equilibrio tra emozioni e ragioni e tante altre cose, non sono di minor valore, anche se non riusciremo davvero ad apprezzarle non essendo cresciuti al loro interno. Si può però lavorare di immaginazione. Quella scuola di pensiero stabilì un principio: che non ci sono razze o culture inferiori, o superiori. Un altro dei boasians disse chiaramente: ogni giudizio comparativo che sostenga che quel popolo è meglio di quell’altro è un gioco «con i dadi truccati». Questo si chiama «relativismo culturale» ed è un metodo di lavoro per gli antropologi. Ma in realtà è qualche cosa di più, che riguarda anche gli altri.
E qui apriti cielo, la parola relativismo rimbomba come un attentato terroristico. E continua a rimbombare, anche se dove la cultura della tolleranza ha fatto strada, nelle «società aperte» si è imparato a conviverci. Anche questo è un confronto, direte, perché stai scrivendo che le società aperte sono meglio delle altre. Sì, certo che è così: la tolleranza è meglio del suo contrario. Anche se capisco la contraddizione con cui nelle pagine che vengono avremo a che fare. Ma nel corso delle storie che troverete qui impareremo anche a convivere con il problema, sempre da risolvere in modo pragmatico e ragionevole, che il relativismo culturale non ci consegna all’impotenza di fronte, per esempio, alla pratica di lapidare le adultere negli stadi come d’uso tra i talebani in Afghanistan o allo sterminio col gas di un villaggio curdo, come d’uso in Siria. Nel senso che un pluralista di mente aperta non reagisce dicendo: lì usa così, pazienza. Il numero dei valori culturali diversi e in conflitto tra loro può essere lungo, ma non è infinito e non ci sta dentro tutto. Da esseri umani sappiamo compilare una lista di cose da escludere. E nel tempo la sappiamo perfezionare. Dopo tutto la Carta dei diritti del 1948 non è l’improvvisazione di uno squilibrato.
Nelle società aperte, dunque, e purtroppo non in tutte le altre, una dose di relativismo culturale (che non è la stessa cosa di quello morale) è diventata un ingrediente indispensabile della buona educazione. Ma attenzione, i tentativi di arretrare e di mettere «l’albero del cosmo» a casa propria continuano e la devozione per la nostra «superiorità» non finisce mai. Il richiamo della foresta è chiaro e forte e lo potete bene riconoscere ogni volta che sentite il lamento sulla perdita dell’«orgoglio», sulla caduta dell’«amor proprio», addirittura sulla «viltà» dell’Occidente, che ha perso il «coraggio» di far tuonare i propri valori, tanto «migliori» di quelli degli altri. E quando si tratta di «tuonare», naturalmente vengono in mente i cannoni, che oltre a far vittime, confermano chi riceve le cannonate nell’attaccamento al suo proprio in-group, al suo «noi», e lo conferma magari nella sua «superiorità morale», nel proprio «coraggio» e «orgoglio». Codici d’onore che sopravvivono, nostalgie etnocentriche dei bei tempi quando potevamo chiamare «selvaggi» i «selvaggi». La devozione etnocentrica scatena spirali di aggressività ed è sempre in agguato, anche tra i «selvaggi», si capisce. La vedo in azione ogni volta che, in un comizio, in un editoriale, in un talk-show, si dà fiato al desiderio di rompere le righe della famosa esecrata «correttezza», di mettere fine all’egemonia di una cultura «troppo tollerante», troppo lamentosa, troppo piena di scrupoli verso le differenze culturali, verso le minoranze, verso gli altri, i diversi, verso una lista infinita di cose e di parole – pervertiti sessuali, handicappati, ciechi, sordi, grassoni, negri e barboni – che non possiamo più dire.
«Monismo» è una bella parola per descrivere il vizio di homo sapiens che sempre si riaffaccia, il vizio del figlio unico, titolare della Verità, della unica Vera prospettiva che dà senso al tutto, che stabilisce il grado di qualità degli altri, che guida la classifica, che dà il punteggio a tutte le squadre, che siano squadre con la casacca di una lingua o di una religione, una morale, un colore, un ethnos diverso dal nostro. Il monismo è duro da risvegliare al pluralismo della realtà, dal sonno della tribù in cui è cresciuto. Insieme all’etnocentrismo costituisce lo strato roccioso che il suo avversario di sempre, il pluralismo, cerca di corrodere e sciogliere.
E noi qui raccontiamo le storie di chi ci ha provato, lasciando un segno. Qualcuno ha vinto, qualcuno no, è stato sconfitto, ma tutti ci hanno regalato un tesoro da cui possiamo ancora attingere….
La verità degli altri è disponibile in libreria e su amazo
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