Il dibattito intorno agli anni Sessanta non si è esaurito: ci si domanda ancora se siano stati anni in cui un normale cambiamento generazionale assunse dimensioni inaspettate e si trasformò in una svolta irreversibile, o se – come dichiarò John Lennon – alla fine del decennio, tutto era rimasto uguale, con l’unica differenza che c’era più gente in giro con i capelli lunghi.
Fu solo un aggiustamento del mercato che aveva scoperto l’esistenza di un nuovo gruppo di consumatori, i giovani, pronti a spendere in settori in espansione come la musica o la moda, oppure questo processo produsse conseguenze impreviste? Nel caso del Regno Unito, come indica il sottotitolo del libro di Silvia Albertazzi, Questo è domani Gioventù, cultura e rabbia nel Regno Unito, 1956-1967 (paginauno, pp. 220, € 20,00). La data da cui tutto iniziò a cambiare (almeno apparentemente) è il 1956. In febbraio, la prima uscita pubblica del Free Cinema (con tre cortometraggi di Lindsay Anderson, Lorenza Mazzetti e Karel Reisz/Tony Richardson), in maggio la prima di Ricorda con rabbia di John Osborne e in agosto la mostra This is Tomorrow, nella quale esposero i giovani artisti che avrebbero dato vita alla Pop Art inglese.
In ognuno di questi tre fatti culturali, di cui trattano i tre capitoli del libro, Albertazzi individua percorsi in continuo dialogo fra loro che toccano il cinema, la musica, il teatro e le arti, con scarso spazio per il romanzo, poco in sintonia con le tendenze più interessanti del periodo: l’unica eccezione è quella di Alan Sillitoe, sulle cui opere Albertazzi si ferma, in un colloquio con i film tratti dalle sue opere.
Come scrive Anderson, «il cinema riflette, molto più immediatamente delle maggior parte delle arti, il clima e lo spirito di una nazione» ed effettivamente il film di Richardson del 1962 The Loneliness of the Long Distance Runner (in italiano Gioventù, amore e rabbia), tratto dal racconto omonimo di Sillitoe a cui sono dedicate pagine particolarmente intense, è fondamentale per comprendere il cambiamento in corso nella società e nella cultura inglese all’inizio degli anni Sessanta.
Al cinema si torna costantemente, ma ciò che più interessa, in questo libro, è la capacità di muoversi fra musica, arti visive, film e letteratura per costruire un quadro, fluido e mai superficiale, di quel clima e di quello spirito della nazione inglese di cui parlava Anderson, della vivacità che li contraddistinse a partire dalla riscoperta della gente comune nel Free Cinema, della manipolazione delle immagini del consumismo americano nelle opere della Pop Art inglese, delle macerie del passato imperiale osservato con rabbia nell’opera di Osborne.
Anche chi conosce, o crede di conoscere bene gli anni Settanta inglesi, troverà fra queste pagine, scoperte impreviste, come la storia di Pauline Boty, la cui tragica morte nel 1966, a ventotto anni, fece dimenticare il suo ruolo centrale nella nascita e lo sviluppo della Pop Art inglese; o quella dell’americana Jann Haworth che, insieme a Peter Blake, allora suo marito, è l’autrice della famosa copertina di Sgt. Pepper dei Beatles, immancabilmente attribuita al solo Blake, ma cui lei contribuì in modo sostanziale con le sue soft sculptures.
Dietro il necessario distacco critico, si avverte, concreta, la passione dell’autrice per gli argomenti che via via le inducono riflessioni reiteratamente messe alla prova, e nei quali trascina chi legge. Originata da una notazione di Julian Barnes, la considerazione finale è che pochi vissero quell’affascinante e utopico «domani», anticipato nelle mostre degli anni Cinquanta, immaginato nelle canzoni degli anni Sessanta, troppe volte dato già per realizzato. Molti non poterono fare altro che sognarlo e altri ancora si rifiutarono perfino di vederlo: il domani, quel domani, non era di tutti e non fu per tutti.
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